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Governo di Vitellio e insurrezione di Vespasiano

Questo articolo è un estratto dal Capitolo Quinto del volume di F. Lamendola "Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C.", Lalli Editore, Poggibonsi (Siena), 1984, pp. 131-151.

(N. B.: il libro è da tempo esaurito e fuori commercio. Chi fosse eventualmente interessato, può rivolgersi all’Associazione Eco-Filosofica).

  1. [VITELLIO IN ITALIA.**

I senatori che avevano seguito l’esercito di Otone nell’Italia settentrionale si trovavano a Modena quando giunse loro la notizia della disfatta di Bedriaco (13 aprile del 69) ad opera dell’esercito di Vitellio. La loro posizione era già di per sé penosa, scortati com’erano da truppe maldisposte nei loro confronti, fanatiche sostenitrici di Otone e più che mai convinte che nell’animo di ogni senatore si celasase un potenziale traditore. Dopo la battaglia di Bedriaco, essi si trovarono stretti fra l’incudine e il martello: gli otoniani spiavano ogni loro parola, e non aspettavano che un pretesto per dare mano alla strage, già altra volta invocata; d’altra parte era evidente che il partito di Otone aveva ormai le ore contate e, dunque, dovevano stare bene attenti a non commettere alcun gesto compromettente nei confronti del vincitore, divenuto il nuovo padrone dell’Impero.

La situazione ebbe pure una nota grottesca quando il senato municipale della città di Modena offrì armi e denari per proseguire la guerra contro Vitellio, e attribuì ai senatori il titolo di padri coscritti. Ignoriamo come questi ultimi riuscirono a trarsi d’impaccio senza destare le ire dei pretoriani; probabilmente presero tempo, poiché siamo informati che decisero di partire immediatamente per Bologna. Quivi li raggiunse la notizia del suicidio di Otone, che li liberava, anche formalmente, dal giuramento di fedeltà al partito ora sconfitto, e, senza dubbio, quella notizia allentò la tensione esistente fra pretoriani e Senato. Poiché, ormai, anche le truppe avevano tutto l’interesse a non compromettersi ulteriormente nei confronti di Vitellio, il Senato potè fare una unanime proclamazione di adesione al partito vincitore, tanto tempestiva quanto vile e sfacciata. Il fratello del duce germanico, Lucio Vitellio, era il capo della fazione senatoria favorevole al nuovo regime, e attorno a lui si raccolsero naturalmente le adesioni dell’intera assemblea.

A Roma, la notizia della morte di Otone e della vittoria di Vitellio produsse un voltafaccia non meno repentino. Mentre l’Italia veniva spietatamente messa a sacco dalle legioni germaniche, il Senato votava le più servili dichiarazioni nei confronti di Vitellio, e lodava a gran voce l’ardimento di quelle medesime legioni. Il popolo sembrava solidale col Senato nell’acclamare Vitellio; è probabile che, insieme alla paura, questo comportamento sia stato dettato dalla speranza che, finita la guerra, vi sarrebbe stato un pacifico ritorno alla vita commerciale. È inevitabile dedurne che la politica giulio-claudia in generale, e quella neroniana in particolare, basata sulla munifica distribuzione di panem et circenses aveva a tal punto alienato il popolo di Roma dalla partecipazione alla vita politica, che per esso cominciava a essere indifferente il nome del nuovo padrone, purchè frumento e spettacoli non venissero a mancare troppo a lungo.

La notizia della morte di Otone giunse a Roma proprio mentre si stavano celebrando i giochi in onore della dèa Cerere. Qurella stessa folla che aveva osannato Galba fino a pochi istanti prima della sua morte, e che poi aveva salutato con prorompente commozione la partenza di Otone per la guerra, si affrettava ora ad accogliere il suo terzo imperatore nel giro di pochi mesi. Il prefetto Flavio Sabino (fratello del futuro imperatore Vespasiano) si affrettò a far giurare fedeltà a Vitellio alle coorti urbane, che da lui dipendevano.

Vitellio da parte sua, con marcia lenta e fastosa, scendeva dalla Germania verso l’Italia per raccogliere i frutti della vittoria riportata dai suoi eserciti a Bedriaco. Aveva lasciato poche unità scelte di legionari a presidiare la linea del Reno, col rinforzo di una parte degli eserciti di Britannia, appositamente richiamati; e aveva lasciato il comando delle due Germanie al legato Ordeonio Flacco. Con il resto delle legioni e con le nuove leve, precipitosamente indette in Gallia e in Germania, aveva messo insieme un terzo esercito, formidabile per numero e più che mai barbarico e spaventevole nell’aspetto. Queste erano le truppe alla testa delle quali si preparava ad entrare, da conquistatore, nelle civilissime terre della Penisola, che da quasi due secoli – dal tempo di Caio Mario, dei Cimbri e dei Teutoni – non avevano più visto tali masse di barbari armati. La posizione di Vitellio, politicamente e moralmente, era dunque di per sé alquanto delicata, ma egli non fece che aggravarla con la propria mancanza di senso della misura e con la sua offensiva ed inutile ostentazione di potenza militare.

Risalì la Saona su un battello magnificamente ornato, circondato a una corte degna di un sovrano orientale e da servi e liberti che mettevano ogni cosa a soqquadro con la loro avidità di ricchezze. Il liberto di Vitellio, Asiatico, compiva le stesse ruberie e svolgeva il medesimo ruolo che era stato di Icelo presso Galba. Entrato in Italia, apparve subito chiaro che Vitellio non era padrone delle proprie truppe più di quanto lo fossero mai stati i suoi generali, Cecina e Valente, i vincitori dellla campagna contro Otone. Già ad Augusta Taurinorum (Torino) si ebbero degli incidenti fra gli ausiliari batavi, sempre arroganti e turbolenti, e i legionari. L’imperatore, poi, suscitò l’odio delle legioni danubiane, ordinando l’uccisione di molti centurioni e sottoponendo a processo capi famosi come Svetonio Paolino, i quali, per salvarsi, non seppero far di meglio che vantarsi di aver tradito deliberatamente Otone. Quanto ai pretoriani, li sciolse in maniera disonorevole, quali principali sostenitori del caduto regime, dopo aver fatto loro consegnare le armi ai centurioni. La I legione "Adiutrix" fu mandata a sbollire i furori nella lontana Spagna, e la XIII fu punita per aver partecipato alla battaglia di Bedriaco, venendo destinata ad allestire spettacoli nel circo di Cremona. Questa disgraziata città avrebbe avuto a pentirsi, appena pochi mesi più tardi, del duro e umiliante trattamento inflitto ai soldati di Otone.

A Pavia, mentre Vitellio banchettava, scoppiò una nuova e più grave lite fra legionarti e ausiliari galli, nella quale due intere coorti vennero massacrate e Verginio Rufo, che pranzava con l’imperatore, per poco non finì ucciso. A Cremona, Vitellio assistette ai giochi preparati da Cecina, e a Bologna fece lo stesso coi ludi gladiatori allestiti da Valente.

In mezzo a tali distrazioni, i suoi due generali lo condussero sul campo di battagliadi Bedriaco, per fargli vedere i luoghi della vittoria del suo esercito, e spiegargli le alterne fasi di quella giornata decisiva. La pianura verdeggiante era tutta cosparsa di cadaveri in decomposizione – circa quarantamila fra otioniani e vitelliani – che emanavano un fetore terribile. Mentre Cecina e Valente gli illustravano le azioni salienti della battaglia, alcuni ufficiali, nauseati, si turavano il naso. Ad essi l’imperatore avrebbe fatto coraggio con queste indegne parole: "L’odore del nemico ucciso è sempre buono, specialmente se si tratta di cittadini." Risparmiò il sepolcro di Otone vedendo che era estramemente modesto, dicendo di trovarlo in tutto degno di un tale imperatore.

Imboccata poi la Flaminia, Vitellio fece una veglia sulla cima dell’Appennino e quindi scese finalmente verso Roma, ove popolani e senatori si preparavano ad accoglierlo con le adulazioni più servili. Le indisciplinate truppe germaniche avanzavano come in terra di conquista e rubavano tutto quel che capitava loro a tiro, commettendo anche varie altre prepotenze ai danni delle popolazioni. Giunto l’esercito a sette miglia dall’Urbe, l’imperatore ordinò un’ultima sosta e, ben conoscendo l’indole dei suoi soldati, fece fare una copiosa distribuzione di carne, affinchè, sazi, non trovassero motivo di incidenti con gli abitanti. Allora dalla città venne loro incontro una folla di curiosi, per vedere quei guerrieri barbari dalla statura gigantesca, coperti di enormi pellicce e armati di picche lunghissime, che parlavano fra di loro svariate e incomprensibili favelle.

Accadde allora un episodio sintomatico dello stato d’animo dell’esercito vincitore. Alcuni sfaccendat ipopolani ebbero la malaugurata idea di nascondere i cinturoni a un gruppo di soldati distratti, che si rimpinzavano di cibo come gladiatori, e poi, per burla, li invitarono a cingere le armi. La reazione di quei rozzi soldati, calati dalle foreste in riva al Reno, fu addirittura bestiale: dato di piglio alle spade, si gettarono su quegli inermi cittadini e ne fecero scempio. Un legionario ebbe il pade, venuto a trovarlo da Roma, trucidato dai compagni sotto i propri occhi. Quando furono sazi di strage, i soldati si rimisero in marcia verso la capitale, ormai preceduti da un brivido di terrore.

L’ultimo di questa lunga serie di passi falsi, Vitellio lo commise entrando nell’Urbe. Gli era stato sconsigliato di fare il suo ingresso come in una città conquistata, tuttavia non seppe trattenersi dal far pesare il fatto che egli prendeva possesso del Palatino nelle vesti di vincitore. Entrò in Roma dal Ponte Milvio, cavalcando un desteriero fastosamente bardato; indossava un mantello da generale e cingeva la spada al fianco. Tra squilli di tromba, preceduto dal servile corteo del Senato e del popolo, circondato da insegne e stendardi, attraversò tutta la città fino al Campidoglio, come un antico trionfatore. Dietro le aquile dei legionari, i cittadini sgomenti vedevano avanzare pochi soldati romani e una massa confusa di Galli, Germani e perfino Britanni, nei loro pittoreschi costumi, che procedevano con le armi scoperte. Il loro comportamento verso i discendenti di Romolo fu arrogante e brutale, né essi si lasciarono sfuggire il minimo pretesto di litigio per mostrarsi come dei conquistatori. Arrivato in Campidoglio, l’impreratore abbracciò la sua vecchia madre, la nobilissima Sestilia, dandole solennemente quel titolo di Augusta che per sè aveva, in un primo tempo, rifiutato; indi prese possesso del palazzo dei Cesari.

  1. [CARATTERE DEL GOVERNO VITELLIANO.**

L’indomani, uno spettacolo straordinario si presentava agli abitamnti della Città Eterna. Dovunque era un pullulare di soldati; gli accampamenti erano così pieni che un grandissimo numero di legionari e di ausiliari barbari bivaccavano caoticamente nelle piazze e sotto i portici dei templi. Lo storico giudeo Flavio Giuseppe dice che, con l’arrivo di Vitellio, la città di Roma era stata trasformata in una gigantesca caserma. Alcuni distaccamenti di Germani, non trovando altro luogo, erano andati ad attendarsi proprio negli Horti Vaticani, luogo notoriamente malsano per le acque stagnanti depositate dal Tevere e dove molti di essi, con l’avanzare della stagione calda, finirono per contrarre la malaria. Ma se Vitellio era entrato nell’Urbe alla testa di un esercito di ben 60.000 uomini, anche più grande – a dire di Tacito – era il numero dei vivandieri, dei facchini, dei liberti, il cui comportamento era ancor più sfrontato e tracotante di quello dei soldati.

Quel giorno stesso l’imperatore tenne al popolo e al Senato un discorso pomposo e magniloquente, pieno di vanterie e senza far cenno, a quanto sappiamo, dei mali cagionati dalla guerra civile all’Impero e all’Italia. Il popolo, che in gennaio aveva salutato Otone col nome di Nerone, dovette ora accorgersi, non senza stupore, che il nuovo imperatore era per molti aspetti la vera copia del Nerone degli ultimi anni. Infatti, benchè avesse ordinato di ricercare e mettere a morte gli autori delle centoventi petizioni di ricompensa indirizzate a Otone per l’assassinio di Galba, non esitò a circondarsi di cocchieri, istrioni e citaredi, applaudì le composizioni di Nerone e dimostrò, già lungo la strada dalle Alpi a Roma, la sua passione per gli spettacoli e i combattimenti di gladiatori. Questo suo atteggiamento di imitatore di Nerone – del quale, del resto, era stato adulatore sfrontato al tempo in cui quegli si esibiva come attore e citaredo, e perfino come suo compagno nelle corse dei cocchi (tanto da riportarvi una infermità permanente alla gamba) – poteva apparire, ed in effetti era, come cosa ormai non solo di dubbio gusto, ma anche politicamente superata, tuttavia dovette riscuotere un certo successo tra gli strati più miseri e ignoranti del popolino, quelli mantenuti e divertiti a spese dello stato, che di Nerone conservavano sempre un favorevole ricordo. Questo successo fra le classi popolari è confermato in vari luoghi della storiografia contemporanea e spiega, nel successivo mese di dicembre , la coraggiosa e disperata resistenza in difesa di Vitellio, opposta dalla plebe ai flaviani, nell’imminenza della sua caduta. Quanto al Senato, che aveva cambiato padrone per tre volte nel giro di neppure un anno, e che ogni volta aveva acclamato il vincitore del momento, si trovava ormai – indebolito e screditato dai suoi stessi, continui voltafaccia – in condizioni di totale dipendenza dal nuovo regime.

Vitellio, una volta arrivato a sedere nel palazzo dei Cesari, dimostrò la sua natura di mero strumento nelle mani delle legioni germaniche, riducendosi a svolgere una funzione più che altro rappresentativa – ciò che, oltretutto, fece nel peggiore dei modi. I suoi due ambiziosi e potentissimi generali, Cecinae Valente, ai quali andava debitore sia del riconoscimento a Colonia, sia della vittoria, si fecero avanti per spartirsi il potere effettivo dietro le sue spalle. La nomina dei due nuovi prefetti del Pretorio dimostrò questa situazione di compromesso, una sorta di spartizione dei poteri fra i due capi: Giulio Prisco era il candidato di Valente, mentre Pupilio Sabino lo era di Cecina. Preso in mezzo fra le ambizioni dei suoi generali, a Vitellio non restava altro che ratificare il compromesso de facto, e una prova evidente della sua impotenza è che, mentre smobilitava buona parte del suo numeroso esercito, a Roma rimase invece quella enorme folla di armati, e né Cecina né Valente si allontanarono dalla capitale.

Pare comunque che, nella sorda lotta per il potere ingaggiatasi fra i due e dissimulata nella cornice festosa dei banchetti di Vitellio e delle ruberie di Asiatico, Fabio Valente finisse per assicurarsi un certo vantaggio nei confronti del rivale – e non tanto, a quanto sembra, col favore dello stesso Vitellio, quanto perché le simpatie delle truppe erano passate a lui dopo la sconfitta di Cecina al Locus Castorum e la battaglia di Bedriaco. Fu allora, forse, che nell’animo smisuratamente ambizioso di Cecina cominciò a maturare, assieme all’odio per il rivale, il progetto ancora informe del tradimento. Certo è che se Valente, verso la fine delll’estate, non fosse caduto gravemente ammalato a Roma, il corso della storia e delle fortune del partito vitelliano avrebbero conosciuto una diversa vicenda.

Per ciò che riguarda Vitellio personalmente, gli storici e i cronisti pettegoli di qusta età si sono sbizzarriti fin troppo a presentarci lo spettacolo infamante e vergognoso della sua crapula, neghittosità e vigliaccheria. Tacito arriva al punto di paragonarlo a un bue che, sazio e ben pasciuto, di null’altro si preoccupa fino a quando il cibo non gli viene meno; e Svetonio ci descrive minutamente i suoi lauti banchetti, le cui fantastiche dimensioni ricordano il modello letterario del Satyricon di Petronio. Dice che l’imperatore ne consumava almeno tre o quattro al giorno; che ciascuno di essi costava centinaia di migliaia di sesterzi; e che Vitellio aveva perfino inventato un piatto, da lui chiamato "lo scudo di Minerva", fatto con fegati di scari, cervelli di fagiani e pavoni, lingue di fenicotteri e latte di murene, il cui costo può solo essere immaginato.

Tuttavia, nonostante le compiaciute esagerazioni della storiografia di parte senatoria, è assodata l’incredibile ghiottoneria di Vitellio, benchè rimanga da chiarire fino a che punto tali banchetti non rientrassero nel programma propagandistico di restaurazione "neroniana". Il popolino, come si è detto, era tuttora assai sensibile a questo aspetto; ma è altrettanto certo che, negli otto mesi intercorsi fra la battaglia di Bedriaco e la sua fine, Vitellio fece pagare assai cara allo stato siffatta politica, in termini di spesa pubblica e disavanzo del bilancio. Le classi piccolo-borghesi erano, d’altra parte, soddisfatte almeno per la fine della guerra e il ristabilimento dei prezzi, dopo l’impennata degli ultimi mesi. L’atteggiamento stesso di Vitellio, che smobilitava buona parte dei propri eserciti e rimandava le legioni oltre le Alpi, dimostra la sua convinzione di aver ormai stabilito saldamente il proprio potere – impressione che proprio a Roma, nonostante l’arroganza dei soldati e le ruberie dei liberti, poteva essere confermata dalla favorevole disposizione dell’opinione pubblica. E in realtà è certo che, se dall’Oriente non fosse venuta l’iniziativa di Muciano e di Vespasiano, il governo di Vitellio avrebbe potuto durare anche a lungo. Né si dimentichi che la gravosa presenza di tante migliaia di soldati nella capitale doveva riuscire bensì penosa per le classi abbienti, materialmente e psicologicamente, ma assai meno per la plebe e la massa dei proletari dei suburbi, che non avevano nulla da perdere e, dunque, nessun timore di subire un danno economico.

Nel complesso, dopo le repressioni nell’ambiente militare subito dopo la battaglia di Bedriaco e la fine di Otone, Vitellio usò con moderazione della sua vittoria, anche se guastò tutto con la pompa fuori luogo da conquistatore che ostentò nella Penisola. Rispettò i parenti di Otone, confermò la pretura urbana – anche per calcolo politico nei confronti di Vespasiano – a Flavio Sabino; mostrò una bonomia che si risolse in licenza sfrenata per i suoi soldati, i cui eccessi egli minimizzava o buttava in ridere. È dunque abbastanza esatto il giudizio di quegli studiosi moderni che in lui hanno visto un amabile gaudente e il più insignificante dei tre imperatori che si succedettero, a ritmo turbinoso, dopo la morte di Nerone e prima dell’ascesa della dinastia Flavia. Egli, infatti, non possedeva né l’onestà personale di Galba, né l’intelligenza e l’audacia di Otone. Egli fu e rimase lo strumento dei suoi generali e dei suoi soldati, che avevano voluto sottrarre la proclamazione imperiale all’arbitrio esclusivo del Senato e dei pretoriani. Ma il loro successo, basato puramente sulla forza, costituiva un esempio pericoloso per chiunque si fosse sentito abbastanza forte da sfidare le legioni germaniche.

Il che sarebbe presto accaduto.

  1. [ESORDI DEL MOVIMENTO FLAVIANO.**

Fino dall’inverno precedente, il comandante degli eserciti di Palestina impegnati nella guerra giudaica, Flavio Vespasiano, aveva mandato il proprio figlio maggiore, Tito, a Roma per attestare a Galba la propria fedeltà. Ma il ventottenne Tito era appena arrivato a Corinto, quando seppe della morte improvvisa di Galba e dell’usurpazione di Otone. Allora, privo di istruzioni da parte del padre in merito al nuovo stato di cose, e influenzato dalla propria passione per la principessa giudea Berenice, quarantenne bellissima e affascinante, lasciò l’Acaia e fece ritorno in Oriente. Questo non significava, per il momento, una rottura con il governo di Otone, perché sia Vespasiano che gli altri generali d’Oriente fecero giurare fedeltà ai propri eserciti nei confronti del nuovo imperatore. Ma la guerra civile, subito scatenatasi fra Otone e Vitellio, incominciò a far nascere nell’animo di Vespasiano, per natura uomo prudente e misurato, la speranza di raggiungere i più alti destini, speranza che aumentò dopo la disfatta e morte di Otone. Per il momento, tuttavia, sia le legioni della Siria e della Palestina, sia quelle d’Egitto giurarono, dietro invito dei rispettivi capi, fedeltà anche a Vitellio. Ma in realtà gli eserciti d’Oriente, stanchi di vedere gli eserciti occidentali fare e disfare a piacer loro sempre nuovi imperatori, stavano già intavolando trattative segrete per favorire le segrete ambizioni di Vespasiano.

Questi non era mai stato in buoni rapporti con il collega Licinio Muciano, a causa di reciproci sospettie gelosie. Di Muciano sappiamo che era un uomo dal carattere energico e al tempo stesso ambiguo, pieno di capacità ma intenzionato a servisi di interposte persone per coronare le proprie mascoste aspirazioni. Egli era in discreti rapporti con il figlio di Vespasiano, Tito, che svolse un’abile e intensa attività d’intermediario fra i due, nel maggio-giugno del 69. Il risultato fu un completo riavvicinamento fra i due rivali, avente per fine di mettere Vespasiano alla testa di un vasto movimento legionario d’Oriente contro il governo di Vitellio e le sue legioni germaniche. Vespasiano, invero, sembrava ancora esitante, combattuto com’era fra l’ambizione e il timore; furono gli altri capi militari, e soprattutto Muciano, a infondergli quella fiducia di cui difettava. E anche così, nonostante gli incontri segreti e l’opera occulta di propaganda fra le truppe, forse Vespasiano avrebbe esitato ancora a lanciarasi nella grande avventura, se – in un certo senso — non fosse stato messo davanti al fatto compiuto.

Il 1° luglio del 69 il governatore d’Egitto, Tiberio Alessandro, fece giurare fedeltà a Vespasiano alle sue due legioni. Il 3 luglio le tre legioni dell’esercito di Giudea fecero altrettanto, non è chiaro fino a che punto di proprian iniziativa e fin dove, invece, sobillate dal loro stesso comandante, cioè Vespasiano. Subito dopo giurarono le legioni della Siria, avendo appena concluso Tito la sua opera di mediatore e trovandosi ancora in viaggio per fare ritorno da suo padre. Lo stesso Vespasiano, allora, tratto il dado, si recò ad Antiochia e tenne un discorso alle truppe riunite nel teatro. Muciano ostentava un atteggiamento di stima e fiducia nei confronti del collega, e provocò abilmente le ire dei soldati affermando che Vitellio intendeva trasferirli in Germania per dare il cambio alle proprie legioni.

Da tempo, infatti, gli eserciti di frontiera, e specialmente quelli d’Oriente, acquartierati comodamente nelle città, si erano disabituati ai grandi trasferimenti, per trasformarsi poco alla volta in eserciti stanziali, naturalmente di fatto e non di diritto; e spesso i soldati mettevano famiglia sul posto, in attesa di sistemarsi con il premio di congedo. Si era formata, di conseguenza, una reciprocità d’interessi fra legioni e popolazione locale, della quale fa fede la spontanea ed unanime adesione delle province orientali alla causa "antigermanica": ché come tale, ossia come moto contro Vitellio più che come moto pro Vespasiano, fu sentita, dal Danubio all’Egitto, almeno nei primi momenti dell’estate del 69. Del resto la stessa cosa, nei confronti di Galba e poi di Otone, era accaduta al principio di gennaio, da parte delle legioni germaniche, contro degli imperatori di nuova nomina ritenuti non adeguati alla difesa dei propri interessi. Se tuttavia Vespasiano non si ridusse mai a mero strumento nelle mani dei suoi generali e dei suoi soldati, questo fu perchè — col tempo — le sue qualità di uomo di governo si imposero, al di là delle passioni civili esacerbate e della difesa di interessi anche legittimi, ma contingenti e perchè la sua intelligenza politica era assai superiore a quella del rivale.

Per il momento, le truppe d’Oriente avevano conferito a Vespasiano i titoli di Cesare, di Augusto e tutti gli altri connessi alla maestà imperiale. Mancando, però, la ratifica del Senato — che ovviamente rimaneva tutto schierato dalla parte di Vitellio — egli non godeva nemmeno di quella superiorità giuridica e morale che Otone aveva avuto, a suo tempo, nei confronti di Vitellio. Era quindi necessario mettere in moto rapidamente la poderosa macchina militare dell’Oriente, per colpire i vitelliani del tutto impreparati e in piena fase di smobilitazione, in modo da travolgerli prima che l’odiosità di una nuova, prolungata guerra civile mettesse in cattiva luce le ambizioni di Vespasiano. Insomma era assolutamente necessario che questi apparisse all’opinione pubblica dell’Impero, sia in Oriente che in Occidente, e allo stesso Senato di Roma, come un pacificatore e un restauratore dell’ordine e della legge, turbate dall’avventura di Vitellio e dalle violenze dei suoi eserciti, e non come un ennesimo pretendente al potere, tanto egoista quanto insensibile alle sofferenze che avrebbe inflitte alla popolazione.

Pertanto Vespasiano partì subito per l’Egitto, chiave economica dell’Impero e principale granaio di Roma stessa, mentre Muciano raccoglieva le proprie legioni e si metteva in marcia, attraverso le Porte Cilice, per l’Asia Minore. Contava sulla pronta adesione della legione III "Gallica", che era stata ai suoi ordini nella Siria e che era stata poi trasferita nella Mesia, per aprirsi il passaggio attraverso i Balcani. Faceva inoltre affidamento sul profondo malcontento delle legioni danubiane, che, amareggiate per l’esito della battaglia di Bedriaco, restavano in atteggiamento di poco benevola neutralità nei confronti di Vitellio, in Pannonia e ai confini nord-orientali dell’Italia.

Frattanto tutto l’Oriente prendeva entusiasticamente posizione per Vespasiano. Uno dopo l’altro, i re clienti e alleati — Soemo della Safene, Antioco della Commagene, per non dire di Berenice — riconobbero il nuovo imperatore e promisero aiuti. Perfino il re dei Parti, Vologese, fece l’offerta di quarantamila arcieri per combattere Vitellio — così afferma Svetonio; offerta senza dubbio simbolica e che certamente non venne accettata, ma che almeno aveva l’effetto di allontanare ogni timore di un attacco partico alle spalle degli eserciti orientali. La prosecuzione della guerra contro i Giudei — si trattava ormai, in buona sostanza, del solo assedio di Gerusalemme e di poche altre fortezze (come l’irriducibile Masada, che cadrà solo nel 74) fu affidata al giovane e promettente Tito.

Tuttavia, questi grandiosi preparativi non bastavano a nascondere la verità che la guerra contro Vitellio sarebbe stata verosimilmente lunga, sanguinosa e di esito piuttosto incerto, a meno che vi intervenisse qualche fattore nuovo e imprevedibile. Vespasiano, come aveva fatto il suo attuale rivale, non intendeva prendervi personalmente parte — almeno nella prima fase. Si calcolava che sarebbero trascorsi alcuni mesi prima che le legioni di Muciano da Antiochia giungessero a Bisanzo e, da lì, a Dyrrachium (Durazzo), probabile base delle future operazioni verso la Penisola. Vitellio, da parte sua, avrebbe potuto richiamare le sue truppe dalla Gallia e dalla Germania, fortificarsi solidamente sulle Alpi Giulie e sulle coste dell’Apulia e della Calabria (Terra d’Otranto) e attendervi a pie’ fermo, con discrete prospettive di successo, l’attacco delle legioni orientali, considerate poco combattive perchè snervate dal clima e dagli ozi per cui le città siriache andavano famose.

Nel luglio del 69, dunque, la situazione era ancora incerta e piena di rischi per il partito flaviano. Se la guerra fra Vitellio e Vespasiano assunse un ritmo così rapido e decisivo, come allora accadde, ciò fu appunto per l’intervento di un fatto nuovo, sul quale i flaviani da principio non avevano pensato o vi avevano appena dedicato un fugace pensiero: l’intervento rabbioso e fulmineo delle legioni del Danubio.

  1. [INSURREZIONE DELLE LEGIONI DANUBIANE.**

Ciascuna delle tre legioni della Mesia aveva potuto inviare solo reparti scelti alla campagna contro l’esercito di Vitellio culminata nella prima battaglia di Bedriaco, mentre il grosso fu sorpreso dalla notizia della sconfitta e morte di Otone mentre erano ancora in marcia verso l’Italia. Tuttavia, in un primo momento avevano rifiutato di prestar fede a tale voce, avevano proseguito la marcia oltre Emona (Lubiana) e, varcate le Alpi Giulie, erano entrate nella pianura friulana, concentrandosi — secondo gli ordini iniziali di Otone — ad Aquileia. Là ebbero la conferma della disfatta di Bedriaco, in cui erano rimasti travolti anche i loro commilitoni, nonché della morte di Otone e del riconoscimento di Vitellio da parte del Senato romano. L’idea di subire l’imposizione di un sovrano che non avevano desiderato e di essere trattate, benché invitte, alla stregua di un nemico sconfitto, le riempì di un’ira impotente, che sfogarono facendo a pezzi le effigi di Vitellio, indi rapinando e spartendosi la cassa militare, e infine abbandonandosi a ogni genere di soprusi e ruberie, spargendo il terrore nella X Regio (Venetia et Histria), e comportandosi quasi come fossero in territorio nemico.

Purtroppo non conosciamo con sufficiente precisione la successione cronologica degli eventi e, pertanto, alcuni particolari sfuggono alla nostra indagine. È possibile, se non probabile, che in un primissimo tempo le legioni della Mesia si siano formalmente sottomesse, e che solo dopo qualche settimana, mentre Vitellio scendeva lentamente verso Roma, abbiano esplicitato il loro intimo dissenso con una aperta ribellione. Ed è altrettanto probabile che a far traboccare il calice della loro ira siano stati alcuni dei primi provvedimenti presi da Vitellio contro l’esercito otoniano, come il trasferimento della I legione "Adiutrix" in Spagna e, soprattutto, l’impiego della XIII nei lavori dell’anfiteatro di Cremona, considerato dai soldati oltraggioso e umiliante.

La rottura definitiva con il governo di Vitellio e l’abbattimento delle sue immagini ebbero perciò luogo, verosimilmente, non prima di giugno-luglio. Quando ciò accadde, i soldati si resero conto che, se non avessero preso le armi e se non fossero rimasti uniti, sarebbero stati duramente puniti, e giunsero così alla decisione irrevocabile di rinnovare la guerra civile. Avevano perciò bisogno di un capo, e non ve n’era alcuno, tra essi, che spiccasse per meriti personali, tanto da potersi ergere a vendicatore e successore di Otone. Per prima cosa, comunque, scrissero alle due legioni di Pannonia, invitandole a far causa comune con loro: cosa che riuscì pienamente. Anche le truppe della Dalmazia — una sola legione — ricevettero un analogo invito; ma, incerte sul da farsi, finirono per abbracciare il partito flaviano solo molto più tardi, a vittoria ormai conseguita.

Tra l’Occidente vitelliano e l’Oriente flaviano si era dunque formata una terza potenza militare, temibile per capacità combattiva, ma priva al momento di una guida politica, benché coagulata attorno a un comune programma di massima anti-vitelliano. I soldati delle legioni danubiane passarono in rassegna, uno per uno, i legati consolari, alla ricerca di un uomo adatto da poter contrapporre a Vitellio e che godesse di sufficiente prestigio, ma non lo trovarono. Quando, però, alcuni soldati della III legione "Gallica", che erano stati di recente — come si disse — trasferiti in Mesia, fecero il nome di Vespasiano, subito la loro proposta venne condivisa dalle altre e, dopo l’esempio di Alessandria d’Egitto, tutte e cinque giurarono fedeltà al nuovo imperatore.

Frattanto si era messo in luce un uomo auidace e assolutamente privo di scrupoli, abile comandante, anche se dal passato piuttosto torbido: Antonio Primo, legato della VII legione. Costui possedeva in alto grado le capacità organizzative richieste dal momento e, messi in disparte gli altri ufficiali superiori, prese quasi subito nelle proprie mani la direzione delle legioni del Danubio. Dopo aver giurato, insieme alle truppe, fedeltà a Vespasiano, raccolse quella massa dispersa e indisciplinata, già minata dall’anarchia, e si preparò ad avanzare in Italia per portarvi la guerra contro Vitellio.

È evidente che né Vespasiano, recatosi ad Alessandria d’Egitto, né Muciano, che procedeva con marcia tutt’altro che febbrile alla volta dell’Europa, si erano aspettati un’adesione così pronta ed entusiastica dell’intero esercito danubiano, e tanto meno che quest’ultimo si mettesse subito in movimento, per proprio conto, verso la Pianura Padana.

Muciano – che dopo la conferenza di Berito e la partenza di Vespasiano per l’Egitto, aveva avuto carta bianca completa per la condotta della guerra – era partito, convinto di raccogliere strada facendo l’adesione delle legioni di Mesia e Pannonia, e di dare battaglia ai vitelliani non prima di qualche mese, forse addirittura di lasciar passare l’inverno. Non aveva ancora nemmeno deciso se attaccare l’Italia dal settentrione, per via di terra, oppure dal mezzogiorno, traversando l’Adriatico. Invece ecco che un oscuro comandante dalle smisurate ambizioni, molto prima del suo arrivo, prende in pugno la situazione, fa giurare fedeltà a Vespasiano ed entra in Italia senza minimamente attenderlo né aspettare ordini! Vespasiano e Muciano, insperatamente, avevano dunque trovato un alleato, e un poderoso alleato; eppure avevano motivo di essere preoccupati per la rapidità vertiginosa impressa da costui alla guerra in Occidente, che essi contavano invece di intraprendere con tanta metodicità e prudenza. Ma chi era, infine, questo Antonio Primo, questo sconosciuto che a nome di Vespasiano irrompeva oltre Aquileia, conducendo seco le legioni danubiane, come furie vendicatrici per la sconfitta di Bedriaco? Non era da temersi che la sua azione intempestiva conducesse a un disastro? E se pure avesse vinto, non era del pari inquietante la prospettiva che si trovasse di colpo padrone della Penisola, magari di Roma stessa, prima che Muciano avesse il tempo di sopraggiungere? Quali erano, infine, le sue vere intenzioni; che cosa lo spingeva a rischiare così tanto per una causa non sua; cosa si riprometteva di guadagnarvi?

Questa la paradossale situazione in cui si trovava il partito flaviano nell’agosto e nel settembre del 69. Fu un peccato che Vespasiano, uomo di vera integrità morale, decidesse di restarsene così lontano, delegando ad altri la direzione della guerra; diversamente, molte violenze e molti lutti sarebbero stati risparmiati all’Italia, già provata da una feroce guerra civile. E fu un peccato anche maggiore che Antonio Primo attaccasse battaglia avanti l’arrivo di Muciano, poiché egli non seppe o non volle mai ristabilire una seria disciplina fra i soldati che, ad Aquileia, s’erano abituati a condursi come in paese nemico.

È probabile che tanto Muciano quanto Primo intendessero svolgere, all’ombra dei vessilli di Vespasiano, un ruolo analogo a quello che Cecina e Valente stavano giocando presso Vitellio. La stessa rapida riappacificazione fra Muciano e Vespasiano, così improvvisa e così politicamente conveniente per entrambi, è una circostanza per lo meno sospetta. Ma se Muciano era uno strano miscuglio di lealtà e di ambizione, Primo era semplicemente un avventuriero inacerbito dalla disistima mostratagli, a suo tempo, da Otone, e ora tutto proteso a soddisfare la propria sete di gloria con qualche impresa strepitosa. Portato alla testa del movimento militare danubiano da una situazione anomala di sfrenatezza e di anarchia, si servì delle passioni esasperate dei soldati come strumento di lotta e non risparmiò all’Italia delle atrocità che nemmeno Cecina e Valente, quand’erano calati dalle Alpi per affermare i diritti di Vitellio, avevano osato compiere. Antonio Primo portò all’acme tutto l’odio, il disprezzo e la frustrazione che le legioni danubiane avevano accumulato, tutta la brama di ricchezze da saccheggiare che si era risvegliata in loro dopo i primi eccessi; li tese come un arco, e scoccò il dardo con la massima determinazione.

  1. [CONTROMISURE DI VITELLIO.**

Dopo il riconoscimento da parte del Senato e l’ingresso a Roma, Vitellio si era cullato nell’illusione che l’Impero fosse ormai del tutto pacificato e saldamente nelle sue mani. Tale illusione era stata poi rafforzata dal riconoscimento formale che, in un primo tempo, anche le legioni d’Oriente gli avevano prestato. Quando gli pervennero le prime notizie sull’ammutinamento degli eserciti danubiani — dapprima slegate e confuse — egli, a quanto pare, commise lo stesso errore fatto a suo tempo da Galba: quello di sottovalutare alquanto il pericolo.

Le prime notizie provenivano dal governatore della Mesia, Adonio Saturnino, e si riferivano alla sola III legione "Gallica"; sicchè Vitellio, minimizzando la cosa — proprio come aveva fatto Galba col movimento germanico — anche per non diffondere il panico in Roma, tardò a prendere delle tempestive contromisure.Per un certo tempo egli evitò perfino di nominare Vespasiano, e solo con lentezza e con molte esitazioni si decise a chiamare rinforzi dalla Spagna e dalla Britannia. Era evidente che non si sentiva più troppo sicuro nemmeno del consenso intorno al suo governo, se prendeva il minimo dei provvedimenti militari e lo faceva quasi di nascosto, timoroso che le notizie dalla Pannonia, ognora più gravi, si diffondessero nella capitale.

Il grosso delle forze vitelliane era, in quel momento, concentrato nell’Urbe. Dopo aver congedato i pretoriani di Otone, Vitellio aveva arruolato sedici nuove coorti pretorie, in luogo delle quattordici che esistevano in precedenza, e quattro coorti urbane, che taluni storici antichi fanno ammontare a 1.000, altri a 1.500 uomini ciascuna. Queste forze imponenti, alle quali andavano aggiunte parecchie migliaia di legionari e di ausiliari galli e germani, erano però notevolmente decentrate rispetto alle frontiere nord-orientali dell’Italia e, per giunta, indebolite dall’ozio e dal clima estivo, che aveva provocato un certo numero di malattie. Sarebbe stato opportuno scaglionare quelle truppe lungo la Penisola durante l’avanzata alla volta di Roma, anche per non gravare eccessivamente sulla capitale; o, almeno, avviarle su per la Flaminia sin dalle prime avvisaglie della guerra civile. Ma Vitellio sembrava riluttante ad ammettere che era necessario impugnare nuovamente le armi per difendere il potere appena conquistato; e, quando si decise a farlo, sia Muciano che Antonio Primo si erano già messi in movimento con i loro eserciti in assetto di guerra, acquisendo un vantaggio iniziale non indifferente sia sotto l’aspetto strategico, che psicologico.

Sappiamo da Svetonio che quando Vitellio, come destatosi da una sorta di letargo, tutt’a un tratto si rese conto dell’imminenza del pericolo, sentendosi franare la terra sotto i piedi ricorse a una politica sfacciatamente demagogica: coprì i suoi soldati di elargizioni e indisse nuove leve nella stessa Italia centrale, promettendo alle reclute il congedo subito dopo la vittoria e un premio equivalentea quello delle truppe veterane. Cercò di accattivarsi anche la plebe, dando fondo al tesoro ed accentuando le caratteristiche "neroniane" e populistiche del proprio governo, sino al punto di offrire un solenne sacrificio agli dèi Mani di Nerone, nel Campo Marzio. Pare comunque che questi aspetti plateali e scenografici del suo governo trovassero un terreno ben disoposto ad accoglierli con entusiasmo, se è lecito interpretare in questo senso la furiosa resistenza opposta ai flaviani, nel dicembre, da larghi strati del proletariato romano.

Il partito di Vitellio ebbe, però, una grave sventura nella circostanza che Fabio Valente, il solo comandante capace e leale che avesse in quel momento, nell’estate era caduto gravemente ammalato e, pur cominciando a riprendersi, non era ancora in grado di muoversi da Roma. L’imperatore fu quindi costretto a puntare, per il momento, tutte le sue carte su Alieno Cecina, l’uomo che stava già meditando di tradire vergognosamente sia lui che i propri valorosi soldati. Non è facile stabilire quali furono i moventi che indussero Cecina a compiere un voltafaccia così repentino. Prima della battaglia di Cremona nulla era ancora perduto per il partito vitelliano; anzi, la temeraria avanzata di Antonio Primo sembrava offrire una magnifica occasione per affrontarlo e batterlo con forze superiori, prima che Muciano potesse a sua volta intervenire con le legioni della Siria. E nemmeno ci risulta che Vitellio abbia lesinato le ricompense al suo generale, come invece aveva fatto Galba, o che lo avesse offeso con dei sospetti, tanto è vero che commise l’ingenuità di affidargli il comando unificato della guerra, almeno finchè Valente non fosse stato in grado di raggiungere a sua volta l’esercito.

Probabilmente, la ragione principale del tradimento di Cecina va ricercata nel suo antagonismo con Fabio Valente e nel sordo duello ingaggiato con lui fin dall’inizio della guerra contro Otone; duello in cui, a dispetto di ogni previsione, era uscito silenziosamente soccombente. Le sue legioni della Germania Superiore, che ancora nell’inverno lo idolatravano, erano rimaste profondamente scosse dagli insuccessi iniziali nella guerra contro Otone, e dal fatto che solo l’arrivo delle legioni di Valente aveva consentito di strappare la vittoria di Bedriaco. Di conseguenza si era verificata una sorta di crisi di fiducia nei confronti della sua azione di comando, e le simpatie dei legionari germanici avevano cominciato a volgersi verso l’astro nascente di Fabio Valente.

In un primo tempo le ambizioni simultanee dei due condottieri avevano condotto a una sorta di spartizione dei poteri, resa possibile anche dalla personale debolezza di Vitellio. Così, Cecina a Cremona e Valente a Bologna avevano festeggiato l’arrivo dell’imperatore coi ludi circensi; e sia l’uno che l’altro erano riusciti a piazzare un proprio candidato nella posizione chiave della prefettura pretoriana. Ma poi la bilancia aveva cominciato a piegare a favore di Valente, anche se non conosciamo esattamente in quali circostanze specifiche. Cecina, che aveva almeno il dono dell’intuito politico, dopo il pronunciamento di Vespasiano in Oriente e il suo riconoscimento da parte delle legioni di Egitto, Siria e Palestina, cominciò a prender contatti col fratello di Vespasiano, il prefetto urbano Flavio Sabino. Intermediario fra il congiunto del nuovo pretendente all’Impero e il generale infedele di Vitellio, entrambi, a diverso titolo, comandanti di truppe nella capitale, fu Rubrio Gallo, che già aveva trattato la resa delle forze otoniane dopo la disfatta di Bedriaco.

Non è possibile stabilire se un accordo preciso venne stretto fra Cecina e Sabino prima della partenza del primo da Roma, tanto più che Sabino non poteva essere certo in grado di trattare dettagliatamente a nome del lontano Vespasiano. Il prefetto urbano, che personalmente non era affatto sicuro della vittoria finale di suo fratello, si sarà limitato a dare delle assicurazioni generiche, che trovarono comunque ottima accoglienza da parte di Cecina, già maldisposto nei confronti di Vitellio e principalmente nei confronti di Valente. Certo è che il repentino voltafaccia di Cecina sul teatro di guerra, di lì a poche settimane, dimostra come quasi certamente, al momento di uscire da Roma, egli era già intenzionato a passare al più presto dalla parte di quello che gli sembrava il probabile vincitore, e dal quale si riprometteva di ottenere più grandi riconoscimenti.

Come si è detto, poichè Valente era ancora convalescente da una seria malattia, Cecina partì al comando dell’intero esercito lungo la Flaminia. Suo obiettivo dichiarato era quello di costituire due solide teste di ponte sul Po, una a Cremona e l’altra ad Ostiglia. Non avendo potuto prevenire l’ingresso delle forze nemiche nella Pianura Padana, bisognava ora prepararsi sia ad arrestare l’attacco delle legioni del Danubio, sia a manovrare per sferrare un contrattacco non appena si fossero presentate delle circostanze favorevoli. Vi era un preciso accordo fra i due generali vitelliani, in base al quale Cecina avrebbe dovuto in ogni caso attendere l’arrivo di Valente prima di dare battaglia. Dopo di che essi avrebbero affrontato l’esercito di Antonio Primo con forze riunite, anche se con comandi separati: proprio com’era avvenuto nella battaglia di Bedriaco contro Otone.

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Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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