
Terra Australis incognita
20 Marzo 2006
Il limite antartico della vegetazione arborea
19 Aprile 2006(Articolo pubblicato sul numero 1, marzo 1990 de "Il Polo. Rivista trimestrale dell’Istituto Geografico Polare "Silvio Zavatti", pp. 19-24, corredato dalla carta dell’emisfero sud di Oronzio Fineo del 1531, e ora – marzo 2006 – interamente rivisto e ampliato per il sito dell’Associazione Eco-Filosofica, già Associazione Filosofica Trevigiana. Vedi anche F. Lamendola, "Terra Australis Incognita", id., vol. 3, settembre 1989, pp. 51-58.)
A partire dagli inizi del XVI secolo, geografi, matematici e navigatori europei appaiono letteralmente dominati dall’ossessione della mitica "Terra Australis Incognita" che dovrebbe far da contrappeso meccanico, secondo l’ipotesi di Claudio Tolomeo, alle terre emerse dell’emisfero boreale. Ne vanno spasmodicamente alla ricerca, interpretano ogni indizio di terre nei mari australi come una conferma dell’esistenza del vastissimo continente meridionale. Ferdinando Magellano, percorrendo lo stretto che da lui prende il nome, quasi all’estremità dell’America meridionale, vede sfilare sulla sinistra un caleidoscopio di isole rocciose, di terre aspre e selvagge, di tenebrose foreste secolari, di monti innevati e di ghiacciai che scendono fino al mare, ove scogli malfidi sono battuti senza posa dai venti occidentali. È la Terra del Fuoco, ma eglio non immagina la sua natura insulare; pensa invece che quella sia l’avanguardia verso settentrione della leggendaria Terra Necdum Cognita. Schiere di navigatori che verranno dopo di lui, cadranno nello stesso equivoco: come tutti i miti, anche quello del continente australe è duro a morire.
Lo si cerca nel sud Atlantico, dopo che nel 1506 un violento fortunale ha gettato l’armata lusitana di Tristan da Cunha, in rotta da Lisbona per le Indie, via Capo di Buona Speranza, in vista di alcune isole scoscese, frequentate da un numero enorme di foche, elefanti marini, pinguini. Lo si cerca nell’Oceano Indiano meridionale, dove si favoleggia di una "Java la Grande", che sorgerebbe a sud o sud-est delle Indie olandesi; ed effettivamente pare che nel 1601 il navigatore portoghese Godino de Eredia avvisti un grande continente a mezzogiorno di Timor: quello che sarà poi chiamato Australia. Lo si cerca, infine, nel Pacifico australe, che dopo il 1520, data del viaggio di Magellano, ha dischiuso i suoi immensi orizzonti agli avidi "conquistadores" insediati sulle coste del Messico e del Perù. L’esistenza di un grande Oceano, o Mare del Sud, è nota, del resto, da prima di Magellano, precisamente da quel fatidico 25 settembre 1513 in cui Vasco Nunez de Balboa, attraversate le fittissime foreste equatoriali del Darién, supera l’istmo di Panama alla testa di 190 Spagnoli e 600 Indiani e lo avvista per primo, dall’alto di un colle.
L’esplorazione del Pacifico è, dunque, vanto originario degli Spagnoli, che la iniziano partendo dalle loro basi americane, proprio mentre i Portoghesi, partiti invece dall’India e dalle Molucche, ne sfiorano l’estremità occidentale. Ma gli Spagnoli hanno il favore, oltre che della Bolla papale che assegna loro le terre e i mari dell’Occidente, anche della direzione dei venti alisei, che soffiano dalla costa americana verso ovest. Ha inizio, così, una epopea oggi poco conosciuta dal grande pubblico, anche perché quegli arditissimi navigatori, assetati di ricchezze da sfruttare e, se del caso, da saccheggiare, non allestiscono delle spedizioni scientifiche nel senso moderno del termine, come faranno più tardi — senza trascurare, anche loro, i vantaggi economici, Inglesi, Francesi, Olandesi e Russi.
Àlvaro de Saavedra, che aveva accompagnato in Messico il suo parente Fernando Cortés, nel 1526 riceve l’incarico di esplorare il mare del Sud. Nulla, o quasi nulla, sappiamo di questo pioniere dell’esplorazione del Pacifico, se non che, navigando sempre a occidente, traversato tutto l’Oceano finisce per toccare la Nuova Guinea (ancora ritenuta parte della Terra Australe) e, di lì, raggiunge le Molucche. La sua sorte è tragica: mentre cerca di fare ritorno verso il Messico, la sua nave è investita da una terribile tempesta e trascinata a picco con l’intero equipaggio.
Tanto non basta a scoraggiare altri valorosi, che dopo di lui si avventurano sulla più vasta distesa d’acque al mondo. Navigazioni di settimane e mesi, in balìa di uragani terrificanti o di bonacce inesorabili, che riducono spietatamente le scorte di viveri e di acqua; poche isole sparse a distanze immense, ma inospitali, popolate da indigeni bellicosi quando non antropofagi. Tutto questo affrontato su degli autentici gusci di noce, ove gli equipaggi sono costretti a sacrifici durissimi e ad una promiscuità che ne logora lentamente il morale. Ma dopo aver visto e, subito dopo, depredato le meraviglie degli Aztechi, dei Maya e degli Incas, gli Spagnoli sembrano disposti ad affrontare qualunque pericolo, qualunque fatica nella loro febbrile ricerca di metalli preziosi, di cui certo la Terra Australe abbonda. Non minore è l’ardimento delle decine di spedizioni che prendono la direzione opposta e, dalle Ande scintillanti di neve, marciano ad est sprofondando, alcune per sempre, negli oscuri recessi della foresta amazzonica, popolati di belve feroci e insidiati dalle malattie, alla ricerca di un impossibile El Dorado.
Nel 1542 parte dal Messico Ruy Lopes de Villalobos, che ripete l’impresa di Saavedra. Tocca, nel Pacifico occidentale, alcune isole finora ignote: le Caroline; indi raggiunge l’arcipelago che Magellano aveva chiamato di San Lazzaro, e lo ribattezza con il nome di isole Filippine, in onore del sovrano spagnolo Filippo II. Poi, nel 1556, Miguel Lopez de Legaspi, salpato anch’egli dal Messico, ripete l’impresa, e sbarcato nelle Filippine ne inizia la conquista militare, gettando le basi di un solido pilastro spagnolo nell’area del Pacifico occidentale, per compensare la rinuncia alle Molucche, da parte del governo di Madrid, a favore di quello di Lisbona. Legaspi scopre in seguito l’arcipelago delle Marianne e, cosa più importante di tutte, navigando sulla via del ritorno lungo una rotta più settentrionale di quella seguita dai suoi predecessori, scopre dei venti favorevoli che gli permettono di superare le difficoltà degli Alisei, e lo riportano ad Acapulco con notevole speditezza.
Anche la conoscenza del Pacifico orientale procede lenta ma metodica. Nel 1563 Juan Fernandez scopre, partendo dal porto peruviano del Callao e navigando a mezzogiorno, le isole che ancor oggi portano il suo nome: Mas a Fuera e Mas a Tierra (oggi, rispettivamente, Alejandro Selkirk e Robinson Crusoe); poi, nel 1574, scopre le Isole Desventuradas: San Félix e San Ambrosio. Nel 1576 salpa ancora una volta, volgendo la prua verso l’oceano aperto nella direzione del tramonto. Dirà poi di aver raggiunto una terra vasta e feconda, attraversata da grandi fiumi e verdeggiante di foreste, popolata da genti civili vestite di tessuti, frutto forse della sua fantasia e della sua ambizione (non era certo uno stinco di santo, il Fernandez): scoperta che, allora, viene creduta ed accresce la bramosìa dei navigatori spagnoli. Oggi, comunque, si esclude assolutamente ch’egli possa aver raggiunto la Nuova Zelanda, come un tempo qualcuno aveva supposto. E poiché in tutto il Pacifico sud-orientale non v’è ombra di terra, con le sole eccezioni delle Isole di Pasqua e Sala-y-Gomez e della problematica Isola Dougherty (su cui vedi F. Lamendola, Terra Australis Incognita, in Il Polo, n.3 di settembre-dicembre 1989), sembra si possa affermare, con molta probabilità, ch’egli si sia inventato di sana pianta la sua ultima e più clamorosa scoperta.
In quell’anno, comunque — il 1567 — salpa dal Callao un’altra importante spedizione, quella di Alvaro Mendaña de Neira. Nato in Spagna nel 1541, trasferitosi giovanissimo in Perù, Mendaña ha sollecitato presso il vicerè il comando di una spedizione nel Mare del Sud, alla scoperta del mitico continente australe. Il comando è facilmente accordato al giovane entusiasta, e per un motivo assai semplice: il vicerè, don Lope Garcia de Castro, è infatti un suo parente. La spedizione salpa in novembre, forse sulla scorta delle ultime, entusiasmanti — ma fallaci — notizie diffuse da quella buona lana di Juan Fernandez.
Dopo settimane e settimane di navigazione, con rotta sempre a ponente, finalmente si avvistano le Isole Ellice, poi gli scogli della Candelaria (Bradley Riffs); poi, ancora vaste distese vuote d’oceano. In febbraio, Mendaña è alle Salomone, che subito battezza con il nome del re giudeo perché convinto della loro strepitosa ricchezza; anzi, che proprio di lì siano state inviate a Gerusalemme le colonne d’oro del Tempio (come narrato nel Primo Libro dei Re). Sbarcati, però, gli Spagnoli, e setacciate le isole, di oro non si trova traccia. Lo stesso accade nelle isole di Isabel, Malaita, Guadalcanal, San Cristoforo, i cui indigeni, tutti di stirpe melanesiana, non si mostrano troppo propensi a diventare sudditi del Re cattolico. In agosto si decide il ritorno: dapprima la rotta è tracciata al settentrione, sull’esempio del Legaspi; a circa 30° lat. N., i venti di ponente s’incaricano di sospingere da poppa gli Spagnoli verso le Americhe. La California è raggiunta felicemente, e da lì, bordeggiando sottocosta, Mendaña rientra nel porto messicano di Colima, presso Acapulco, e quindi in Perù.
Mendaña è un carattere entusiasta. A dispetto delle molte delusioni sofferte, è convinto di aver raggiunto gli avamposti della Terra Australe, ed è anche convinto che vi siano l’oro e l’argento, benché egli non ne abbia riportato al vicerè neanche un lingotto. Forse per questo non gli viene concessa una seconda opportunità, nonostante egli affermi che le Isole Salomone, se colonizzate in modo permanente ed opportunamente sfruttate, possano fare la fortuna della corona di Spagna.
Gli anni passano. Mendaña non ha rinunciato al suo sogno. Frattanto ha preso moglie, verso il 1586: una donna di intelligenza e coraggio non comuni, di origine galiziana, Isabel de Barrebos o Barreto. Accanto ai pregi, dona Isabel presenta difetti di carattere non lievi, che emergeranno, insieme ai primi, nelle drammatiche circostanze del viaggio. La vita di Mendaña, comunque, scorre tranquilla e appartata, mentre l’astro della potenza spagnola comincia a declinare.
Nel 1588 l’Invencible Armada tenta l’invasione dell’Inghilterra, ma è disastrosamente sconfitta: dalle tempeste incessanti, molto più che dai legni del Drake. Inglesi,Olandesi e Francesi cominciano a contrastare il primato marittimo spagnolo con vigore crescente, grazie anche a una superiorità tecnica collaudata sugli oceani aperti, fuori dall’angusto Mediterraneo: i loro vascelli sono piccoli, ma agili e leggeri, e hanno murate più alte dei giganteschi galeoni spagnoli, lenti e poco manovrabili. I corsari di quelle nazioni in ascesa saccheggiano le colonie spagnole nei Carabi e nello stesso vicereame del Perù; assaltano nell’Atlantico settentrionale le "flotte dell’oro" dirette dal porto messicano di Veracruz a quello europeo di Siviglia; e, nel Pacifico, danno la caccia al galeone di Manila, che porta i metalli preziosi dal Messico alle Filippine, e ritorna poi ad Acapulco, carico di stoffe preziose.
Mendaña vorrebbe riportare la sua patria all’antico splendore, ed è convinto che la chiave del successo sia laggiù, nei mari australi, in quelle terre che ha scoperto nel precedente viaggio, ma non ha fatto in tempo a valorizzare. Tutto dominato dalla sua fede nella ricchezza favolosa della Terra Australe, simile a un tenace don Chisciotte che continua a credere nonostante tutto, nel 1595 riesce a ottenere il comando di una nuova e più imponente spedizione, composta da ben quattro navi e numerosi equipaggi.
Molti avventurieri d’ogni risma vi si aggregano, poichè, questa volta, l’obiettivo preciso è quello di fondare una colonia nelle lontanissime Isole Salomone. Sono passati ventisette anni dalla prima spedizione, Mendaña ne ha ora cinquantaquattro, ma non è meno entusiasta di allora, tanto che porta con sé la giovane moglie ed un "piloto mayor" veramente eccezionale: Pedro Fernandez de Quiròs. Ci sono anche tre fratelli di Isabel, uno dei quali comanda una nave; e, naturallmente, le mogli e i figli di molti soldati, poiché si tratta di una vera e propria spedizione di popolamento. Mendaña ha ottenuto una patente dal vicerè peruviano, con la quale lo si aurtorizza ad "andare e sottomettere e popolare le isole occidentali del Mare del Sud" e, più specificamente, di ritrovare le Isole Salomone, già raggiunte nel primo viaggio.Le navi salpano le ancore da Paita, nel Perù settentrionale, non lungi da Guayaquil (attualmente nella Repubblica dell’Ecuador).
Dapprima si incontrano alcune isolette disperse, una delle quali è battezzata Magdalena; poi, alla fine di luglio, un arcipelago più vasto, cui Mendaña impone il nome di Marquesas (arcipelago delle Marchesi), in onore di Garcia Hurtado de Mendoza, nuovo vicerè del Perù. Questa prima presa di possesso in nome del re di Spagna avviene sotto auspici infausti, poiché 200 indigeni periscono sotto le ami dei bianchi, vittime della curiosità che li aveva spinti ad avvicinare in modo incauto gli stranieri venuti da lontano. Fin da allora si notano quelle insufficienze nell’azione di comando, quei tratti di crudeltà da parte degli ufficiali e quelle discordie fra gli Spagnoli, che avrebbero determinato il tracollo dell’intera spedizione.
Ripreso il mare in direzione ovest-sudovest, per tutto il mese di agosto non si scorge alcun indizio di terra. La spedizione sta seguendo, per motivi che oggi ci sfuggono, una rotta più meridionale di quella tracciata nel primo viaggio. Questa è la ragione per cui le Isole Salomone non vengono più ritrovate. Finalmente, l’8 settembre si avvista terra: è il gruppo delle Isole Santa Cruz. Gli Spagnoli vi sbarcano, decisi a intraprenderne la colonizzazione.
È difficile, in tutta la storia della conquista dell’Oceano Pacifico, trovare un navigatore più tenace di Mendaña, e una spedizione più sfortunata della sua. Innumerevoli sono le difficoltà ch’essa incontra, fin dall’inizio. I rapporti con gli indigeni, iniziati sotto buoni auspici, non tardano a guastarsi, e a degenerare in aperta ostilità. Vi sono insensati massacri e roghi di interi villaggi, nei quali lo stesso capo indigeno trova la morte. Le malattie imperversano, stroncando il fisico e prostrando il morale dei coloni. Scoppiano lotte nel campo degli stessi Spagnoli; vi è un vero e proprio ammutinamento, e uno degli ufficiali, Pedro Medina, viene ucciso dai suoi stessi uomini. Per finire, sull’isola si verifica una paurosa eruzione vulcanica, che finisce di scuotere l’animo dei bianchi.
Per contro, nessuna delle promesse ricchezze è stata scoperta, e viene meno, così, la molla principale che aveva mantenuto un minimo di coesione fra quegli avidi avventurieri. Il Mendaña non si mostra abbastanza energico nel fronteggiare sul nascere l’irrequietezza dei suoi uomini, forse anche perché lui stesso è caduto ammalato. Deluso, muore il 18 ottobre 1595, dopo aver fatto testamento a favore della moglie.
Quest’ultima, insieme al Quiròs, reagisce virilmente alla difficilissima situazione. Reimbarcata la colonia, le navi salpano con rotta a nord-ovest, il 18 novembre, un mese esatto dopo la morte del comandante. È una traversata da incubo – dalle travi marcite filtra l’acqua, i viveri sono quasi finiti e la razione quotidiana deve essere ridotta a 250 grammi di pane e 1/4 di litro d’acqua sporca e maleodorante. Dona Isabel e i suoi tre fratelli, però, non sono disposti a condividere le sofferenze degli equipaggi: essi possono disporre di olio, aceto e vino che non dividono con nessuno. Manila viene raggiunta finalmente, dopo infiniti stenti, l’11 febbraio del 1596. La mortalità era stata altissima: sessanta morti erano stati gettati a mare dalla sola nave di Quiròs.
Nella capitale delle Filippine, dove era stata accolta con grandi festeggiamenti, dona Isabel celebra un solenne funerale per il marito, e poco tempo dopo convola a nuove nozze con un altro ufficiale, Fernando de Castro. Con lui s’imbarca per il nuovo mondo, raggiungendo Acapulco l’11 dicembre 1597, e rientrando, quindi, in Perù l’anno dopo. Delle successive vicende di questa donna ardimentosa ma dal carattere difficile, che aveva avuto una parte non piccola nel disastro della spedizione di Mendaña, sappiamo meno di quanto vorrebbe la nostra legittima curiosità. La quale deve accontentarsi della circostanza che, dopo l’arrivo in Perù, Castro sollecita la corte madrilena per poter fare ritorno in Europa con la sua sposa, senza dubbio per farla entrare in possesso dell’eredità del Mendaña. Ne segue una penosa vicenda burocratica, di cui non conosciamo però la conclusione, né sappiamo se Isabel Barreto e suo marito abbiano potuto infine raggiungere la Spagna, come era nei loro desideri. Certo è che questa donna notevole, dopo la morte del primo marito, era stata la prima e unica "adelantada", ossia governatrice, dell’Impero spagnolo, anche se, in verità, non si può dire che si sia fatta particolarmente onore in tale funzione.
Dal punto di vista degli obiettivi che si erano prefissate, sia la prima che la seconda spedizione di Mendaña alla ricerca della Terra Australe si risolsero, quindi, in un totale insuccesso. Tuttavia, esse non furono invano. Aprirono nuove rotte e nuovi orizzonti all’esplorazione dell’Oceano Pacifico e gettarono le premesse per le future spedizioni scientifiche del XVIII secolo. Questo nonostante il fatto che, sul momento, molti dei risultati raggiunti sembrarono andar perduti; le Isole Santa Cruz, per esempio, furono dimenticate per un paio di secoli e ritrovate solo dal navigatore inglese Phillip Carteret, nel 1767.
Lo stesso Quiròs, contagiato dal medesimo sogno del suo vecchio comandante, chiese e ottenne, nel 1605, il comando di una nuova spedizione che, se non trovò, naturalmente, la mitica Terra Australe, portò tuttavia alla scoperta delle isole Paumotù, di Espìritu Santo nelle Nuove Ebridi, e forse della stessa Tahiti (ritrovata poi da Wallis solo nel 1767). Realizzò, inoltre, un sistema di desalinizzazione dell’acqua marina, che gli permise di aumentare alquanto l’autonomia operativa delle sue navi. Infine Luis Vaez de Torres, che era suo comandante in sottordine, diviso dal Quiròs da una violenta tempesta, raggiunse la Nuova Guinea e percorse lo stretto che la separa dall’Australia e che porta ancor oggi il suo nome (senza, però, riconoscerlo come tale).
È giusto, quindi, affermare che Mendaña diede un impulso potente all’esplorazione dei mari australi, con il suo esempio di ostinato visionario non meno che con le sue personali navigazioni attraverso la distesa d’acqua più grande della terra. È vero che alle sue doti di perseveranza quasi religiose e alle sue qualità di marinaio non seppe accompagnare le qualità necessarie ad un vero capo, per imporre disciplina e fiducia ai suoi sottoposti. Come governatore della colonia delle isole Santa Cruz, si rivelò non all’altezza della situazione, e permise, direttamente o indirettamente, che venissero compiute crudeltà inutili e controproducenti ai danni dei nativi Melanesiani. Bisogna però ricordare che gli stessi limiti e gli stessi difetti appartennero anche a uomini della statura di Cristoforo Colombo, che fu geniale navigatore, ma mediocre amministratore delle terre da lui scoperte. I requisiti necessari ad un fondatore di lontane colonie non si sposano, necessariamente, con quelli di un abile e coraggioso esploratore dei mari; in Mendaña sembra esservi stata una carenza di concretezza, di spirito pratico, e anche, purtroppo, di senso della misura nel trattare con gli indigeni, laddove era evidente che le possibilità di successo di una colonia europea sarebbero dipese in larghissima parte dalla capacità di rapportarsi lealmente ed amichevolmente con essi. Ma il retroterra culturale di un nobile spagnolo, cresciuto fra i privilegi di casta e formatosi, in campo coloniale, all’ombra della recente distruzione dell’Impero incaico da parte dei "conquistadores" di Francisco Pizarro, non era il più adatto al formarsi di una tale mentalità. I nobili spagnoli del XVI e XVII secolo erano gonfi di orgoglio di casta, intolleranti sul piano religioso e abituati all’esercizio di una autorità che sconfinava facilmente nell’arbitrio tirannico. I popoli indigeni, per lui, non erano che esseri inferiori da sottomettere, da convertire con la forza e da sfruttare spietatamente per le necessità economiche. Né sarebbe generoso imputare al solo Mendaña quelle tare e quei pregiudizi che furono propri, invece, di tutta una classe sociale e di tutta un’epoca, quella appunto dei brutali "conquistadores". In lui, però, questi aspetti poco gradevoli per la nostra sensibilità moderna, sono almeno in parte controbilanciati da un certo tratto di idealismo patriottico e religioso, da un coraggio personale e da una vastità di progettazione rara per quei tempi, infine da una certa familiarità con le forze avverse del destino, che ingentiliscono la sua figura e ne fanno quasi un asceta sfortunato del dovere, pronto a sacrificare tutto per un grande sogno.
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