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Ferdinand Gregorovius, uno storico poeta

Ferdinand Gregorovius, storico tedesco dell’Ottocento, fu un grande innamorato dell’Italia, della sua storia, della sua arte e della sua civiltà, tanto da eleggerla a sua seconda patria. Di lui si ricorda una poderosa "Storia della città di Roma nel Medioevo", in cui coniuga con sapienza magistrale il rigore della ricerca filologica ed erudita e una straordinaria capacità di rievocazione, sorretta da un raro talento letterario; una "Storia della città di Atene nel Medioevo", opera gemella della prima; una interessante biografia di Lucrezia Borgia; una biografia dell’imperatore Adriano; racconti e poesie (tra cui un poemetto d’ambientazione classica, "Euforione"; un saggio su "Gli imperi universali nella storia"; e un bellissimo libro di viaggio, "Anni di pellegrinaggio in Italia", commovente testimonianza dell’amore ch’egli ebbe per il nostro Paese.

I.

Ferdinand Gregorovius fu un grande poeta e un grande storico. Innamorato dell’Italia con tutto sé stesso, tanto da eleggerla a sua seconda paria, le diede, nei suoi scritti, un pegno d’amore commovente, quale pochi intellettuali italiani le tributarono con eguale sincerità e devozione. Egli era ugualmente affascinato dalla sua natura, dalla sua storia, dalla sua arte, da tutto il suo glorioso passato che tanto a lungo costituì un faro di civiltà per l’Europa e il mondo. Viaggiatore instancabile, la percorse tutta – anche e specialmente a piedi – soffermandosi con amore a contemplare le sue piazze e i suoi castelli, le sue colline e i suoi mari azzurri, i suoi boschi e le sue rovine. Non limitandosi a visitare i luoghi più noti e celebrati dalla tradizione, volle scoprire anche gli angoli più nascosti e suggestivi; si spinse a cavallo su per le sue montagne solitarie, pernottò negli sperduti conventi dei frati; attraversò rapito le sue foreste e visitò le sue antiche rocche dove pare indugiare lo spirito del Medioevo. Ne studiò la storia e le tradizioni, fino a impadronirsene più compiutamente di molti studiosi italiani. Lavorò instancabile nelle sue polverose biblioteche, spossandosi nella calura soffocante dell’estate, quando l’aria di Roma era ancora infestata dalla malaria delle vicine paludi. E tutto egli contemplava e intraprendeva con spirtito vergine, come di fanciullo, assaporandoo il piacere della scoperta. E a Roma, dove visse per molti anni, concepì e scrisse la sua opera grandiosa, la Storia della città di Roma nel Medioevo, maestosa e solenne come il fiume Tevere sopra il quale, camminando lungo il ponte dell’isola di San Bartolomeo, gli era balenata l’ispirazione, nel 1853.

Il regno della bellezza, che egli amorosamente inseguì e descrisse, non è più – o forse non è mai stato. E oggi che anche nel mondo della cultura infuria la piena limacciosa della civiltà tecnologica e dei suoi miti aberranti, il nome di questo storico-poeta sta cadendo nell’oblìo, insieme alle sue opere. La cosiddetta storiografia scientifica dei nostri giorni ha scoperto di non aver bisogno di simili storici, e la poesia dei nostri giorni, malata di spertimentalismo furbesco e di nichilsmo à la page, ha scordato il suo nome.

Questo breve scritto vuole essere un omaggio alla memoria di Ferdinand Gregorovius, i cui libri hanno continuato ad essere letti fino a che non si è interamente smarrita la capacità di intendere l’unità profonda e indissolubile di verità e bellezza. Oggi, pare che per fare il mestiere di storico sia opportuno scrivere piuttosto male; altrimenti qualcuno potrebbe pensare – horribile dictu – che egli intenda fare della poesia. Mentre la storia, si sa, è una cosa seria, cioè una scienza. Logica conclusione, dal momento che gli scienziati – come ha osservato Paul Feyrabend – non solo si sono arrogarti il diritto di stabilire che il loro, e solo il loro, è un sapere di primo livello, ma anche quel che la società debba ritenere importante – guarda caso, la scienza – e cosa no – ossia, tutto il resto.

A nostro giudizio, inveve, Gregorovius fu al tempo stesso un grande poeta e un vero storico; diciamo meglio: fu un vero storico appunto perché ebbe il dono di essere uno storico-poeta.

II.

Ferdinand Gregorovius nacque il 19 gennaio 1821 a Neidenburg, nella Prussia Orientale, non lungi dalla frontiera con la Russia e che un tempo era stata la frontiera del glorioso e sfortunato regno di Polonia. La sua famiglia, benché stabilita da trecento anni nella Masuria, era di origine polacca e un tempo aveva portato il nome polacco di Gregorzewski. Il padre di Ferdinand, Timoteo, era consiglire di giustizia e aveva già avuto sette figli, si era trasferito a Neidenburg meno di un anno e mezzo prima della nascita dell’ottavo. La famiglia Gregorovius, comunque, si sentiva ormai tedesca, pur senza rinnegare le proprie radici slave; anzi, la simpatia per il nobile popolo d’origine ispirò una delle opere giovanili del futuro scrittore. I suoi antenati, per la maggior parte, avevano percorso la carriera di magistrati o di pastori evangelici.

Il Gregorovius trascorse nella casa paterna i primi anni della sua vita, fino al 1831. Fu in quel periodo che si verificarono due avvenimenti importanti: lo scoppio della rivoluzione polacca, repressa nel sangue dalle autorità zariste, e per la quale egli parteggiò entusiasticamente; e la morte della madre, poco prima della sua partenza da Neidenburg. In seguito egli avrebbe sempre ricordato la casa natale, i boschi di abeti e gli stagni e i laghetti fra le colline.

Frequentò il ginnasio di Gumbinnen, in quella parte della Prussia Orientale prospicente la frontiera della Lituania: un paese anch’esso di laghi e di foreste di conifere, tra le quali, immensa, la Foresta di Rominten. A Gumbinnen il Gregorovius era ospite nella casa di uno zio paterno che svolgeva, come il padre, la professione di consigliere di giustizia. Frattanto la famiglia dello scrittore si era trasferita nel vecchio castello dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico, che, restaurato, ospitava adesso il tribunale di Neidenburg. Ancora ricordi del passato, ancora una presenza quasi tangibile delle ombre medioevali. Questa circostanza, insieme al paesaggio maestoso e al tempo stesso malinconico della regione, esercitò un fascino potente sulla sensibilità romantica del Gregorovius.

Politicamente, la famiglia dello scrittore rappresentava la borghesia tedesca di tendenza liberale, che in quegli anni stava vivendo il tramonto dei propri genuini ideali. Il liberalismo costituiva ormai, per essa, poco più che un retaggio del passato, un vestito sempre più logoro nella società germanica che la Prussia si apprestava a riunificare dall’alto, in maniera autoritaria, gettando le basi dello "Stato forte", militarista e imperialista, sotto il ferreo pugno di Bismarck. Ma negli anni ’30 la crisi non era ancora esplosa e il liberalismo della borghesia tedesca era ancora idealistico e sincero, ispirato talvolta al più schietto romanticismo. Così, nel 1833, un fratello del Gregorovius partì per combattere in Grecia a fianco di quel popolo, contro il dominio turco; così, nel 1848, lo stesso Ferdinand, giovane di ventisette anni, pubblicò un opuscolo intitolato L’idea polacca, esaltando la lotta dei popoli per la conquista della libertà.

III.

Nel 1838, a diciassette anni, il Gregorovius terminava il liceo e iniziava gli studi universitari nella capitale della Prussia Orientale: Königsberg, la città di Kant. Assecondando il desiderio paterno, egli frequentò la Facoltà di Teologia, ma senza un vero entusiasmo; sia perché non era intimamente portato verso quel genere di studi, sia per la mediocrità dei professori, che egli giudicherà poi tutti, tranne il von Leugerke, in maniera severa, accusandoli di vuota pedanteria. Già allora si manifestava, nel suo spirito intelligente, una repulsione istintiva per l’erudizione fine a sé stessa, per una cultura vecchia e nozionistica, pesantemente arroccata in una concezione del sapere accademica e presuntuosa. Su questi temi si sarebbe più tardi scontrato con l’ala più retriva e miope della scuola storiografica tedesca, tutta intesa a bandire ogni "sentimentalismo" dalla sfera dei suoi interessi, in nome di una pretesa oggettività di tipo scientifico.

Nel 1841, sostenuti gli esami di teologia, Gregorovius lasciò l’università, ormai ben convinto che non sarebbe stata quella la sua strada. I suoi interessi prevalenti erano, in quegli anni, di natura filosofica. Lasciata Königsberg, fece il precettore nella natìa Neidenburg e in altre cittadine del paese, attendendo frattanto agli studi di filosofia nell’Università di Königsberg. La sua dissertazione di laurea, discussa nel 1844, si intitolava Sul senso del bello in Plotino e i neoplatonici e già dimostra come, sotto quelli filosofici, premessero in lui, per farsi strada, altri interessi più vicini alla sua vera indole, e cioè, in primo luogo, estetici. Nel 1845 pubblicava il suo primo libro, un romanzo dal titolo Werdomar e Wladislaw, d’ispirazione interamente romantica; l’anno dopo faceva ritorno a Königsberg, ove si sarebbe fermato sei anni. Esercitava adesso l’insegnamento, ma continuava la sua attività letteraria e cominciava a volgersi più decisamente verso il campo della storia, e specialmente della storia antica.

Dopo il già ricordato L’idea polacca, del 1848, pubblicava nello stesso anno Il ‘Wilhelm Meister’ di Goethe nei suoi elementi socialisti; nel 1849 Canti polacchi e magiari; e nel 1851 un dramma storico, La morte di Tiberio. Proseguiva intanto nei suoi studi storici e, incoraggiato dallo storico Drumann (che era stato, insieme al Voigt, suo professore all’università) dava alle stampe nel 1851 il suo primo lavoro storico, una Storia dell’imperatore Adriano e dell’età sua (Geschicte des römischen Kaisers Hadrian in seiner Zeit; terza edizione, Stoccarda, 1884). Ricordiamo che a Basilea, due anni dopo, usciva L’età di Costantino il Grande (Die Zeit Konstantins des Grossen, 1853) del Burckhardt, che rivelava, già nel titolo, una certa influenza dell’opera di Gregorovius.

Nel suo studio sull’età dell’imperatore Adriano (tradotta e pubblicata in Italia, per la prima volta, nel 1910), il Nostro si accostava per la prima volta, in maniera organica, al grande passato di Roma, che sarebbe divenuto la passione principale della sua vita di studioso, non come puro interesse archeologico ed erudito, ma come esigenza profonda di rievocazione. Gregorovius, per usare un’espressione di un altro grande storico, l’olandese Johan Huizinga (autore del celeberrimo Autunno del Medioevo) desiderava far risorgere il passato "in uno splendore di calda vita".

IV.

Nel 1852 ebbe inizio la svolta decisiva nella vita del Gregorovius: l’incontro con l’Italia. Qui si trovava un suo amico, Luigi Borntränger, venuto, come tanti altri malati di tisi, in cerca di un clima più mite e soleggiato; e Ferdinand, in quell’anno, decise di raggiungerlo. Il suo spirito romantico ed entusiasta si rivela già dall’insolito itinerario di questo viaggio. Dapprima egli volle visitare la Corsica, e se ne innamorò al punto da pubblicare, due anni dopo, un’opera in due volumi, Corsica, mostrandosi egualmente sensibile al fascino della natura mediterranea e alla vicenda storica di quel popolo e di quel mare. La scoperta del Mediterraneo (che egli, in una pagina significativa dei suoi Diari, aveva sognato di "prendere al laccio") da parte di quest’uomo del Nord, di questo tedesco-polacco impregnato di spirito luterano e tuttavia innamorato, in maniera quasi sensuale, della civiltà classica: sono davvero molti i punti di contatto fra la biografia del Gregorovius e quella del suo grande compatriota, Friedrich Nietzsche, il cui Zarathustra, come scrive Liliana Scalero, "fu iniziato sotto il cielo alcionio della Riviera, da Nizza a Rapallo" ed è tutto pervaso "di colori wagneriani (foreste, montagne, pini,aquile, draghi e serpenti)".

Il 2 ottobre 1852 Ferdinand Gregorovius giune nella Città Eterna, ove avrebbe vissuto per ben ventidue anni, interrompendo il suo soggiorno con frequenti escursioni in tutti gli angoli della Penisola. L’ispirazione per la sua opera monumentale gli venne improvvisa; così com’era venuta improvvisa, un secolo prima, allo storico inglese Edward Gibbon per la sua celebre History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788). Il 24 novembre 1853, passeggiando sul Ponte Quattro Capi all’altezza dell’isola San Bartolomeo, gli venne l’idea di scrivere la storia di Roma durante il Medioevo, come a Gibbon era venuta quella di scrivere la decadenza e caduta dell’Impero Romano aggirandosi tra le rovine del Foro.

Da allora, per un ventennio, egli avrebbe lavorato indefessamente nelle biblioteche e negli archivi di Roma e d’Italia, alla ricerca dei documenti di quel passato che tanto lo affascinava. La Storia della città di Roma nel Medioevo (Geschichte der Stadt Rom in Mittelalter), in otto volumi, uscirà negli anni dal 1859 al 1873, procurandogli una vasta fama in Italia anche più che in Germania. Contemporaneamente pubblicava altri libri, quasi tutti di argomento italiano, frutto dei suoi viaggi appassionati alla ricerca del passato, della bellezza, delle tradizioni, e sempre mostrandosi libero e indipendente dai preconcetti degli studiosi accademici del suo tempo. Nel suo Nelle Puglie (Firenze, 1882), ad esempio, narrando l’incontro con uno studioso autodidatta dell’Italia meridionale, scriveva che una persona simile, nella sua patria, non avrebbe tardato a coprirsi di ridicolo a causa della miopia degli ambienti accademici ed eruditi, ed elogiava invece una tale spontaneità d’interessi e una società nella quale essa era non solo possibile, ma apprezzata e incoraggiata. Questa semplice osservazione può dare un’idea della modernità di vedute, della spregiudicatezza senza ostentazione e senza retorica che furono l’abito mentale dello storico di Neidenburg. È una lezione che ancora oggi dovrebbe essere mediata da molti eruditi e da molti studiosi di formazione esclusivamente accademica, e proprio qui, in Italia.

V.

Fra il 1856 e il 1877, in un arco di tempo di ventun anni, veniva pubblicata l’opera forse più squisita del Gregorovius poeta: quei cinque volumi dei Wanderhjare in Italien, che avrebbero consacrato la sua fama tra il pubblico italiano. Il titolo, pressoché intraducibile, potrebbe suonare Passeggiate per l’Italia o, meglio, Anni di pellegrinaggio in Italia, ed è già un chiaro programma del contenuto dell’opera. Essa venne tradotta e pubblicata in lingua italiana solo negli anni 1906-1909, cioè con un ritardo di circa mezzo secolo, col titolo Itinerari in Italia, a Roma; e, parzialmente, a Napoli, nel 1930. A causa della mole, non mancarono le traduzioni di singoli volumi; ed ecco apparire Nelle Puglie (traduzione di R. Mariano, Firenze, 1882); le Passeggiate romane (Roma, 1965); le Passeggiate in Campania e Puglia (Roma, 1966). Ricorderemo infine che una prima traduzione dei Wanderjahre era apparsa a Milano sin dal 1872, nella traduzione di A. di Cossilla.

Si tratta di un’opera di deliziosa fattura, in cui stile, erudizione, poesia si fondono in un tutto armonico di meravigliosa potenza e immediatezza. Esistono pochi altri esempi di uno scrittore che abbia saputo fondere altrettanto felicemente la sua vasta e profonda cultura con un’ambientazione poetica semplice, ispirata, tale da rapire il lettore e fargli quasi vedere – con gli occhi della mente – i luoghi e le bellezze descritte. Perché questo è il pregio principale dei Wanderjahre, quello di raccontare per immagini, quasi pittoricamente, con infinita leggerezza e finezza di pennellata, con rara freschezza e spontaneità d’impressioni e d’immagini. In molti hanno poi tentato di imitare questo modo di raccontare l’Italia (uno per tutti, il dantista austriaco Alfred Bassermann), ma nessuno ha saputo coniugare con tanta maestria la bellezza dello stile e la solidità del contenuto. Per trovare un paragone adeguato, la mente corre indietro al filosofo più amato dal Nostro, Platone, e alle sue splendide descrizioni paesaggistiche che fanno da sfondi a dialoghi come il Fedro.

Se poi ci si interroga sulle ragioni del fascino così particolare che spira dalle pagine di quest’opera oggi ingiustamente dimenticata, possiamo individuarne due ordini principali. Il primo nasce dallo stesso genere letterario, la narrativa di viaggio (oggi quasi scomparsa dall’Europa, e costretta a migrare verso lidi esotici, come nel caso di Bruce Chatwin: quasi che la bellezza stesse nelle cose descritte, e non nell’occhio che la sa cogliere e rappresentare). Il secondo deriva dalla semplicità e spontaneità dell’animo del Gregorovius, che sempre sa osservare con sguardo nuovo e incantato il miracolo della natura e della storia, e che rimase interiormente giovane per tutta la vita (un po’ come il "fanciullino" del Pascoli) grazie a questa capacità, oggi in via di estinzione, di saper vedere il mondo come se il suo spettacolo ci si offrisse vergine e sontuoso come nel primo giorno della creazione. Romanticismo: certo; ma non stucchevole, non manierato. Almeno nelle sue pagine migliori (che sono sicuramente la maggioranza), il Gregorovius sa comunicare al lettore una vivacità e spontaneità d’ispirazione assolutamente convincenti. Rileggerle ai nostri tempi, quando inquinamento e speculazione edilizia hanno distrutto per sempre le infinite bellezze descritte centocinquant’anni fa da questo straniero innamorato del nostro paese, costituisce una testimonianza preziosa di quanto abbiamo perduto per nostra colpa, senza una lacrima di pentimento, in cambio del piatto di lenticchie di una modernità senz’anima e senza progresso.

VI.

Nel 1859 usciva il primo volume della Storia della città di Roma nel Medioevo; nel 1873 – quattordici anni dopo – l’ottavo ed ultimo. Essa aveva a tal segno assorbito l’interesse e l’operosità del Gregorovius, che tutto quanto d’altro egli pubblicò in quegli anni, lo scrisse – come egli stesso ebbe a dire – unicamente per distrarsi. La Storia di Roma costituisce un caso unico nella storiografia del XIX secolo. Essa è, al tempo stesso, così alta opera di poesia e così riuscita opera di storia, da non avere riscontro in alcun’altra opera.

"Ciò che un tempo fu gioia e dolore – ebbe a scrivere lo storico Huizinga – oggi deve diventare conoscenza, come, del resto, anche nella vita del singolo." Tale è lo spirito che pervade quest’opera grandiosa, dallo stile "monumentale" (come è stato definito), che si snoda lenta e maestosa traverso dieci secoli di storia italiana: dal sacco di Alarico nel 410, a quello dei "lanzichenecchi" di Carlo V nel 1527. Vi è un senso di oscura fatalità che accompagna la rievocazione del Gregorovius, un superiore disincanto che conferisce ai protagonisti di questo grandioso dramma storico una sorta di epicità e un pathos tutto particolare, dovuto al fatto che solo noi, retrospettivamente, sappiamo come si concluse la parte da loro interpretata.

Vi sono, nell’opera, degli squarci di una potenza narrativa eccezionale. Ecco come il Gregorovius descrive l’ingresso dell’imperatore Onorio a Roma nell’anno 403, poco prima del sacco di Alarico:

"La travagliata città sembrava essersi adornata come una sposa che corre incontro al promesso aspettato da lungo tempo; ma la sposa era vecchia, e lo sposo non era che un debole." (Storia della città di Roma nel Medioevo, Roma, 1972, vol. 1, p. 91).

Ed ecco la stupenda immagine del re ostrogoto Totila che cavalca davanti all’esercito nemico sul campo di Tagina (Gualdo Tadino), nel 552, la vigilia della sua ultima battaglia:

"Nella sua armatura splendente d’oro, elmo e lancia adorni di crini purpurei agitati dal vento, egli si ergeva quel mattino sul suo superbo destriero dando spettacolo ai due eserciti schierati della propria abilità di cavallerizzo. Cavalcando a briglia sciolta tracciava cerchi sempre più stretti sulla pianura, ora curvandosi sull’arcione, ora gettandosi su un fianco e sull’altro con giovanile destrezza mentre scagliava in aria la lancia che poi riafferrava senza inrerrompere il galoppo serrato del suo destriero. La notte stessa era già morto." (Op. cit,, vol. 1, p. 269).

Sono questi contrasti tra un’immagine di vita gagliarda e una di morte repentina, questi forti chiaroscuri che conferiscono alla Storia di Roma quella plasticità vibrante, fatta di stacchi sapienti e improvvisi d’ombrae di luce, e quel particolare epos di sapore quasi omerico, che ricorda il malinconico dialogo fra Glauco e Diomede:

"…Quale delle foglie,

tale è la stirpe degli umani. Il vento

brumal le sparge a terra, e le ricrea

la germogliante selva a primavera.

Così l’uom nasce, così muor…"

(Hom., Iliade, VI, tr. di Athos Sivieri).

VII.

Il mondo accademico tedesco non capì Gregorovius, o lo capì solo in parte. Tipico esempio in proposito è l’atteggiamento tenuto da Theodor Mommsen, la cui Storia di Roma era apparsa, in tre volumi, negli anni 1854-56. Mommsen era il classico rappresentante della tendenza "positivista" della storiografia tedesca, incoraggiata dalle tesi di Hyppolite Taine, e che si poneva programmaticamente in opposizione al Romanticismo. Considerato uno dei massimi storici del suo tempo, Mommsen fondava la propria conoscenza della storia romana repubblicana e imperiale su una imponente documentazione epigrafica e numismatica, prima ancora che sulle fonti letterarie greche e latine. Per lui, fare la storia alla maniera del Gregorovius era un’eresia. L’episodio che ora vogliamo riportare, e che fu riferito da un personaggio del calibro del principe von Bülow (nelle sue Memorie), risulterà illuminante sui suoi metodi di studioso e sul suo carattere di uomo.

"[Mommsen]conobbe Gregorovius nel salotto della contessa Lovatelli, sorella del duca di Sermoneta, donna di grande intelligenza e cultura, e la loro conversazione cadde sui destini della città eterna, tema di comune interesse per entrambi. Gregorovius con molto calore si diffondeva in particolari sul Medioevo romano e Mommsen ad un certo punto, interrompendolo: – Posso darvi un consiglio? Scrivete una storia di Roma nel Medioevo. – Io stesso ho udito raccontare più volte l’episodio dalla bocca della contessa. Per comprenderne appieno il significato, bisogna notare che l’opera di Gregorovius era già pubblicata da un pezzo e che Mommsen, che certo la conosceva, voleva dire che era tutta da rifare." (cit. nella Introduzione alla Storia di Roma nel Medioevo di Vittoria Calvani, vol. 1, p. 10).

Ed ecco Theodor Mommsen visto dal Gregorovius:

"Si trova qui [cioè a Roma]Theodor Mommsen. Nella sua figura c’è misto non so che di brio giovanile e di pedante scrupolosità. Questo fatto mi spiega lo spirito della sua opera, notevole per erudizione, per acutezza critica e distruttiva, ma che è però più un libello che una storia." (F. Gregorovius, Diari romani, Milano, 1895, p. 184).

E ancora:

"È venuto a Roma Mommsen che si trattiene ancora qui. È certamente, come Richard Wagner, ammalato di megalomania. I professori della cattedra non mi vogliono riconoscere, perché lavoro in libera attività, perché non occupo alcun posto burocratico e, ‘horribile dictu’, possiedo un po’ d’ingegno poetico. Non mi possono perdonare il mio senso per la bella forma. La ‘Stoia di Roma’ è stata accolta in silenzio e con levar di spalle dai pedanti della Germania." (F. Gregorovius, Ibidem, p. 519).

Uno sfogo? Certo; ma senza acrimonia e senza amarezza. L’amarezza non faceva parte del carattere del Gregorovius, come non ne facevano parte il conformismo culturale e la divinizzazione della storia erudita. In quanto temperamento romantico, era un attardato e sapeva di esserlo; non lo ostentava e non se ne crucciava. La "scuola tedesca" seguiva le orme di Leopold von Ranke, il cui motto: "I fatti, dateci solo i fatti" era già di per sé tutto un programma. Un programma che Gregorovius non condivideva affatto, lontano com’era dalla sua sensibilità storica e artistica. Egli, quindi, ebbe parole severe per l’opera del Ranke, circa la quale si espresse in questi termini:

"Ranke nella storia conosce soltanto l diplomazia – non conosce il popolo. Ha un delicatissimo dono di combinare e perspicacia logica, ma solo come in un teatro anatomico. Come storico lo paragono ad Alfieri poeta." (F. Gregorovius, Ibidem, p. 328).

Ma quell’apprezzamento di cui gli fu avara la sua Germania, o almeno di cui gli furono avari gli ambienti accademici tedeschi, gli giunse ampio e meritatissimo in Italia. L’8 marzo del 1876, avvenuta ormai l’annessione di Roma e anche di Venezia, il Gregorovius veniva nominato solennemente cittadino romano. E intanto uscivano tutta una serie di edizioni in lingua italiana della Storia di Roma nel Medioevo, compresa una a spese del comune di Roma.

VIII.

La sua opera fondamentale è passata attraverso il fuoco di fila di due opposte critiche: quella degli studiosi tedeschi, che la giudicarono troppo "italiana", e quella degli italiani, che lamentavano in essa la presenza di un ingombrante nazionalismo germanico. Questo dimostra, se non altro, la difficoltà esistente per uno straniero che si accinga a scrivere la storia di un’altra nazione. Ma veniamo alla prima accusa: lo stesso Gregorovius ce ne parla. In quegli anni, decisivi per la formazione dello Stato unitario germanico di matrice bismarckiana, ancora il Ranke, "tutto fuoco e fiamme", esclamò rivolto al Gregorovius:

"L’impero tedesco è l’avvenimento più grande dell’umanità." [E poi:]"Rimproverò alla mia ‘Storia di Roma’ di essere scritta in senso italiano." (F. Gregorovius, Ibidem, p. 488).

Per un lettore italiano, non è facile dire se vi fosse un fondo di verità in questa critica. Certo, il Gregorovius era innamorato dell’Italia, e ciò può averlo indotto – come suole avvenire a tutti gli innamorati – a nasconderne inconsciamente i difetti, per esaltarne invece i lati positivi. Non sembra, tuttavia, che sia incorso troppo spesso in un simile abbaglio: da ciò lo trattenevano sia il suo senso storico, sia il suo stesso patriottismo tedesco. Egli certo non tentò di minimizzare, e anzi mise a nudo in maniera perfino impietosa, la decadenza morale dei Romani durante il tardo Impero, così come quella che travagliò, mille anni più tardi, l’istituzione della chiesa cattolica. Come tedesco, nella caduta di Roma antica egli vedeva il sorgere di una nuova società, più sana e vigorosa, sulle rovine di uno Stato che aveva esaurito la sua funzione storica; e questa nuova società fu opera dei popoli germanici convertiti al cristianesimo. Come luterano, poi, egli vedeva nella caduta di Roma nelle mani dei lanzichenecchi, nel 1527, il castigo divino per la degenerazione del potere temporale dei Papi e per la spaventosa corruzione morale della chiesa cattolica. Una tesi, in fondo, molto simile a quella di s. Agostino nel De Civitate Dei, o di Orosio nelle Historiae adversus paganos la dimane del sacco alariciano del 410: Dio fa impazzire coloro che vuol perdere, e li abbandona (come afferma san Paolo nella Lettera ai Romani) al loro stesso orgoglio rovinoso.

Dopo quanto si è detto, apparirà chiaro come un maggior fondamento potrebbe trovare, semmai, la seconda critica di cui parlavamo, quella di uno spirito nazionalistico tedesco presente in vari luoghi dell’opera. Evidente, in effetti, è la simpatia dell’Autore per i suoi connazionali (molto diverso, in questo, dal Nietzsche, che li aborriva addirittura); non sarebbe neanche il caso di citare i numerosi passi ove essa si palesa. Valga per tutti il commosso ritratto conclusivo tracciato del re goto Totila:

"Se è vero che la grandezza di un uomo deve essere misurata dagli ostacoli che ha superato e dalle lotte che ha sostenuto contro le avversità della sorte, Totila è degno dell’immortalità più ancora di Teodorico. Non solo, infatti, nella sua giovinezza rimise in piedi il decaduto regno gotico con geniale energia, attraverso impareggiabili battaglie, ma lo difese per undici anni contro Belisario e contro gli eserciti di Giustiniano. E se poi il valore di un uomo è dato dalle virtù sublimi dell’animo, pochi sono gli eroi che nell’antichità e nei secoli successivi per moderazione, giustizia e generosità d’intenti furono pari alla grandezza di Totila." (F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit., vol. 1, p. 269).

Il fascino del mondo germanico medioevale, però, era in lui temperato – o meglio fuso – con l’ammirazione per la grandezza della civiltà di Roma e dell’Italia: dall’incontro fra questi due elementi nacque, traverso un lunghissimo e faticoso processo storico, la nuova Europa delle nazioni moderne. Tale considerazione gli consentiva di essere obiettivo ed equanime anche nei giudizi su personaggi del Medioevo germanico, per i quali nutriva la più viva ammirazione, ma senza nasconderne errori e difetti. Teodorico, per esempio, gli appariva "il più nobile straniero che mai abbia dominato su Roma e sull’Italia" (cit., vol. 1, p. 203), tuttavia non cercò di minimizzarne, come altri storici hanno fatto, la responsabilità nell’uccisione di Simmaco e Boezio:

"(…) un uomo come Boezio, universalmente noto come autore del ‘De Consolatione Philosophiae’, è un accusatore troppo autorevole perché la sua morte, fosse anche avvenuta nell’età più oscura della storia, possa apparire men che barbara." (cit. vol. 1, p. 199).

E ancora, sulla condanna a morte di Severino Boezio:

"Questo gesto dispotco è la vera grave macchia da cui la figura di Teodorico non potrà mai essere mondata." (cit., vol. 1, p. 201).

Comunque, per comprendere la posizione di Gregorovius nei confronti di un certo nazionalismo culturale, il suo orgoglio di esser tedesco, bisogna tener presente il particolare momento storico in cui egli visse e compose le sue opere. Per uno studioso del Medioevo che, come lui, considerava la nascita dell’Europa moderna come opera dell’incontro e della fusione della maschia stirpe germanica e della civilisima società romano-cristiana, la seconda metà dell’Ottocento costituì quasi una risurrezione delle sue aspirazioni ideali. Risorgeva, dopo un millennio, la potenza dell’Impero tedesco (e il Gregorovius, nel 1870, si affrettò sui luoghi della guerra franco-prussiana scrivendo una quantità di articoli per la stampa tedesca), e, con la presa di Roma da parte del La Marmora, risorgeva l’Italia, cui venivano restituite, per la prima volta nella storia, la sua unità politica e la sua gloriosa capitale: e risorgeva in chiave ghibellina e anti-clericale, proprio com’era nei voti dello storico tedesco. Tutto questo, al Gregorovius, dovette apparire quasi profetico, un auspicio che i tempi gloriosi della civiltà romano-germanica sarebbero ancora tornati.

Mai, però, il suo entusiasmo patriottico degenerò in brutale nazionalismo o in esaltazione dell’imperialismo. Abbastanza profonde erano in lui le radici del pensiero liberale, l’ammirazione per i popoli in lotta per l’indipendenza, l’avversione nei confronti di ogni assolutismo, politico o religioso che fosse. E in questo atteggiamento moderato, anche le antiche radici polacche della sua famiglia avevano la loro parte di merito. Ecco le parole con le quali egli chiudeva l’ultimo libro, il quattordicesimo, della sua opera monumentale:

"Ho parlato delle sventure di Roma e dell’Italia, della fatale partecipazione cui, fin dai tempi dei Goti, la Germania fu chiamata. Perciò posso ritenermi fortunato perché la storia della città di Roma nel Medioevo è finita, in realtà, soltanto con i recenti avvenimenti [del 1870]. Una fortuna ben rara mi ha concesso non solo di scrivere e portare a termine questa storia, ma addirittura di viverne l’atto finale, assistendo all’estrema espiazione di quei destini e di quelle sventure di Roma e dell’Italia e della Germania che ho ritratto in questi libri." (Cit., vol. 6, P. 351).

IX.

Il suo orientamento romantico, che era un fatto istintivo e non di scuola, gli permetteva dunque di guardare al Medioevo sgombrando il campo dalla vecchia concezione illuministica, che in quei secoli vedeva soltanto barbarie e supestizione. Tale era stata la convinzione di Montesqieu, tale quella di Edward Gibbon. L’unico, fra gli storici del Settecento, che avesse intuito la presenza nel Medioevo di qualcosa d’altro (a parte, naturalmente, Giambattista Vico) era stato William Robertson: mente tanto più attenta ai chiaroscuri della storia di quella di Gibbon o dello stesso David Hume (per non parlare di Voltaire), come abbiamo cercato di dimostrare in un apposito studio.

Per meglio comprendere la disposizione del Gregorovius verso i cosiddetti "secoli bui" (bui, secondo la filosofia dei Lumi), si legga ciò che egli dice di Venezia, città in cui soggiornò e lavorò alacremente:

"Venezia è un poema, il più bello che sia stato creato da un popolo, e questo era un popolo di pescatori, di barcaioli e di mercanti. In niun altro punto d’Italia si riconosce così chiaramente la meravigliosa fantasia creatrice e la grazia di cui è ricca questa nazione." (F. Gregorovius, Diari romani, cit., p. 376).

Gibbon, che pure trattò – sia pure sommariamente – della fondazione di Venezia, non sarebbe mai stato capace di simili parole. E questo non è che un esempio.

Abbiamo parlato, più sopra, del profondo senso di fatalità che pervade tutte le pagine della Storia della città di Roma nel Medioevo. In effetti, se la concezione storica degli illuministi, di un Gibbon per esempio, è essenzialmente lineare e progressiva, quella dei romantici, Gregorovius compreso, appare piuttosto (sulla scorta, appunto, di Vico) una concezione ciclica. Gibbon guardava alle "tenebre" del passato con l’orgogliosa sicurezza di un gentiluomo inglese del Settecento, che ha fede che quelle tenebre non potranno mai più tornare e che il mondo (si badi, il mondo intero) stia irresistibilmente marciando verso "le magnifiche sorti e progressive". Ecco, infatti, come lo storico inglese concludeva le sue Osservazioni generali sulla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, inserite a conclusione del capitolo XVIII della History of the Decline and Fall:

"Dopo la prima scoperta delle arti, la guerra, il commercio e lo zelo religioso, hanno diffuso tra i selvaggi del vecchio e del nuovo mondo questi inestimabili doni: sono stati propagati e non possono più andare perduti. Possiamo dunque raggiungere questa ottimistica conclusione: ogni età del mondo ha accresciuto e continua ad accrescere la reale ricchezza, la felicità, la saggezza e forse la virtù del genere umano." ( Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell’Impero Romano, Roma, 1973, vol.m4, p. 70).

Insomma, secondo lui, l’unica possibile minaccia per una civiltà è di natura esterna: e poiché tutti i "sevaggi" della terra stavano entrando a godere, ai suoi tempi, dei "benfici" della civiltà stessa (il che escludeva la minaccia di nuove invasioni barbariche ai danni di società civilizzate), la felice conclusione era che la civiltà in quanto tale non avrebbe mai più subito minacce e, quindi, non avrebbe potuto far altro che aumentare sempre più. Sarebbero aumentate sicuramente la ricchezza, la felicità e la saggezza; solo la virtù non era cosa scontata che aumentass; ma, nel complesso, si poteva godere della confortante sensazione di vivere in un’epoca radiosa della storia, raggiunta grazie all’accumulo incessante di elementi di progresso.

La visione storica del Gregorovius è più problematica; l’idea del "progresso" vi è sostituita dall’idea del "fato", un concetto quasi greco-romano (nel senso omerico e virgiliano). Non è un caso che la Germania, patria di Gregorovius, abbia prodotto poi uno Spengler, la cui concezione storica è improntata a un cupo pessimismo (come, del resto, quella di Heidegger); e che l’Inghilterra, patria di Gibbon, abbia poi visto la filosofia della storia di un Toynbee, fiduciosa nel futuro della civiltà (come lo è, fino a un certo punto, quella de Russell).

Ecco, ad esempio, come il Gregorovius descrive la discesa in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, colui che aveva acceso tante speranze nell’animo di Dante Alighieri e di tanti altri suoi contemporanei, ai primi del 1300:

"L’opposizione dei guelfi a Roma, in Toscana, in Romagna e nella inquieta Lombardia, l’esatta conoscenza dei propositi di Roberto [d’Angiò], in breve la forza degli eventi avevano già trasformato quest’imperatore, inizialmente animato soltanto dal desiderio di fare del bene, nel capo dichiarato dei ghibellini. Come i suoi grandi predecessori anch’egli si vide costretto a combattere i propri avversari ricorrendo all’aiuto dei partiti e alla fine come quelli, lontano dalla Germania e privo di appoggi, perì travolto dalla lotta contro le fazioni italiane. Il destino si ripeteva con la regolarità di una legge storica."F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit., vol. 4, p. 38).

Ed è questo sentimento della fatalità storica, senza dubbio, che conferisce alla Storia della città di Roma nel Medioevo tanta parte di quel fascino particolare, che non deriva solo dall’eccellenza letteraria, ma anche e soprattutto dall’intensità della partecipazione.

X.

Un altro aspetto caratteristico della Storia della città di Roma nel Medioevo è l’anticlericalismo. Come si è già accennato, per il Gregorovius — uomo di fede politica liberale e di credo religioso luterano — lo Stato del papa e l’organizzazione cattolica, quali si erano venuti delineando nel corso del Medioevo, rappresentavano una degenerazione totale, un autentico rigurgito di paganesimo blasfemo.

Trattando del consolidamento dell’Impero Romano cristiano dopo Costantino, lo storico tedesco, nei primi libri della sua opera, non cerca di sminuire la portata mondiale dell’opera svolta dalla chiesa cattolica, né il ruolo decisivo da essa esercitato nella formazione della società altomedievale, sorta dalle rovine del mondo antico. Al tempo stesso, però, egli vede lucidamente come la diffusione e il rafforzamento del messaggio cristiano fra le nazioni romano-germaniche procedessero di pari passo con un inevitabile processo di accentramento politico, di corruzione morale, di conservatorismo sociale e culturale. La storia della nascita e dello sviluppo della potenza temporale dei papi è la storia della decadenza spirituale della chiesa cattolica e reca in sé, fin dall’inizio, i germi della futura rovina. Di qui il tono cupo e pessimistico delle pagine dedicate al Papato nell’età medioevale, la cui parabola culmina nella nemesi grandiosa e terribile del sacco di Roma del 1527, ad opera delle soldatesche di Carlo V.

"La caduta di Roma ad opera degli imperiali fu un fatto senza precedenti. Il nemico non l’aveva accerchiata, non l’aveva assediata, non l’aveva vinta per fame né spaventata con un colpo di cannone. Quella caduta dunque tornò a disonore del governo pontificio come del popolo romano. Roma era diventata una effeminata città di preti e la servitù e le dissolutezze del pontificato di Leone X avevano snervato il suo popolo. I Romani, inoltre, odiavano il governo pontificio e molti ne desideravano la rovina ad ogni costo, sperando che l’imperatore si sarebbe deciso a porre la sua sede in Roma. Ma quando, come un abulico gregge di pecore, si consegnarono al nemico, dovettero rassegnarsi a un destino più tremendo della morte: Genova, Brescia, Milano, Prato avevano dato una piccola prova di ciò che sarebbe toccato a Roma. Mentre le torme nemiche si gettavano nelle strade uccidendo chiunque incontrassero, i cittadini accorrevano a frotte agli altari di quei santi che non potevano più difenderli." (F. Gregorovius, Storia di Roma nel Medioevo, cit., vol. 6, p. 286).

Questa dissoluzione morale, questo gretto spirito di reazione e di conservazione ad ogni costo, furono appunto le crepe che minarono la solidità dell’edificio secolare dello Stato della Chiesa, e che ne produssero la rovina finale. Il Gregorovius, che nella Roma di Pio IX visse lungamente e che vi attese alla sua opera monumentale, fu spettatore della caduta finale del potre temporale; caduta lungamente preparata, a suo giudizio, da una serie pressocché ininterrotta di errori, di egoismi e di cecità di fronte ai nuovi tempi e alle mutate esigenze, materiali e spirituali, della società moderna.

"Quattordici secoli dopo la caduta dell’antico impero romano gli Italiani entrarono in Roma, come un popolo unito e libero, non perché poterono prendere d’assalto le mura Aureliane deboli per la vecchiaia, ma perché, dietro quelle mura, il papato, decrepito, andava in rovina, mentre il mondo circostante, trasformato sulla via del progresso, era in parte responsabile di quella rovina. Infatti solo quando l’idea della Chiesa era vitale e dominava il mondo, i papi, spesso stretti, in passato, da gravi difficoltà, riuscirono, benché indifesi, a difendere e conservare il possesso di Roma." (F. Gregorovius, cit., vol. 6, p. 350).

Questo passo è di notevole interesse anche perché offre un buon esempio della concezione "hegeliana" della storia di Gregorovius. I grandi uomini e le grandi istituzioni sono quelli che incarnano e vivificano lo "spirito dei tempi", le esigenze profonde della società. Ma non appena questa loro funzione positiva vien meno, essi sono destinati a cadere come le foglie secche, abbandonati — come un albero d’autunno — da ogni linfa vitale.

La reazione della chiesa cattolica alla pubblicazione della Storia della città di Rioma nel Medioevo fu, naturalmente, del tutto negativa. Nel 1873 usciva l’ultimo volume di essa, e nel 1874 l’intera opera veniva posta nell’Indice dei libri proibiti. Per il Gregorovius, che tanto aveva lavorato nelle biblioteche della Roma papale, attingendovi larga messe di documenti e materiali, era un provvedimento che lo coglieva quando ormai non poteva più nuocergli. Ed egli, in proposito, poteva scrivere con una punta di orgoglio:

"Se i preti avessero posto l’interdetto alla mia storia all’apparire dei primi volumi, l’opera non esisterebbe oggi perché allora mi avrebbero chiuso tutte le biblioteche di Roma. (…) Ma ormai essa è terminata e si spande per il mondo. Il papa stesso le fa ora la rèclame." (F. Gregorovius, Diari Romani, cit., p. 529).

Del resto, di lì a poco un altro studioso tedesco avrebbe ripagato la Santa Sede della delusione sofferta con la pubblicazione dell’opera del Gregorovius. Nel 1876 era giunto in Italia, per la prima volta, lo storico Ludwig von Pastor, di Aquisgrana, il quale — grazie alla protezione di Leone XIII – potè avere libero accesso all’Archivio segreto vaticano e comporre la sua monumentale Storia dei papi dalla fine del Medioevo. La traduzione italiana, in ben ventuno volumi, terminò solo nel 1934 — sei anni dopo la morte dell’autore, che si era spento a Innsbruck nel 1928.

XI.

Ci siamo soffermati brevemente su alcuni aspetti per così dire ideologici della Storia della città di Roma nel Medioevo: il nazionalismo, il romanticismo, l’anticlericalismo. Ma vogliamo ribadire ancora una volta che i meriti principali di quest’opera non consistono tanto nelle sue tesie nei suoi presupposti culturali, ma nell’impareggiabile capacità di rievocazione in cui l’Autore ha saputo fondere arte letteraria e profonda consapevolezza storica. In quanto opera non solo di storia, ma anche di alta poesia, essa si sottrae alle inesorabili leggi dell’"invecchiamento" e acquista un valore atemporale.

Ci sia dunque concesso riportare almeno alcuni dei brani più suggestivi di questa animata rappresentazione del passato. Il Gregorovius, per sua stessa ammissione, possedeva "un senso completo per la plastica, minore perla pittura" (F. Gregorovius, Diari romani, p. 6), il che è confermato dalla sua carattristica bravura nell’arte del chiaroscuro, cui abbiamo già fatto cenno.

Ecco, a titolo di esempio, l’ingresso nella Città Eterna dell’imperatore Onorio nel 417, dopo il sacco di Alarico, la pace coi Visigoti e la cattura dell’usurpatore Attalo:

"Mai l’ingresso di un imperatore in città fu più triste e vergognoso. Davanti al suo carro, in catene, camminava Attalo, coperto di un’infamia che l’imperatore condivideva in eguale misura. I Romani, coscienti della propria bassezza, accolsero il loro sovrano con acclamazioni servili, che mascheravano i taciti rimproveri all’indirizzo di Onorio [per non averli saputi difendere da Alarico], al quale erano ormai negati lo splendore degli allori di Stilicone e il titolo di trionfatore, preso in prestito dalla Musa di Claudiano." (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. 1, p. 121).

Sono immagini che sembrano scolpite nel marmo, e al tempo stesso così vive e movimentate, così pervase da un soffio contenuto di poesia epica, che si innalzano di molto sul livello letterario medio della storiografia dell’epoca.

Ma ecco uno squarcio sul sacco di Roma del 1527:

"Quando spuntò l’alba del 7 maggio, lo spettacolo che Roma offriva di sé era più orribile di quanto si possa immaginare: le strade ingombre di rovine, di cadaveri e di moribondi; case e chiese divorate dal fuoco, dalle quali uscivano grida e lamenti; un orribile trambusto di gente che rubava e che iuggiva; lanzichenecchi ubriachi, carichi di bottino o che si trascinavano dietro prigionieri." (F. Gregorovius, cit., vol. 6, p. 287).

Ed ecco l’altra caduta di Roma, avvenuta millecento anni prima, e l’irruzione dei Visigoti in città sotto la guida di Alarico:

"I barbari si riversarono in tutti i quartieri della città, cacciando davanti a sé branchi di fuggiaschi e massacrandoli. Poi si gettarono al saccheggio con furia bestiale. Seguendo il loro istinto selvaggio essi attaccarono i palazzi d’oro, le terme, le chiese e i templi, e, da veri padroni, svuotarono Roma rabbiosamente come se fosse stata una stanza piena di tesori." (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 1, p. 110).

Una pagina degna di rivaleggiare col miglior Tacito, il quale pure, nelle sue Storie, aveva narrato il saccheggio di Roma alla fine del 69, durante la guerra civile fra Vitellio e Vespasiano; così come quella citata più sopra non teme il confronto con le analoghe scene descritte nella Storia d’Italia di Francesco Guicciardini.

Questa descrizione dell’aspetto dell’Urbe nel VII secolo, al tempo della visita dell’imperatore bizantino Costante II, pare invece la fedele riproduzione di un’incisione del Piranesi, pervasa com’è da un gusto romantico per le rovine e i paesaggi archeologici in abbandono:

"Il tempio di Giove era da tempo in rovina; i bagni erano crollati, le fontane non avevano più acqua. Nell’anfiteatro i grandi muri di sostegno vacillavano, e l’erba cresceva dappertutto fittissima. Il palazzo imperiale, in parte ancora abitabile, era nel complesso tutto diroccato; gruppi di macerie ingombravano il Foro della Pace e gli altro fori, e soltanto la colonna del Foro diTraiano e quella di Marco Aurelio si ergevano maestose e incrollabili tra templi pericolant e biblioteche vuote dove, qua e là, qualche statua di artista greco o romano annerita dal fumo lottava contro l’oblio. Circo e teatri, curvi da tempo sotto il peso dell’età, decadevano paurosamente; il grande tempio di venere e Roma si era scoperchiato ed era quasi completamente crollato. Dovunque si posasse lo sguardo si vedevano emergere, in mezzo a decrepiti monumenti, chiese costruite coi materiali di quelli, conventi addossati ad essi o templi pagani trasformati in chiese cristiane." (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 1, p. 372).

Ed ecco un quadro dell’anfiteatro di Tito (comunemente detto Colosseo) al tempo del re ostrogoto Teodorico:

"Nell’anno 500 alcuni sedili di marmo erano già rovinati e una parte dei portici aveva subìto dei danni mentre, dalla parte esterna, i magazzini e le botteghe situati entro le grandi volte erano ormai abbandonati. Le statue, collocatevi un tempo da Settimio Severo, erano state in parte trascinate via, probabilmente dai Vandali, e in parte erano rimaste, tutte mutilate, nelle loro nicchie. Il vecchio Circo, gigantesco edificio logorato da un uso secolare e segnato dalle intemperie, tradiva già nei colori e nell’aspetto esterno i caratteri della vecchiaia, proprio come il palazzo dei Cesari che gli stava accanto, dall’altra parte della strada." (F. Gregorovius, cit., vol. 1, p. 189).

Bisogna però sottolineare che l’arte narrativa, nelle pagine della Storia della città di Roma nel Medioevo, non diviene mai un fatto a sé stante, puramente estetico e slegato dal tessuto del racconto. La plastica capacità descrittiva non è che un mezzo mirabilmente adatto alla rappresentazione dei contenuti, fuso con essi. Non c’è distinzione tra forma e contenuto: dalla loro unione nasce appunto il fascino tutto particolare di quest’opera.

Quando il tumulto delle vicende narrate si placa per un momento esso cede il posto a una contenuta, assorta pausa di riflessione che, proprio nelle descrizioni, sa trovare un diverso ritmo, più semplice e raccolto, misurato e come scandito dagli archi di una navata. Chi abbia visitato con passione e con amore le chiese medioevali di Roma, le maggiori e le minori, difficilmente potrà non concordare col Gregorovius quando egli fa l’elogio della piccola basilica di San Giorgio in Velabro, presso l’Arco di Giano tra il Campidoglio e il Palatino, proprio per la sua atmosfera squisitamente semplice e raccolta:

"(…) si tratta di una piccola basilica a tre navate divise da sedici colonne di granito o di marmo; entrandovi ci si sente immersi, come accade in poche altre chiese romane, nell’atmosfera originaria del cristianesimo primitivo. La sua purissima forma basilicale, la nuda semplicità del suo interno, le pitture e le iscrizioni latine e persino greche giunte sino a noi dai primissimi secoli cristiani, il silenzio di sogno che avvolge quella valle immersa nei ricordi del pasato incantano col loro fascino il visitatore." (F. Gregorovius, cit., vol. 1, p. 379).

La Storia di Roma nel Medioevo non è solo una storia di papi e imperatori, guerre e trionfi, saccheggi e giubilei, speranze e rivoluzioni; è anche una vera e propria storia dell’arte della Città Eterna, paragonabile — nel suo genere — a Le pietre di Venezia di John Ruskin. I giudizi estetici sono meno arditi e sentenziosi che nell’opera dello scrittore inglese; ma, come in quella, l’Autore ci guida con commossa partecipazione fra le pietre ancor palpitanti di un passato affascinante.

XII.

Abbiamo detto del senso di fatalità che muove tutta la Storia della città di Roma nel Medioevo, della visione ciclica della storia da parte del Gregorovius; ed è giusto che ci soffermiamo ancora su questo aspetto dell’opera. Vi sono dei punti, nei quali l’Autore stesso ci illustra la propria idea di necessità storica assai meglio di quanto potrebbe fare qualsiasi commento. Ad esempio, eccolo esprimere un giudizio globale sulla personalità e la funzione storica svolta da un personaggio notevole del XIV secolo: Cola di Rienzo.

"Il fascino con cui alcuni uomini ammaliano il mondo dipende dal fatto che essi sanno penetrare la coscienza del tempo. L’oscura illusione non basta di per sé sola, se dal velo che la circonda non sprizza un pensiero reale che getti all’intorno una luce improvvisa e tocchi una corda sensibile destando così l’entusiasmo, il qual eanch’esso si ammanta della stessa follia. Il tempo in cui visse Cola di Rienzo, traboccante di idee libertarie e di attese messianiche, portava nel proprio seno il germe di uno spirito nuovo. Nessuna meraviglia, perciò, se l’Italia stimò questo geniale romano come un eroe e un salvatore, quando spiegò arditamente la propria bandiera sulla vettadel Campidoglio. Poiché egli fu il vero profeta del Rinascimento latino." (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. 4, p. 185).

Se Cola, dunque, aveva conosciuto un momentaneo e apparentemente insipegabile successo, in quanto aveva saputo precorrere i tempi e portare alla luce ciò che oscuramente ribolliva nelle coscienze, il suo esatto rovescio è Arrigo VII di Lussemburgo, che perì nel corso di un’impresa nobile e sfortunata (restaurare il "giardino dell’Impero", per dirla con Dante: cioè l’Italia), perché era un sognatore che non aveva saputo interpretare lo spirito nuovo dei tempi, anzi era rimasto attardato rispetto ad esso. Ecco che cosa dice, a questo proposito, il Gregorovius:

"Eppure, benché la morte dell’imperatore sia sembrata al grande poeta [Dante Alighieri] un evento brutale e prematuro, un giudizio sereno dovrà riconoscere che il programma di Enrico era irrealizzabile perché l’epoca in cui fu concepito lo condannò. Esso non era che mero sogno ideologico e neppure Carlo Magno avrebbe potuto attuarlo." (F. Gregorovius, Ibidem, vol. 4, pp. 50-51).

C’è stato chi ha insinuato che anche il Gregorovius avrebbe soggiaciuto alla "frenesia storicistica" che tutto assolve e tutto giustifica, riferendosi, crediamo, proprio a codesta concezione della maturità o immaturità dei tempi rispetto a determianti uomini o a determinate idee. Paolo Rossi, ad esempio, nella sua Storia d’Italia in quattro volumi, scrive:

"Sappiamo anche noi che che a partire dal Gregorovius, nella frenesia storicistica che tutto giustifica, Teofilatto, Alberico, Teodora, Marozia sono stati difesi a spada tratta e anche esaltati comne fondatori di una forte dinastia e persino come vindici della libertà laica e nazionale." (Paolo Rossi, Storia d’Italia, Milano, 1971, vol. 1, p. 124).

A noi sembra che (fatto salvo un certo hegelismo di fondo, cui si è già accennato) dall’opera del Gregorovius si possa evincere, semmai, una conclusione opposta. Egli non valutava l’operato storico dei singoli individui alla luce di astratti ideali o di prefissati giudizi di valore, ma sotto quella, estremamente concreta, del loro realismo politico. Ecco allora, per esempio, che proprio la valutazione sull’opera interrotta di Arigo VII suona di una chiarezza inequivocabile:

"Tutti i contemporanei hanno lodato il lussemburghese come principe magnanimo, e forse nessun imperatore scese mai dalle Alpi con intendimenti così elevati e puri. Ma i mali d’Italia erano troppo profondamente radicati ed egli non potè guarirli. Contemporanei e posteri riconobbero che se quelli fossero stati curabili, nessuno sarebbe stato più adatto di lui a diventare il salvatore d’Italia; affermazione questa, che francamente può sollevare molti dubbi. Enrico VII morì al momento giusto, risparmiando al mondo un errore e forse a sé stesso l’odio degli uomini: sfortunato messia dell’Italia vissuto senza lasciare tracce durevoli della sua azione." (F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo, cit., vol. 4, p. 51).

È strano che il Gregorovius sia stato accusato di storicismo e, implicitamente, di amoralismo; ancora più strano che lo si sia accusato d’indulgenza assolutoria verso tutto e verso tutti. Contrariamente a quanto ha lasciato intendere il Rossi, il giudizio morale non solo non viene escluso dalla Storia della città di Roma nel Medioevo, ma fa la sua comparsa quasi ad ogni pagina, come risulta dalle non poche citazioni sino a qui riportate. Ma sono giudizi morali che non appannano la lucidità del giudizio storico; anzi, come nel caso della figura di Arrigo VII, lo rendono ancora più acuto e penetrante.

XIII.

Con il 1873, Ferdinand Gregorovius aveva pubblicato l’ultimo volume della sua grande opera, affidandola al giudizio non solo dei contemporanei, ma della posterità. Dopo i fatti di Porta Pia e la clamorosa caduta del potere temporale dei papi, la città – com’egli aveva previsto – cambiò completamente aspetto. Da un punto di vista storico egli ben comprendeva come ciò fosse inevitabile. Era giusto che la Città Eterna ridivenisse la capitale dell’Italia unita, e che scacciasse la fitta polvere che si era depositata su ogni cosa durante i lunghissimi anni del dominio pontificio. Egli, anzi, dalle ultime pagine della sua opera aveva salutato con sincero entusiasmo quell’evento, auspicando un avvenire luminoso per Roma, per l’Italia e per la Germania – le tre entità le cui storie gli erano sempre parse strettamente e ineluttabilemte intrecciate le une con le altre.

Ma l’uomo Gregorovius non si esauriva tutto nello studioso e, come ogni vero artista, non poteva rimanere del tutto indifferente al vertiginoso mutamento dei tempi. La Roma di Pio IX aveva meritato di cadere, però in quella Roma provinciale e cosmopolita al tempo stesso, egli aveva trovato il clima ideale per lavorare alla sua Storia, immerso nel clima trasognato di quelle rovine, di quei ricordi che si era sforzato di far risorgere a nuova vita. A un diplomatico tedesco che lo aveva invitato, a suo tempo, a trasferirsi a Berlino , ove avrebbe trovato biblioteche ben più fornite che a Roma, aveva risposto significativamente che "nella frivola atmosfera di Berlino" (parole sue) non gli sarebbe riuscito di scrivere nemmeno una riga. Egli doveva necessariamente vivere a Roma, mentre scriveva la sua Storia, e infatti vi rimase per ventidue anni. Ma poi, quando Roma divenne la capitale d’Italia, quando l’atmosfera della corte "piemontese" scacciò il fantasma di quella pontificia, ecco che anche qualcosa d’inconfondibile andò irrimediabilmente perduto. Gregorovius non si sentiva più a suo agio in quella Roma così cambiata. Del resto, anche la sua grande opera era finita; che ci restava a fare?

"Potrei invero rimanere ancora. Ma mi ripugna il pensiero di sopravvivere a me stesso nella solitudine e di invecchiare a Roma, dove tutto si rinnova e muta, dove l’incalzare di una nuova vita coprirebbe presto i miei antichi e cari sentieri e li renderebbe irriconoscibili." (F. Gregorovius, Diari romani, cit., p. 402).

Così, nel 1874, Ferdinand Gregorovius lasciava Roma e andava a stabilirsi in Germania, ma non nella sua vecchia Prussia Orientale, in riva al Baltico, sibbene a Monaco, quasi cercando un equilibrio tra la sua nordica terra natale e le indimenticabili suggestioni del mondo mediterraneo, in mezzo alle quali aveva così a lungo vissuto. Continò tuttavia a fare dei brevi viaggi in Italia, perché questa gli mancava troppo per distaccarsene definitivamente.

Intanto lavorava alacremente. Fin dal 1858 aveva pubblicato il poemetto Euphorion, ispiratogli da un viaggio a Capri, che lo aveva rivelato poeta finissimo. Nel 1874 apparve Lucrezia Borgia, da documenti e corrispondenze del suo tempo (Lucrezia Borgia, nach Urkunden und Korrespondenzen ihrer eigenen Zeit); a partire dal 1877, Scritti minori perla storia della cultura (Kleine Schriften zur Geschichte und Kultur); nel 1879, Urbano VIII in conflitto con la Spagna e l’Impero (Urban VIII im Widerspruch zu Spanien und dem Kaiser). Poi, nel 1889, un’altra opera storica di vasto respiro, la Storia della città di Atene nel Medioevo, in 2 volumi (Geschichte der Stadt Athen in Mittelalter. Von der Zeit Justinianus bis zum türkischen Eroberung), preceduto da una biografia storica assai interessante: Atenaide, storia di un’imperatrice bizantina (Athenaïs, Geschichte einer byzantinischen Kaiserin), del 1882. Infine, nel 1890 usciva l’ultimo suo lavoro storico, il saggio Le grandi monarchie, ossia gli imperi universali nella storia (Die Grossen Monarchien oder die Weltreiche in der Geschichte).

Il 1° maggio 1891 Ferdinand Gregorovius moriva a Monaco. Per dare un’idea della vitalità del suo animo anche in età avanzata, diremo solo che, dopo la sua partenza da Roma, nel 1874, si era messo a studiare il greco per poter leggere i classici nell’originale; e ne scaturirono le sue opere storiche dedicate alla città di Atene e all’imperatrice Atenaide.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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