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Spunti per la decrescita sostenibile 1: il nostro problema, e il loro

Estratto dal Capitolo II del libro "Metafisica del Terzo Mondo" di F. Lamendola, Lalli editore, Poggibonsi (Siena),1985, pagg.20-27.

(N.B.: il testo è esaurito. Chi fosse eventualmente interessato, può mettersi in contatto con l’Associazione Eco-Filosofica).

La nostra crisi attuale è una crisi mondiale.

Di conseguenza i fatti umani, oggi più che mai, esigono di essere considerati in una prospettiva mondiale.

Con ciò non intendiamo solo dire che lo sfruttamento perpetrato dai Paesi ricchi contro il Terzo Mondo si ritorcerà, un giorno, contro di essi. Intendiamo altresì dire che la crisi del Nord e quella del Sud sono le due opposte facce di un’unica medaglia, e che solo dal riconoscimento di un tale dato di fatto possono farsi strada delle realistiche proposte di salvezza.

Qual è, dunque, il problema cruciale delle società industrializzate, oggi, e quale il problema cruciale dei Paesi sottosviluppati? In che senso affermiamo che essi sono le opposte manifestazioni di un medesimo male?

Per quanto ciò possa apparire paradossale, il nostro problema fondamentale è la ricchezza. La società occidentale odierna – che è costruita, economicamente e spiritualmente, sul modello statunitense, privilegia nettamente l’avere nei confronti dell’essere. Sarebbe interessante, ma esulerebbe dagli scopi di questo lavoro, esaminare in qual modo, storicamente, si sia pervenuti ad un tal risultato. Basterà dire che alle sue origini la civiltà occidentale, che fu in buona parte un prodotto del genio ellenico, si sforzò di armonizzare le due istanze, ma su una base precaria ed equivoca. Essendo espressione di una società esenzialmente materialistica, il predominio dell’avere sull’essere era implicito nei suoi poresupposti.

Il cristianesimo, sorto in ambiente giudaico, ossia fuori di quella civiltà, si presentava come un’alternativa radicale ai valori sui quali essa aveva poggiato per secoli e secoli. Il suo successo fu travolgente, ma superficiale. La nuova ondata di spiritualismo non ebbe la forza di mutare l’esenza materialistica di quella civiltà, rafforzata dall’apporto di nuove energie sociali – i popoli germanici migranti in Occidente – orientate anch’esse in senso materialistico, con uno speciale culto per la forza e il possesso.

Si realizzò, così, il paradosso di una società sviluppantesi in piena antitesi con la propria religione e i valori da quest’ultima professati; paradosso che tanto colpisce gli Asiatici e gli Africani, e che si può sintetizzare nella celebre espressione di Gandhi: "Ciò che mi impedisce di farmi cristiano è principalmente il comportamento dei cristiani".

Il cristianesimo era, ed è, un abito estraneo alla civiltà occidentale, tutta protesa verso l’efficientismo, il materialismo, l’utilitarismo; un abito che perfino a livello teorico si è cercato, con blasfema ingegnosità, di adattare alle esigenze del corpo. Non invocavano forse la Bibbia gli schiavisti del Sud degli Stati Uniti, per giustificare l’oppressione dei neri? (1) Non chiamavano in causa la predestinazione i mercanti calvinisti per accumulare denaro, anche col prestito a usura, condannato da tutta la teologia medioevale? (2) E, più recentemente, non era forse scritto "Gott mit Uns", "Dio con noi", sui cinturoni delle SS naziste?

La rottura clamorosa fra società e religione si realizzò in Occidente fra XV e XVI secolo, ma essa era latente fin dagli inizi: fin dai tempi di Costantino e della prima, cinica alleanza fra trono e altare. Tuttavia, fu solo nel Cinquecento che il fenomeno divenne palese.(3) È a partire da quest’epoca che la filosofia occidentale comincia a disinteressarsi del problema di Dio – e tanto più a quello di Cristo – per abbandonarsi all’ebbrezza e all’orgoglio illimitato del pensiero puramente strumentale. E il distacco filosofico, come sempre, non era che il riconoscimento definitivo ed esplicito di un distacco già da tempo esistente nel tessuto sociale, nel sistema economico, nelle credenze e nella scala dei valori morali dell’uomo della strada.

Lo spirito ateo dell’Illuminismo, culminato nella Rivoluzione francese, e quello del pari ateo del Positivismo, culminato nella Rivoluzione industriale, hanno dato il colpo di grazia agli ultimi, esili legami fra il corpo della società occidentale e la religione cristiana, da essa nominalmente professata. La concezione cristiana della vita, concepita come servizio verso Dio e verso il prossimo, fu sostituita da quella della ricerca del proprio benessere personale; alla mèta ultima della trascendenza fu sostituito un immanentismo chiuso in sé stesso e pago della propria finitezza; alla concezione del dovere morale ("chi vuol venire dietro a me, prenda la propria croce e mi segua") si sostituì quella dei diritti: diritto alla felicità, alla proprietà, alla libertà.

Invano qualche voce isolata, come quella del Mazzini, ammonì che senza un principio superiore, il diritto dell’uno doveva fatalmente entrare in conflitto selvaggio col diritto dell’altro. (4) Troppo austera, troppo faticosa e alruistica apparve la sua "rivoluzione dei doveri". E che altro è – su un piano molto più vasto – il cristianesimo, se non una liberazione dell’uomo basata su di una rivoluzione del dovere?

La statolatria delle moderne società capitalistiche inculca nei cittadini, sotto le apparenze del permissivismo più sfrenato, questa etica edonistica della vita. La Costituzione degli Stati Uniti d’America, ad esempio, riconosce fra i suoi princìpi fondamentali il diritto alla ricerca della felcità da parte di ogni individuo. Ma non vi è qualche cosa di stonato, a ben riflettervi, in questo consegnare agli atti ufficiali di una nazione un sentimento così ovvio e naturale, così delicato e personale come la ricerca della felicità? Da qui a dire che tutti i cittadini devono essere felici, non v’è che un passo.

La felicità, però, per sua natura, non si impone: nessuno può essere costretto ad essere felice. Ed ecco allora che il meccanismo capitalistico, con l’appoggio e la benedizione dello Stato, con martellante insistenza ripete ai singoli individui che cosa devono fare per essere felici. Devono possedere una automobile lunga tanti metri. Devono possedere il televisore a colori. Devono vestire all’ultima moda. Devono ascoltare un certo tipo di musica. Devono passare il loro tempo libero in un certo modo, piuttosto che in un altro. Devono essere integrati, felici nella più totale e spersonlizzante uniformità.

Né a questo si limita la propaganda consumistica che la televisione di Stato, le leggi pubblicitarie dello Stato, l’esempio concreto dei rappresentanti dello Stato quotidianamente sostengono ed appoggiano. Essa ci ammonisce anche, non solo implicitamente, ma talvolta con toni apertamente aggressivi, su ciò che non si deve assolutamente fare – pena l’andare contro corrente, essere degli isolati e dunque vivere in modo infelice. Non si deve andare a piedi, o servirsi dei mezzi pubblici, se si possiede un’automobile privata. Non si deve passare la serata chiacchierando in famiglia o con gli amici, se si possiede un televisore. Non ci si deve vestire secondo il principio della praticità, se si ha la possibilità di seguire quello della moda. Non si deve "sprecare" il sabato pomeriggio leggendo un libro, se si hanno i soldi per correre in discoteca. Non si deve risparmiare, se appena capita l’occasione di realizzare un aquisto che doni prestigio sociale.

E infine, insinua il consumismo capitalistico-statalista, che razza di uomo sei, se non possiedi l’automobile (o due, o tre)? E il televisore? Se non vesti alla moda? Se non hai i soldi per la discoteca? A volte, la pubblicità lo dice chiaro e tondo: "Che uomo sei, se non usi Cuoio di Russia?". Finchè i singoli, travolti da questa propaganda incessante, capillare, onnipresente, cominciano a soggiacere – senza quasi rendersene conto – a una tale logica. Che razza di Natale sarebbe il nostro, pensiamo, senza panettoni, regali, vetrine scintillanti, ragazze della pubblicità dalle lunghe gambe e vestite da Babbo Natale? È a Natale, meglio che in qualsiasi altro giorno dell’anno, che noi vediamo qual fine abbia fatto il cristianesimo nelle nostre mani. Non solo non è riuscito a renderci meno egoisti, più saggi, più umani: ma, addirittura, lo abbiamo "riciclato" ad uso e consumo delle nostre leggi di mercato. Invero, vi è qualcosa di supremamente ironico in questo fatto, che ormai non percepiamo quasi più, solo perché vi siamo sprofondati sino agli occhi, come ranocchi nel fango: che Gesù Cristo è venuto al mondo in una stalla per insegnarci il valore morale della povertà, e noi ricordiamo quell’evento in una sarabanda di rumori, di luci colorate, di denaro, di spreco!

Lo ripetiamo: non è segno di buon auspicio quando lo Stato, in quanto tale, si proclama supreno garante della nostra felicità individuale. Sarebbe, più o meno, come se si proclamasse garante del nostro buon diritto di godere dell’azzurro del cielo, dello stridìo delle rondini, del profumo della primavera. Signifcherebbe che di tutte queste cose lo Stato ha un’idea già ben precisa, e in – in modo o nell’altro – sarà tentato di imporcela. I risultati di questa politica della felcità ad ogni costo, patrocinata dallo Stato ed effettivamente portata avanti dalla macchina capitalistica, sono sotto gli occhi di tutti. La disperazione dilagante, fra i giovani soprattutto, in tutte le sue svariate e tragiche forme: la droga, la violenza, la pornografia, il suicidio, sono qui davanti a noi ad ammonirci che qualche cosa, nel nostro meccanismo così ben congegnato per la soddisfazione del piacere, non funziona.

Non vogliamo fare un discorso moralistico. Vogliamo appoggiarci ai fatti, e sollevare degli interrogativi. Non è forse vero che mai come oggi l’uomo ha avuto un così completo dominio sulla natura? Il sogno dell’uomo occidentale, da Prometeo in poi, si è avverato; ciò che il positivista più ardito del secoloXIX non avrebbe osato immaginare, è realtà. Ebbene: non è forse vero che mai come oggi l’uomo si è sentito solo, frustrato, disperato?

Anche un bambino, confrontando i due dati di fatto, intuirebbe che dev’esservi una relazione tra essi. Oppure è soltanto un caso, una coincidenza? No: dobbiamo avere il coraggio di riconoscere il nostro fallimento. Di dire a voce alta che abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo identificato la potenza con la forza, il benessere con la felicità. Abbiamo creduto che l’avere potesse sostituire l’essere, che potesse appagare di più. Che un aumento di mezzi materiali significasse, automaticamente, un aumento della qualità della vita. (5)

Stiamo pagando un prezzo molto alto per tali errori. La nostra civiltà è sull’orlo del collasso. Per usare le parole impietose, ma esatte nella loro tagliente nudità, di Aimé Césaire: "Una civiltà che si rivela incapace di risolvere i problemi suscitati dal suo modo di agire è una civiltà decadente. Una società che sceglie di chiudere gli occhi davanti ai suoi problemi più importanti, è una società superata. Una civiltà che gioca d’astuzia coi suoi princìpi è una civiltà moribonda." (6)

Abbiamo smarrirto il senso della vita, conseguenza inevitabile dell’avere smarrito il senso dell’essere. Stiamo correndo verso la catastrofe, come un treno senza macchinisti, lanciato a tutta velocità verso un binario morto. E realmente, una civiltà in cui una bambina di sei anni fa in tempo a conoscere tutte le brutture della prostituzione e della droga, prima di morire per una "overdose" di cocaina, come è accaduto nei Paesi Bassi nell’estate del 1984, è una civiltà che non merita di sopravvivere.

Se la ricchezza è il problema fondamentale del mondo industrializzato, la miseria è, in un quadro di stridente contrasto, quello capitale del Terzo Mondo. Lazzaro e il ricco Epluone si guardano in faccia, oppressi dalle contrastanti facce di un’unica sofferenza; quella del nulla e quella del troppo. Ma non è necessaria alcuna analisi storica o sociologica per afferrare, in tutta la sua portata, il significato di questa seconda faccia della medaglia. Infatti la ricchezza è il punto di arrivo di una data società e, come tale, una scelta (il privilegio del punto di vista dell’avere su quello dell’essere); mentre la miseria è meramente un dato, una situazione, e – come tale – una realtà che non viene agita, ma che può soltanto essere subita.

È terribile questa passività dell’uomo davanti alla miseria:, come un mulo, caricato di bastonatre dal conducente allorchè vacilla sotto il peso di un caruco insopportabile, l’uomo schiacciato dalla miseria non ha voce per gridare, non ha lacrime per dare sfogo alla sofferenza: è divenuto un niente, un’appendice della miseria stessa.

La miseria, dunque, è abietta perché calpesta la dignità dell’uomo. Tutto ciò che l’uomo non può sciegliersi, ma che è costretto a subire, annienta la dignità dell’uomo. Perfino Dio, perfino la fede, quando vengono vissuti come un peso opprimente, come una potenza incontrollabile, avviliscono la sua dignità. E l’uomo privato della dignità smarrisce il senso della vita. Si giunge così, per una via opposta, al medesimo effetto perverso della ricchezza: là si smarriva il senso della vita per l’abuso dei beni materiali e dell’avere; qui lo si smarrisce sotto il peso di un fato cieco e inesorabile, di una maledizione degradante chiamata miseria.

Attenzione. Diversa è la miseria del "sadhu" indiano che decide di vivere di questua, privandosi non solo del superfluo, ma anche del necessario: e diversa proprio per il suo carattere di libertà, di scelta. La scelta è una categoria morale capace di riscattare qualsiasi cosa ci appaia, di per sè, ripugnante o dolorosa. Non solo la miseria, ma anche la sofferenza e la morte. La scelta è dono: dono di sé Morire per amore di un altro essere è una scelta, e ciò purifica la morte stessa alla perenne sorgente della morale. Ma la morte cieca, incontrollabile, non voluta; la morte di un ebreo mandato nelle camere a gas naziste, non è – umanamente parlando – riscattata in alcun modo, da nessun raggio di luce. È il trionfo della forza bruta sulla libertà, della materia sullo spirito. È l’annullamento di ogni forma di realtà etica, la negatività pura.

La miseria che avvilisce i popoli del Terzo Mondo è di questa specie. La madre di Calcutta che vede il suo piccolo morire di fame sotto i propri occhi, senza poter fare nulla per salvarlo, non è soggetto della storia più di quanto lo sia il mulo sfinito e caricato di botte dal conducente spietato. A differenza del "sadhu" dell’esempio precedente, ella non ha scelto di soffrire; la sua volontà è ridotta a nulla, come un tronco trascinato via dall’impeto della corrente.

I nostri libri di scuola ci hanno inculcato l’idea, fin da agazzi, che la storia sia la storia dell’uomo. Avrebbero dovuto precisare che fare la storia è un lusso dell’umanità benestante: là dove regna la miseria non è lecito parlare di storia dell’uomo. Al contrario, si dovrebbe parlare di uomo della storia: uomo in balìa della storia, di forze estranee più grandi di lui, che lo schiacciano e lo oltrepassano senza interrogarlo, senza ascoltarlo.

Quale mediazione è dunque possibile fra due umanità tanto diverse: l’umanità che ha smarrito il senso della vita per un eccesso di controllo sulla storia chiusa in sé stessa, e l’umanità che smarrisce il senso della vita perché schiacciata dalla storia stessa, e ridotta a puro oggetto? Se una mediazione è possibile, essa è affidata in primo luogo al cristianesimo, che è – come abbiamo detto – messaggio di liberazione totale. Liberazione dalla servitù del troppo, e da quella del nulla. Ma su ciò torneremo più avanti.

NOTE.

1) Cfr., ad es., S. E. MORISON- H. S. COMMAGER, Storia degli Stati Uniti d’America, Firenze, la Nuova Italia, 1974, vol. 1, p. 750.

2) Vedi l’opera ormai classica di MAX WEBER, l’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05).

3) Cfr. sull’argomento WILHELM DILTHEY, l’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura, Firenze, la Nuova Italia, 1974 (2 voll.).

4) Cfr. GIUSEPPE MAZZINI, I doveri dell’uomo, Firenze, la Nuova Italia, 1972, spec. il cap. I.

5) "Sviluppo senza progresso", diceva P. P. PASOLINI: cfr. Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1981.

6) DONATELLA PICCIOLI GIACOTTI, Culture e arte dell’Africa, in Enciclopedia Europea, Milano, Garzanti, 1976, vol. 1, p. 160.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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