
Confessione di una ragazza musulmana di Jaipur
3 Giugno 2006
Ferdinand Gregorovius, uno storico poeta
28 Giugno 2006Questo racconto è compreso nel volume "La bambina dei sogni e altri racconti" di F. Lamendola, editore Lalli, Poggibonsi (Siena), 1984, pagg. 120-130.
(N. B.: il libro è da tempo esaurito e fuori commercio. Chi fosse eventualmente interessato, può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica).
Il giovane poeta viveva lassù, sopra la foresta dei tetti e dei camini. La sua finestra era spalancata sul cielo, a un passo dalle nuvole bianche. A sera, in primavera, era tutto uno stridìo di rondini che sfiorando la finestra descrivevano ampi velocissimi cerchi. Certune, staccandosi dalle compagne, si spingevano solitarie in alto, in alto, fin sotto la vòlta delle nuvole portatrici di pioggia, e rimpicciolivano come puntini neri persi nell’azzurro infinito. Egli stava affacciato e le seguiva con lo sguardo, finchè scomparivano del tutto alla sua vista. Allora, respirando profondamente, ritornava al suo lavoro. Era quella infatti l’ora da lui preferita per scrivere e per dipingere. Perché in fondo ad ogni poeta vi è anche un pittore. Di lui si sarebbe potuto dire, come di Wang Wei, che le sue poesie erano pitture e le sue pitture, poesie. (1) Ma, a differenza del grande artista cinese, egli era passato finora quasi del tutto inosservato e continuava a lavorare tutto solo, povero e sconosciuto, libero però da ogni conformismo, e sereno. Una ricchezza, questa, cui egli ben difficilmente si sarebbe risolto a rinunciare, e sia pure in cambio dei riconoscimenti e della celebrità.
1) La definizione è di un poeta dell’XI secolo, Su Tung-p’o.
Adesso che stava avanzando l’estate, aprendo le finestre e svuotando le strade, si avvicinava la stagione dell’anno a lui più gradita. Il poeta non amava la città e, trovandosi a viverci, la prediligeva nelle ore deserte, come l’alba che l’accende di magici riflessi, e nella stagione in cui la gente parte per le vacanze. Allora, a sera, restava padrone delle vie pacifiche e silenziose, allietato dalle sue amiche rondini, e si spingeva volentieri in lunghe tranquille passeggiate. Nell’insolita quiete cittadina, che avrebbe depresso gli amanti del chiasso e del movimento, egli raccoglieva il pensiero e con la mente anticipava i suoi quadri e le sue nuove poesie. Finalmente le pietre lisciate da innumerevoli passi, i balconi frastornati dal trambusto dei mesi lavorativi gli sorridevano con aria amica, e gli parlavano il loro linguaggio segreto, che agli spiriti volgari e sempre affaccendati non è dato sentire. Le vòlte dei porticati gli narravano la loro antica storia, e i gerani bianchi e rossi alle finestre descrivevano per lui la vita segreta delle case rimaste vuote, dopo la partenza degli abitanti per il mare. Allora nel suo animo intirizzito dallo squallore dell’inverno si scioglievano gli ultimi residui di ghiaccio, ed egli era il padrone di quel mondo fatato e silenzioso.
Il giovane poeta vide Elisa per la prima volta in piscina. Vi era andato in cerca di un po’ di refrigerio dopo il calore ardente di una giornata di luglio, e dapprima senza accorgersene rimase colpito dalla grazia e dalla felicità serena che emanavano da lei. Non si poteva dire che nuotasse molto bene, anzi si tuffava in maniera goffa e nuotando sollevava alti spruzzi, eppure possedeva una compostezza innata di movimenti che faceva passare inosservata la sua inesperienza. Nel suo volto simpatico e schietto, nei suoi occhi lucenti, nel suo modo di ridere erano una tale delicatezza di linee e tanta naturale semplicità, quali egli non aveva mai vedute in vita sua. Nessuna donna da lui conosciuta o anche soltanto vista poteva reggere il confronto con la bellezza inconsapevole, e perciò meravigliosa, di quella fanciullina che non era più bambina ma nemmeno già ragazza. Prima che nella mente di lui si fosse formato alcun preciso ragionamento, istintivamente la sua fantasia stava già lavorando per dare una collocazione plausibile a quella apparizione. Da dove veniva? Quanti anni aveva? Cosa faceva la sua famiglia? Come sarebbe stato bello poterne eseguire il ritratto! Era il modello che aveva sempre vagheggiato, sempre cercato, senza averlo mai trovato. Il caso glielo offriva così, all’improvviso, in una calda e pigra sera di luglio, quando anche le voci e i rumori giungevano smorzati e come rapiti dall’indolenza.
Non sapeva da quanto tempo fosse lì a guardarla, quando una signora, ch’egli suppose esser la madre o forse una zia, chiamò la fanciulla ed ella uscì raggiante dall’acqua e in un attimo disparve. Di lei non gli era rimasto che il nome: Elisa.
Passarono i giorni. Il poeta continuava a scrivere e a dipingere, ma non aveva potuto dimenticare quella visione, il cui ricordo specialmente a sera gli turbava il cuore. Un paio di volte era stato tentato di prendere i colori e farne il ritratto a memoria, ma quest’ultima lo aveva tradito e aveva dovuto rinunciare. Non ricordava bene i particolari del volto; piuttosto, gli era rimasta nell’anima una vaga ma intensa impressione di leggiadria inesprimibile. Era come se una luce misteriosa aleggiasse su quel volto di fanciulla e lo rischiarasse della sua segreta dolcezza. Tutto quel che egli aveva potuto fare era stato buttar giù qualche schizzo a matita della piccola nuotatrice. Con pochi segni si era sforzato di ricostruire quell’incanto indefinibile, quella naturale compostezza ed eleganza che annullavano gli stessi difetti del movimento. Ne era uscita una figuretta svelta, ridente di vita e al tempo stesso misurata e tranquilla.
Allora egli aveva intuito il prodigio di Elisa, che fin dal primo istante lo aveva incantato: come una creatura uscita dal più alto ideale della Grecia classica, ella fondeva ed armonizzava in sé stessa la gioia del corpo e la spiritualità dell’anima, con tale perfetto equilibrio che nemmeno per un istante esse si facevano ombra l’una con l’altra. La felicità della sua giovanissima vita era trascesa dalla superiore compostezza del sentimento, e la profondità vagamente pensosa di esso temperava la sua esuberanza, senza far velo alla grazia tipica della sua età. Ella esprimeva nel medesimo tempo la giocondità della bambina e l’armonia dolcemente pensosa della donna. Il poeta aveva vissuto solitario per tutti quegli anni alla ricerca di un tale ideale. Ora sapeva che esso era concretamente vivo ed esistente, che aveva un nome, una figura precisa. La sua lunga attesa silenziosa era stata premiata.
Quando fece questa scoperta – era di primo mattino, ed egli disteso nel letto lasciava vagare la mente nell’alba rosata – un’esultanza simile a un tuffo di gioia gl’infiammò il cuore. Da quel momento ebbe la misteriosa certezza che avrebbe rivisto Elisa.
Una sera, passeggiando senza mèta nel verde e nella pace d’una strada di periferia, si trovò a passare quasi in mezzo a un gruppo di ragazzi che giocavano a palleggio, padroni della via. Immerso nei suoi pensieri non vi fece gran caso, fin quando la palla, mancando evidentemente il giocatore cui era diretta, gli arrivò incontro. Egli aprì istintivamente le braccia e la ricevette al volo fra le mani, indi alzò gli occhi verso il punto di dove era arrivata: e gli mancò il fiato. Davanti a lui, sorridendo con simpatica naturalezza, stava Elisa.
Era più bella che mai: lo guardava e tendeva a sua volta le mani aperte, come per invitarlo a rinviarle la palla. Tutta la sua piccola persona emanava freschezza e allegria, mentre gli occhi si posavano su di lui con garbata disinvoltura, come se ricevere la palla da quello sconosciuto, cui era capitata per caso, fosse per lei la cosa più naturale del mondo. Egli invece tardava a farlo, sorpreso e felice per quell’incontro inatteso, ma soprattutto colpito dallo splendore della ragazzina, che sorpassava perfino il ricordo. Vedendola così da vicino provava una contrastante sensazione: che ella fosse cioè ad un tempo più piccola e più grande di come l’aveva veduta la prima volta. Più piccola fisicamente, perché in piscina l’aveva osservata solo a distanza, e adesso constatava che gli arrivava appena al mento: e tuttavia più grande, come più adulta, forse per via di quel costume rosso dall’aria un po’ infantile, che adesso non aveva; o forse per la profondità inattesa dello sguardo, che adesso poteva notare da vicino.
Mentre tali pensieri gli attraversavano in folla la mente, egli restava lì fermo con la palla tra le mani, e un’ombra leggera e graziosissima passò appena sugli occhi di Elisa. Allora subito si riebbe e le lanciò la palla: lei la ricevette con presa sicura e gli sorrise, e prima di riprendere il gioco con i compagni gli rivolse un "grazie" con voce gaia ed acuta. Tutto ciò non durò che qualche istante, eppure rimase impresso in ogni particolare nell’animo del poeta. Non era più lo stesso uomo di prima quello che con passo apparentemente tranquillo si rimise per la sua strada nella sera pacifica d’estate. Due volte di seguito non è più una coincidenza, pensava: è un segno del destino. E tornato a casa si mise a dipingere.
Lavorò con foga, quasi con frenesia, come non gli accadeva da tempo. Strano a dirsi, la sua mano correva sicura quasi come se stesse eseguendo il ritratto dal vero. Questa volta la sua mente aveva fotografato con precisione tutti i dettagli salienti ed era in grado di riprodurli sulla tela, senza che nell’atto materiale tendessero a sfuggire di nuovo, come gli era già accaduto. E la gioia di vedere quell’immagine riapparire poco a poco sotto il suo pennello era tale, che non avvertiva né lo sforzo né il trascorrere del tempo. Era come riportare alla luce un poco alla volta un tesoro sepolto, mai però completamente dimenticato. Anzi in un certo senso provava la netta sensazione di essere stato fedele ad Elisa assai prima di averla veduta quel pomeriggio in piscina: di essere suo da sempre. Di averla aspettata prima ancora d’averla conosciuta, e di averla riconosciuta pur non avendola mai vista prima. Quando terminò il quadro, a notte fonda, si allontanò di due passi e rimase a lungo a contemplarlo: sì: i capelli, gli occhi, il nasino, la bocca sorridente, tutto era fedelmente riprodotto. Elisa lo guardava sorridente dalla tela, quasi stupita lei stessa di quel ritrovamento improvviso, di essere stata rievocata dai sogni irriducibili d’un giovane poeta solitario.
Solo allora egli avvertì la stanchezza, guardò l’orologio: aveva lavorato per ore ed ore senza un attimo di pausa. E adesso era talmente stanco che si gettò sul letto senza neanche svestirsi, felice. Prima di addormentarsi, nel riflesso della luna attraverso la finestra aperta sul cielo, rimase a lungo a contemplare il ritratto della piccola Elisa, che a sua volta lo fissava con un vago sorriso.
La rivide appena due giorni dopo, tali sono le bizzarre leggi del caso. A meno che la nostra vita sia regolata da qualcosa di più alto del caso. Ma la rivide in circostanze completamente diverse. Stava tornando a casa passando attraverso il parco pubblico, a sera: la magica ora in cui il lungo giorno d’estate esita un poco prima di morire, e i suoni giungono attenuati e discreti, quasi timorosi di spezzare un incantesimo. L’ora in cui Elisa gli era già apparsa, impensatamente, le prime due volte.
A un tratto, mentre procedeva per il viale alberato, gli sembrò di scorgerla su una panchina, tutta sola, col capo tra le mani volto a terra. Ma no, non poteva essere lei. Quella ragazzina laggiù stava piangendo, mentre Elisa era felice. Non poteva essere la stessa persona che solo due sere prima aveva veduto giocare al pallone con gli amici nella via, fresca e sorridente come se la vita stessa si fosse inchinata davanti allo spettacolo di tanta serena semplicità e letizia. Nondimeno, si avvicinò alla fanciulla sulla panchina. Rimase qualche trempo incerto, perché non riusciva a vederne il viso: si diceva comunque che non poteva andarsene così, chiunque ella fosse, senza fare qualcosa.
A un tratto fu lei ad alzare il capo, come se avesse sentito su di sé il suo sguardo, e lo fissò con occhi arrossati di pianto: era Elisa. Il poeta provò una fitta al cuore, poi il bisogno irrevocabile di lenire in qualche modo quel precoce dolore di bambina superò le resistenze dell’imbarazzo, e le sedette accanto. Poteva fare qualcosa per lei?, chiese. No, nessuno poteva. Perché piangeva lì nel parco tutta sola? A quella domanda Elisa fu scossa da un nuovo singhiozzo, ma più silenzioso, perché si sforzava di reprimerlo. Egli le diede il suo fazzoletto e rimase qualche minuto in silenzio, lasciandola sfogare. Poi, quando ella si fu alquanto calmata, le ripetè con dolcezza la domanda. Allora, esitando, con voce ancora un poco spezzata, Elisa disse che la mamma stava male, molto male. Il poeta cercò di sapere qualcosa di più, ma tutto quello che seppe fu che la mamma era in ospedale ed era molto ammalata.
Egli aveva l’impressione di stare sognando. Seduta accanto a lui era una ragazzetta rattrappita dalla sofferenza, con gli occhi gonfi, i cui piedi sfioravano appena il terreno sotto l’alta panchina. Eppure in quegli occhi, in quella bocca, in quel piccolo corpo vi erano una tale profonda dignità, una così acuta consapevolezza da adulta, da sottolineare per contrasto e al tempo stesso da annullare la prima impressione, che fosse solo una bambina all’alba della giovinezza. Come quando, in piscina, la sua grazia senza sforzo era risaltata proprio dal suo modo impacciato di nuotare. Era e non era la creatura dei suoi sogni: al primo sguardo sembrava solamente un piccolo essere addolorato, subito dopo la sua misteriosa maturità avvertiva il poeta di aver accanto ben più di una comunissima bambina.
Senza sapere lui stesso come, si mise a parlarle. Soltanto poco tempo più tardi non avrebbe saputo più dire di cosa le avesse parlato. Fu un discorso pacato e appassionato al tempo stesso, ardente di fiducia e di speranza, dettatogli lì per lì dal desiderio struggente di consolarla. Le disse che forse la mamma sarebbe guarita; che forse sarebbe guarita presto; ma che lei non doveva scoraggiarsi, perché le avrebbe dato un dolore. E poi le disse ancora tante cose: quelle cose che si dicono in tali circostanze e che suonano così banali, a meno che vi si oda vibrare la commozione vera di chi partecipa al nostro dolore. Parlò a lungo, sforzandosi d’infonderle il coraggio, e quando ebbe finito Elisa doveva avere avvertito pienamente la sincerità della sua partecipazione, perché non solo smise di piangere ma si volse a fissarlo, per la prima volta da che egli le si era seduto accanto, con un sorriso di gratitudine in fondo agli occhi ancora lucidi. Gli tese la mano con gesto solenne, ed egli la strinse, commuovendosi nel sentirla così piccola e delicata nella sua. Poi gli restituì il fazzoletto e con serietà da adulta si alzò dirigendosi verso l’uscita. Lui rimase seduto a guardare la sua figuretta allontanarsi sotto l’ombra fresca dei salici. Quando fu arrivata alla svolta del viale, Elisa si volse improvvisamente e agitò la mano con calore infantile, sorridendogli come a un vecchio amico, prima di sparire nella quiete della sera.
Passarono i giorni, le settimane, i mesi. Il poeta si era gettato febbrilmente nel lavoro. Aveva scritto per Elisa le sue più belle poesie, sforzandosi di trarre fuori e per così dire di visualizzare l’incanto misterioso e assolutamente indefinibile che emanava dalla sua piccola amica. Nei suoi versi chiari e delicati la figura di lei emergeva poco alla volta con evidenza irresistibile, come in un ritratto, pennellata dopo pennellata, conservando intatto tutto il fascino dolce e strano dell’originale. Egli si era dedicato a questa impresa come al compito supremo della sua vita di artista, come a un dovere quasi religioso, soffrendo e gioendo con tutta l’anima: e veramente superò sé stesso. Per merito di Elisa le sue poesie si accesero di vita e si animarono al soffio immortale dell’arte.
Intanto l’estate finì, passò anche l’autunno, e tornò l’inverno. Aveva concluso da tempo la sua fatica poetica e le giornate trascorrevano squallide e vuote, senza luce, senza bellezza. Anche la città, dopo aver deposta la sua veste silenziosa e un po’ trasognata dei mesi estivi, era stata nuovamente travolta e involgarita dal brutto affannarsi della vita da forzati dei suoi abitanti. Il poeta trascinava penosamente i giorni, e le notti erano piene della nostalgia di Elisa. Aveva spedito le sue poesie a un critico famoso, ma senza più ricevere risposta. Allora, giunto realmente sull’orlo della fame, finì per trovare un piccolo lavoro come organista in una chiesa. Guadagnava appena quanto basta per sopravvivere, ma almeno poteva suonare l’organo dolce e maestoso a tutte le ore del giorno. Le note vibranti e solenni correvano per la penombra delle navate e alimentavano la fiammella vacillante della sua poesia, dandogli la forza di attendere il ritorno della primavera.
Una sera di gennaio, finita la messa, si era attardato a suonare le melodie divine dei suoi grandi maestri. La gente se n’era andata tutta da tempo e anche il sacrestano era uscito, lasciandogli le chiavi. Egli era dunque tutto solo nella grande chiesa fredda e buia, piena di ombre misteriose, nel piccolo cerchio di luce della lampada sopra la tastiera. Stava suonando con passione uno dei suoi pezzi preferiti, quando la sensazione d’uno sguardo sopra le sue spalle lo fece volgere improvvisamente. Elisa era lì, e tratteneva a fatica un riso birichino, come per vedere quando finalmente sarebbe stata scoperta.
Elisa! Dov’era stata tutto quel tempo? E la mamma, come stava? Il poeta non si stancava di ammirarla, quasi timoroso di vederla nuovamente svanire, così all’improvviso com’era apparsa. Ella disse che la mamma era guarita: aveva avuto ragione lui, bisogna sempre sperare! Poi gli parlò un poco dei suoi studi, frequentava già la terza media: ed egli stava là ad ascoltarla, incantato, finalmente felice nella certezza di quella presenza, senza affatto chiedersi di dove fosse arrivata, e come lei sapesse che lui era lì a suonare, e senza pensare alla stranezza di quel colloquio sotto l’organo antico, nella chiesa vuota e semibuia. Poi si trovò a raccontarle a sua volta di quel che in quei mesi aveva fatto. Le disse delle poesie, e ad Elisa scintillarono gli occhi dalla felicità. In quel momento, per un istante, riapparve la bambina entusiasta e un po’ infantile; ma poi subito nei suoi occhi chiari ritornò la composta serietà da adulta, ed ella volle conoscere tutti i particolari del suo lavoro. Dovette anche dirle che il critico non gli aveva nemmeno risposto; ma a quelle parole Elisa si raddrizzò, sorrise con fare misterioso, e gli ripetè con sguardo d’intesa le parole che lui le aveva detto per consolarla quella volta nel parco: che non bisogna mai, mai scoraggiarsi.
In realtà il critico rispose. Non solo: ma si adoperò perché le poesie venissero pubblicate. Esse furono raccolte in un volme dalla copertina azzurra, sotto il titolo: Poesie per Elisa: ed è quel libro famoso che oggi voi tutti conoscete.
Il successo però non ha cambiato per nulla il suo autore. Se uscite a sera per le vie più tranquille, specialmente d’estate, quando la città si spopola, può capitarvi d’imbattervi in un giovane dall’aria assorta, che passeggia tutto solo con una luce intensa nello sguardo. È il giovane poeta, che probabilmernte sta pensando alla sua piccola amica. Quanto ad Elisa, non c’è bisogna che vi dica come fare per riconoscerla. Quando vi sentirete palpitare il cuore davanti all’incanto misterioso di una dolcissima e gaia personcina: quando qualcosa denro di voi si scioglierà, come la neve dello squallido inverno ai raggi del sole di marzo: allora saprete di averla incontrata.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels