Piante velenose: minaccia o risorsa
4 Gennaio 1980
Boccaccio
17 Agosto 2004
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L’opera narrativa di Cezar Petrescu (1892 – 1961)

PREMESSA

Prima di entrare nel vivo del nostro argomento, non possiamo non fare una breve premessa di carattere generale (vorremmo quasi dire: epistemologico) sui fondamenti stessi nonché sui criteri metodologici della storiografia letteraria comparata.

A parte il fatto che i linguisti stessi non hanno affatto chiara la distinzione scientifica tra lingua e dialetto, per lo studioso delle piccole lingue e delle piccole letterature si pongono delle difficoltà oggettive, che poi sono le stesse dell’autore che si serve, rispettivamente, del dialetto o di una piccola lingua per comporre le proprie opere. Precisiamo subito che l’espressione "piccola lingua" non vuole avere assolutamente un significato riduttivo, ma solo ed esclusivamente quantitativo.Il romeno è parlato da oltre venti milioni di persone e quindi non potrebbe dirsi, in verità, una piccola lingua. Ma nell’éra della globalizzazione, purtroppo, vale la legge dei grandi numeri: e dunque "grandi" sono le lingue (e le letterature) parlate almeno da qualche centinaio di milioni di persone. Per limitarci al mondo occidentale, sono cinque quelle che rispondono a tale requisito: l’inglese, che si avvia a divenire la lingua universale del Duemila; il francese (parlato in molti paesi africani), il russo, lo spagnolo (parlato in tutta l’America Latina a eccezione del Brasile), il tedesco (parlato anche in Austria e Svizzera e compreso in buona parte della Scandinavia). Scrivere in una di queste cinque lingue, significa avere la possibilità di essere letti e conosciuti in tutto il mondo. L’italiano non è certo una piccola lingua, per non parlare del suo prestigio storico come lingua di cultura; ma essendo parlato solo da sessanta milioni di persone, non rientra fra le grandi lingue. In pratica non c’è posto per le lingue medie; si passa subito alle piccole.

Questa situazione presenta, tra gli altri, un inconveniente particolarmente grave: fa sì che piova sempre, per così dire, sul bagnato. Chi dispone dei grandi numeri, piglia tutto; agli altri le briciole. Un Dante o uno Shakespeare possono nascere in Albania o nei Paesi Baschi; ma, se non adottano una delle grandi lingue, resteranno fatalmente sconosciuti al resto del mondo. Per pigrizia, per forza d’inerzia (e un discorso analogo si potrebbe fare per il teatro, per il cinema, per la musica, ecc.) le case editrici con un raggio d’azione internazionale non prenderanno in considerazione opere scritte in una piccola lingua, e tanto meno in un dialetto, a meno di tradurle; non vedremo mai, dietro le vetrine delle nostre librerie, i libri di un Dante albanese o di uno Shakespeare basco; forse li troveremo, e con moltas difficoltà, negli scaffali polverso di qualche sonnolenta biblioteca universitaria.In compenso siamo bombardati ogni giorno dalla pubblicità di libri (e film, e canzoni, ecc.) scritti in inglese, anche se di mediocrissimo o nessun valore artistico.

La mistificazione comincia sui banchi di scuola. Ai giovani studenti italiani, per esempio, viene insegnato che la letteratura mondiale è stata fatta, oltre che da scrittori italiani, da scrittori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, russi e… basta. Delle letterature scandinave; di quelle slave non russe; di quella olandese, magiara, romena, finnica (per non parlare della occitanica, della gaelica, della basca, della ladina), niente di niente. Qualche nome, ogni tanto, supera lo "sbarramento" dei grandi numeri e vien fatto scivolare nelle antologie più scruplose, per aver l’aria di completare il quadro. Grandissimi poeti come l’ungherese Petöfi, il polacco Mickiewicz, il romeno Eminescu — solo per limitarci ad alcuni tra i maggiori dell’Ottocento — sono praticamente sconosciuti agli studenti occidentali, anche a quelli universitari; per non parlare del cosiddetto pubblico medio.

Questa legge dei grandi numeri, che impone un criterio di efficienza tipicamente economico in sede di valutazione estetica (poiché la letteratura è una manifestazione d’arte) sta producendo appiattimento e impoverimento in misura crescente. Non conoscere Petöfi, Mickiewicz o Eminescu, non avere mai letto un loro verso in tutta la propria vita significa essere privati di qualcosa di grande, di prezioso, d’insostituibile. Certo, l’ideale sarebbe poterli leggere nell’originale; ma, dato che anche la persona di media cultura non conosce, in genere, più di tre o quattro lingue, che almeno vengano letti in traduzione.Qualcosa del loro spirito, del loro ritmo, del loro profumo sopravviverà anche a una tale operazione. E il pubblico occidentale incomincerà a capire che la letteratura mondiale è qualcosa d’infinitamente più ricco, più variegato e più multiforme di quanto abbia sinora immaginato.

Una cosa dev’essere chiara. Ogni lingua è un universo armonioso, ogni letteratura è un tassello del grande mosaico della civiltà mondiale, un fiore profumato della grande foresta. Checchè ne pensino gli apologeti della globalizzazione e i ragionieri dei grandi numeri, la pluralità delle lingue e delle opere è un bene, perché riconduce ciascun popolo alle proprie radici, alla propria cultura, al proprio humus. Apertura verso il mondo non vuol dire sradicamento o negazione della propria matrice identitaria, di cui la lingua materna è l’espressione prima e più importante. Molte piccole lingue, oggi, stanno letteralemte morendo: scompaiono. È il caso dell’istro-romeno, del serbo di Lusazia, ma anche del ladino o dell’occitanico. Le persone che parlano in queste lingue, per non parlare degli scrittori che se ne servono, vanno riducendosi sempre più, come pozzanghere sotto il sole che le asciuga. Un giorno saranno scomparse, per sempre; di loro non rimarrà neanche un ricordo tangibile. Già al presente le villotte friulane, le dolci e malinconiche dojne dei pastori romeni sono solo un ricordo carico di nostalgia.

In molti paesi del mondo, e, da alcuni anni, anche dell’Europa centro-orientale, si assistse a un fenomeno imponente e apparentemente inarrestabile di migrazione verso i paesi ricchi dell’America anglosassone e dell’Europa occidentale. I giovani, la speranza della propria patria, si lasciano tutto alle spalle per cercar fortuna in Occidente. Non è solo un fenomeno economico: gli emigranti dell’Ottocento sognavano di tornare a casa non appena racimolato un gruzzoletto. Oggi no. Il legame antico, sacrale con le proprie radici si sta seccando. Quei giovani, spesso, non sognano di tornare a casa; casomai, di portare con sé le persone care rimaste indietro. Anche così delle culture, delle letterature, delle lingue rischiano di morire. In cambio di un mondo dove nemmeo i giovani polacchi leggeranno più Mickiewicz, dove i giovani romeni o magiari non conosceranno, se non forse di nome, Eminescu e Petöfi; ma dove, im compenso, tutti quanti masticheremo chewin-gum, berremo Coca-Cola e andremo in delirio ai megaconcerti di qualche pop-star. Tutti vestiti (o svestiti) allo stesso modo, con lo stesso taglio di capelli, con le stesse scarpe firmate; tutti felici e contenti. E tanto, tanto ignoranti.

LA CORNICE STORICA.-

Per capire un autore, dobbiamo inserirlo nel proprio contesto culturale: solo così riusciremo a coglierne gli elementi di universalità, oltre a quelli di specificità. E ciò è tanto più necessario, trattandosi di un autore straniero appartenente a una realtà storica, geografica, linguistica da noi poco conosciuta. La letteratura romena, ad onta del fatto che ha prodotto una serie straordinaria di poeti e prosatori, specialmente negli ultimi due secoli, è una delle meno conosciute dal grande pubblico italiano. Si fa una certa fatica a trovare le opere romene nelle nostre librerie e anche nelle nostre biblioteche, e oggi più di ieri (fatto che da solo dovrebbe incrinare l’ottusa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione). Tutto sommato, gli autori romeni venivano maggiormente letti e tradotti qualche decennio fa, di quanto non accada al presente.

La letteratura romena dei primi quattro decenni del Novecento, diciamo fino alla tragedia della seconda guerra mondiale, offre un quadro ricco e composito. La Romania era un paese in crescita, in tutti i sensi (e continuerà ad esserlo fin verso gli anni ’70), che vuol mettersi al passo, anche sul piano culturale, con l’Europa occidentale, senza però minimamente rinunciare alla propria identità e senza dimenticare il vero, antico protagonista della sua lunga, tenace vicenda storica che dai Geti ai Romani, su su lungo i secoli, ha preservato l’identità linguistica e spirituale della nazione: il contadino. La Romania di fine Ottocento e degli inizi del Novecento è un paese che vuol riguadagnare il tempoo perduto durante la secolare dominazione ottomana, ma non vuol rinunciare alla propria anima rurale; i suoi intellettuali, i suoi scrittori si chinano con sensibilità, con delicatezza su quel mondo campagnolo ricchissimo di tradizioni, sobrio, laborioso, resistente, eroico nel suo attaccamento alla terra. Traverso mille e mille invasioni e dominazioni straniere, il contadinoi romeno è rimasto fedele ai valori della terra: alla religione ortodossa, alla famiglia patriarcale, alla lingua e ai costumi dei padri. E questa fedeltà, questo coraggio continua a mostrarli anche nelle terre "irredente": la Transilvania ungherese, la Bucovina austriaca, la Bessarabia russa, resistendo a ogni politica di snazionalizzazione, duro e tance come un grande albero nodoso e secolare. Dunque, gli intellettuali romeni sentono tutta l’importanza di questo legame secolare con la terra, legame non solo storico ed economico, ma affettivo e spirituale: legame religioso nel senso più profondo del termine. E sentono la gratitudine verso quel povero contadino che pena e fatica sopra una terra non sua, ma dei grandi boiari; che ancora nel febbraio del 1907 (mentre a Parigi, Londra, Vienna e Berlino si celebrano i fasti della belle époque, tra uno svolazzare di cappellini femminili e uno scintillìo d’uniformi a teatro) urla tutta la sua rabbia secolare in una disperata rivolta, che verrà repressa sanguinosamente dalle truppe.

Già, perché vi fu un tempo, neanche poi tanto remoto, in cui la povertà (che, si badi, è tutt’altra cosa dalla miseria) non era ancora, come lo è diventata oggi, nel mondo del cosiddetto benessere, una condizione di cui vergognarsi — così come non lo era nel mondo contadino italiano fin verso il "miracolo economico" degli anni Cinquanta -, anche perché generalizzata e dignitosa, ma soprattutto perché l’essere umano non era stato ridotto dal consumismo alla sola dimensione economica. Il contadino romeno era povero e, per lo più sfruttato; ma era paziente, saggio della millenaria saggezza della terra, capace di rialzare la testa come la spiga di grano dopo ogni temporale estivo; e quasi tutti gli intellettuali, cosa che fa loro onore, non si curvavano su di lui per compiangerne il duro destino (come il Verga de I Malavoglia), quasi con l’intimo distacco di chi sente avvicinarsi inesorabile la fiumana del "progresso", ma con la piena consapevolezza che solo in loro riposavano le radici vitali della nazione e solo in loro era custodito il seme prezioso dell’avvenire.

In questa Romania d’inizio secolo, ancora quasi tutta patriarcale ma con una capitale, Bucarest, che già vorrebbe imitare le metropoli dell’occidente, un ruolo importantissimo nella vita culturale è quello svolto da una decina di battagliere riviste letterarie, che svolgono una funzione di confronto e dibattito, un po’ come in Italia, negli stessi anni, il Leonardo, Lacerba e, soprattutto, la Voce. Ognuna di esse ha il proprio programma, e ognuna parte da una sua particolare filosofia della società romena, dei suoi problemi, delle sue speranze. Tutte si disputano vigorosaente il campo l’una con l’altra e ciascuna di esse nutre una fede incrollabile nei propri valori, nelle proprie certezze, nella propria idea di progresso e nella concezione stessa della realtà nazionale. Tra esse, cinque spiccano per vivacità e radicamento nel pubblico e, in ultima analisi, per la capacità d’interpretare differenti aspetti, ma tutti autentici, della società.

La prima, in ordine di tempo, è la gloriosa Convorbiri literare (Conversazioni letterarie), organo della prestigiosissima società letteraria Junimea (La giovinezza). L’una e l’altra sono state fondate dal professore universitario, oratore, filosofo, Titu Maiorescu (1840-1917), che è due volte ministro ed esercita una sorta di dittatura nel campo della critica per circa un quarantennio: un po’ come da noi, negli stessi anni, Benedetto Croce, del quale condivideva l’indirizzo filosofico idealista. Junimea nasce nel 1865 a Iasi (capoluogo della Moldavia), Convorbiri literare nel 1867, nella stessa città, per poi venire trasferita, nel 1885, a Bucarest, e sono, per così dire, la mente e il braccio di un nuovo movimento letterario e filosofico, il cosiddetto criticismo. Esso costituisce una tendenza, anzi una vera e propria scuola che si propone, appunto, una revisione critica della cultura nazionale, alla quale rivolge l’accusa di una eccessiva imitazione dei modelli occidentali e, in particolare, di quello francese. Tutto questo in nome di una specificità e di una originalità irriducibili, aperte sul mondo e tuttavia fedeli a sé stesse, nonché di una assoluta indipendenza dell’arte da ogni programma politico, sociale o morale, che richiama, per certi versi, una ripresa dei principii estetici del tardo romanticismo e, poi, del nascente simbolismo. E infatti è stato proprio il tardo romanticismo ad avvantaggiarsi del clima spitituale favorito dal criticismo, tanto è vero che il potente rinnovamento culturale promosso dalla rivista Junimea è culminato proprio nella lirica straordinariamente originale e malinconicamente sognante di Mihail Eminescu (1850-1889), il più grande poeta lirico romeno di tutti i tempi.

Maiorescu ha studiato filosofia a Vienna, Berlino, Giessen; Eminescu, a Vienna, si è immerso nello studio di Kant e Schopenhauer (oltre che di Platone e Spinoza): l’uno e l’altro sono dunque imbevuti della cultura filosofica tedesca, di quella Mitteleuropa che è, tra il 1865 e il 1914, la fucina di tanta parte del pensiero e della sensibilità europei, da Nietzsche a Freud. La reazione contro la strapotenza dell’influenza culturale francese, dunque, per gli intellettuali criticisti si colloca più sul piano della filosofia e su quello del gusto; dal punto di vista più specificamente letterario, essi auspicano una lingua ricca di elementi nuovi, resa possibile dalla conoscenza e dalla traduzione delle lingue europee, a cominciare dal francese stesso, che sappia "internazionalizzarsi" pur conservando l’humus inconfondibile delle proprie radici. Insomma la cultura locale va preservata come il valore primario, ma interpretandola nel quadro di un cosmopolitismo intelligente e moderato.

Convorbiri literare svolge un ruolo importantissimo, nel rinnovamento della letteratura romena di fine Ottocento, per la formazione dei giovani scrittori, anche se bisogna riconoscere che non produce una scuola di statura europea. In compenso favorisce la manifestazione di tre dei maggiori geni letterari della Romania: oltre a Eminescu, altri due "junimisti" tengono la scena, raggiungendo risultati, nei propri campi, pressoché insuperati: Ion Creanga (1837-1889) nella novella e Ion Luca Caragiale (1852-1912) nel teatro. Ai primi del Novecento, comunque, Convorbiri literare ha in gran parte esaurito la sua carica propulsiva e, se è vero che continuerà ad uscire fino al 1944, dimostrando una vitalità veramente eccezionale, a partire da allora deve gradualmente cedere il terreno ad altre riviste e ad altri movimenti che si vanno impetuosamente affermando.

Uno dei più caratteristici di tali nuovi movimenti è il poporanismo, una corrente social-riformista che sostiene un populismo a carattere contadino (il termine è una traduzione romena del narodnicismo russo). I suoi ideologi si rifanno a una schietta ispirazione taraneasca, per la materia, per l’impronta e per la lingua ed hanno il proprio organo nella rivista Viata Romineasca (La vita romena), fondata anch’essa a Iasi nel 1906 e destinata a durare sino al drammatico 1944. È un fatto che il poporanismo non produce direttamente opere poetiche o narrative, poiché i suoi portabandiera sono più che altro dei teorici, tuttavia a questo movimento si suole associare la produzione letteraria del più grande novellista e romanziere romeno del primo Novecento, il moldavo Mihail Sadoveanu (18801961), e ciò non a caso. Nella vastissima opera di questo autore (più di cinquanta volumi, fra cui spiccano gioielli come La scure e L’osteria di Ancutza) è infatti evidentissima la dimensione taraneasca e poporanist: il contadino, e ancora più spesso il pastore ed il boscaiolo, sono infatti al centro del suo mondo poetico, pervaso da un’ansia di giustizia sociale e di riscatto che ha reso ancor più popolare, se possibile, la sua opera dopo il 1945, cioè dopo il sorgere della Repubblica popolare. Lo stesso Sadoveanu, senza traumi né eccessive forzature ideologiche, canterà l’avvento dei tempi nuovi in romanzi come Mitrea Cocor (del 1949), aderendo di fatto all’ideologia marxista e salutando l’arrivo dei suoi banditori, gli eserciti sovietici. Si può anzi dire che lo stesso poporanismo è risorto dopo il 1945 in versione marxista, il che non significa che fosse tale nella sua prima versione; esso aveva sì una ispirazione socialista ma niente affatto marxista, e questo è ver, a maggior ragione, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917.

Bisogna infatti tener presente questa costante dell’anima nazionale romena: se i suoi scrittori hanno sempre guardato alla Francia o, in una certa misura, all’Italia (come è il caso di Duiliu Zamfirescu, 1858-1922), pur con la chiara coscienza della propria autonomia; e i filosofi, per lo più, alla Germania; si può dire che un po’ tutti, intellettuali e classi popolari, hanno sempre visto nel potente vicino dell’est, se non proprio un nemico "storico"(ché anzi è con l’intervento russo del 1877 che ha avuto fine il protettorato ottomano), quantomeno una costante minaccia all’integrità nazionale. È chiaro che questa, chiamiamola così, russofobia si è accentuata, nella Romania borghese tra le due guerre mondiali, alimentata dal timore del bolscevismo (che fa da cornice storica al bel romanzo di Gib Mihaescu, 1894-1935, Rusoaica [La Russa], del 1933, uno dei migliori di quel periodo).Con la Russia, d’altronde, il rapporto è sempre stato ambivalente, di repulsione ma anche di segreta attrazione: se da un lato, come abbiam detto, esso è stato ispirato a malcelata diffidenza, dall’altro è innegabile un’influenza dei grandi scrittori russi, da Gogol a Goncarov a Tolstoj a Dostoevskij, sulla letteratura romena; così come è innegabile la presenza di un fondo slavo — tendenza al tragico, al malinconico, al fantastico, all’introspettivo, talvolta al macabro, spesso al fatalistico — nell’opera di molti scrittori romeni, a cominciare dal più grande di tutti, Eminescu.

In ogni caso l’istintiva diffidenza per la Russia (non per la sua cultura, ma per le sue ambizioni imperialistiche) ha contribuito non poco a tener lontani i poporanisti della prima generazione dal marxismo, benchè essi abbiano sempre coltivato, nel loro amore alla causa contadina, un nucleo di sottintesa protesta sociale per lo sfruttamento del mondo rurale da parte dei boiari e, quindi, di potenziale convergenza col marxismo. In linea di massima, essi sono favorevoli a un tentativo di riforma agraria e non possono trovarsi che su posizioni assai diverse da quelle della destra estremista, affermatasi negli anni Trenta per impulso della Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu. Lo stesso Sadoveanu, pur non subendo una vera e propria persecuzione, è inviso alla dittatutra di Antonescu: data la frequenza degli assassinii politici compiuti dall’estrema destra in quegli anni, si può ancora dire che se la cava abbastanza bene. Votati alla causa rurale, i poporanisti, comunque, rappresentano la borghesia progressista e non l’estrema sinistra che, in Romania, si identifica coi primi nuclei della classe operaia, specie dopo il 1918. Ma in un paese ancora largamente agrario, la classe operaia resta quasi insignificante fino alla prima guerra mondiale e il marxismo è una pianta esotica che non ha potuto ancora mettere vere radici.

Bisogna comunque ricordare, perché il quadro del social-riformismo sia completo, che nel 1920 il governo Averescu attua una riforma agraria mediante l’esproprio dei latifondi superiori ai 500 ettari e delle proprietà degli assenti e degli stranieri (quest’ultima misura è diretta chiaramente contro i latifondisti ungheresi della Transilvania, annessa dopo la prima guerra mondiale). La riforma coinvolge 1 milione e 390.000 contadini che ricevono, complessivamente, 6 milioni di ettari; ma risulta poco incisiva, non essendo accompagnata da misure di assistenza tecnica e creditizia. Si tratta tuttavia di un primo passo verso una distribuzione più equa del bene primario della nazione, la terra, se si tien conto del fatto che fino al 1916 più di metà della superficie coltivabile era di proprietà di sole 8.000 famiglie e che i contadini indipendenti, circa mezzo milione, possedevano al massimo la miseria di tre ettari a testa.

Il poporanismo e la rivista Viata Romineasca svolgono una funzione importante nel panorama culturale e civile della Romania dei primi decenni del Novecento, tuttavia bisogna riconoscere che non è esso a interpretare gli strati più profondi dell’anima nazionale, bensì un altro movimento che si afferma prepotentemente all’inizio del XX secolo, il seminatorismo.

La rivista Samanatorul (Il seminatore) vede la luce a Bucarest nel 1901 (uscirà fino al 1910, ma la sua influenza durerà molto a lungo) per impulso di una notevole figura di intellettuale di statura europea e mondiale, lo storico Nicolae Iorga (1871-1940), autore di una fondamentale Storia dei Romeni e della loro civiltà, tradotta in italiano nel 1928. Egli è un grande ammiratore, tra l’altro, della cultura e della storia italiana, specialmente medievali, cui dedica opere ispirate alla vita di Dante e a quella di S. Francesco. Il seminatorismo riunisce due elementi caratteristici dell’animo romeno: l’amore per la terra e l’amore per la patria, spinto fino al nazionalismo. Lo stesso Iorga è il fondatore, nel 1910 (con A.C.Cuza), del Partito nazionalista democratico; ma un rapido sguardo al suo programma ci fa capire che si tratta di un nazionalismo non estremista e congiunto alla coscienza dei problemi sociali, che sono essenzialmente, come abbiamo detto, quelli legati al mondo rurale. Il partito fondato da Iorga si propone infatti il suffragio universale, un moderato decentramento dei poteri e una riformas agraria per dare la terra ai contadini. Nel 1916 esso si schiera sul fronte interventista e contribuisce all’ingresso del paese nella prima guerra mondiale contro gli Imperi Centrali; poi, nel 1917, anima la resistenza nazionale contro l’invasore austro-tedesco. Ma che si tratti di un nazionalismo che nasce soprattutto da un amore viscerale per la terra, vista (virgilianamente) come la fonte delle virtù patrie e dei valori morali, e non da xenofobia, antisemitismo ed esaltazione mistica, lo dimostra, tra l’altro, il fatto che Nicolae Iorga, più volte ministro di stato nel primo dopoguerra, sarà tra i primi uomini politici a cadere sotto la barbara violenza dei Legionari della Guardia di Ferro. Verrà assassinato, infatti, come vendetta per il processo e la condanna dello stesso Codreanu, nel bosco di Pantelìmon, il 28 novembre 1940, dov’era stato portato dopo il suo rapimento: un delitto che ricorda, per certi aspetti, quello di Giacomo Matteotti nell’Italia del 1924.

I seminatoristi sono nettamente anti-socialisti in politica, poiché rappresentano la borghesia moderata, mentre nel campo propriamente letterario sono aperti a svariati apporti, non avendo dei canoni rigidi a livello teorico. Un po’ per questo, un po’ perché sanno interpretare un sentimento diffuso dell’anima romena, e un po’ anche perché, come abbiamo detto, il poporanismo rimane su un piano prevalentemente teorico (con la vistosa eccezione di Sadoveanu), a un certo momento essi attraggono nella propria orbita, direttamente o indirettamente, non meno di due terzi degli scrittori romeni. Sarebbe troppo lungo elencarli tutti: ricordiamo almeno i poeti Octavian Goga (1879-1938), Stefan Octavian Iosif (1875-1913), Dimitre Anghel (1872-1914) e Panait Cerna (1881-1913); e i narratori Emil Garleanu (1878-1914), Ion Agirbiceanu (1882-1963), Liviu Rebreanu (1885-1944).

Quest’ultimo, per il suo potente soffio realistico (degno, a tratti, del miglior Verga) spicca fra tutti gli altri superandoli, come si suol dire, di tutta la testa: Originario della Transilvania (regione sottoposta alla dominazione ungherese fino al 1918), ha vissuto il dramma dell’irredentismo nella persona di un fratello, ufficiale nell’esercito austriaco, giustiziato dagli Austriaci, durante la prima guerra mondiale, per alto tradimento (come i nostri Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa), avendo cercato di disertare.. A questo dramma fosco egli saprà dare respiro epico, nonché una convincente dimensione psicologica, in uno dei suoi tre libri più importanti, Padurea spanzuratilor (La foresta degli impiccati), del 1922.Gli altri due sono Ion (Giovanni, in due volumi: La voce della terra e La voce dell’amore), del 1920-21, e Rascoala (La Rivolta), del 1933. Nel primo viene descritta la fame divorante di terra da parte del protagonista, che giunge, un po’ come Mastro-don Gesualdo di Verga, a disumanizzarsi in un crescendo impressionante di avidità, durezza, egoismo e ostinazione. Qui il contadino è colto, con crudo realismo, nei suoi tratti priomordiali e quasi bestiali: la sua dimensione umana è ritratta con potente partecipazione, anzi quasi con un vero atto di immedesimazione, e spogliata di ogni alone idealistico e romantico. Altrettanto incisivo, nella sua vigorosa dimensione epica, il secondo romanzo, che rievoca con strardinaria potenza drammatica, il prepararsi e poi lo scatenarsi della violentissima rivolta contadina del 1907, seguita da una repressione sanguinosa, come il graduale e inesorabile addensarsi delle nubi minacciose che precedono lo scatenarsi del temporale, con tutta la sua furia devastatrice. Il naturalismo di Rebreanu è così duro e impietoso da sconfinare, talvolta, nel brutale; eppure è presente in lui una profonda dimensione spirituale e religiosa, fatta di scavo interiore e di tormentosa inquietudine, particolarmente evidente ne La foresta degli impiccati.

Tragica sarà la fine di questo scrittore, che per affinità ideologica con l’estrema destra aveva finito per schierarsi accanto al fascismo: al crollo del regime del generale Antonescu e al sopraggiungere dell’Armata Rossa, il 1° settembre 1944 egli sceglie di darsi volontariamente la morte. Il caso di Rebreanu ci ricorda che non tutti gli scrittori che hanno a che fare con la rivista Semanatorul si possono considerare dei veri e propri seminatoristi. I criteri di arruolamento, se così li vogliam chiamare, sono molto elastici e, a parte la pregiudiziale antisocialista e antimarxista, non li impegnano più di tanto sul terreno letterario. Quando appare Ion, che molti critici hanno paragonato, e giustamente, a I contadini dello scrittore polacco Wladyslaw Reymont (premio Nobel per la letteratura nel 1924) – uno dei capolavori del Novecento europeo – dura è la reazione di Nicolae Iorga. Il padre del seminatorismo respinge il romanzo di Rebreanu senza appello: troppo impietosa la rappresentazione del mondo contadino in esso contenuta, al punto da giudicarla immorale. Il fatto è che il seminatorismo, pur con tutto il suo paternalismo di marca filantropica, non ama troppo il realismo, poiché contrasta con una sua visione idealizzata del mondo contadino. La critica successiva sarà più equanime verso questo grande romanzo e finirà per considerarlo il più importante della letteratura romena e uno dei maggiori di quella universale.

Seminatorismo e poporanismo sono i due movimenti maggiori, che si danno battaglia sino agli anni della prima guerra mondiale. La loro influenza scema visibilmernte dopo il 1914, quando entrambi vengono soppiantati dall’influenza preponderante del modernismo, che ispira in tutta Europa i più svariati movimenti d’avanguardia. In un certo senso, il precursore del modernismo in Romania è il gruppo che si raccoglie intorno alla quarta rivista importante di cui vogliamo parlare: Viata noua (La vita nuova). Essa viene fondata e diretta, nel 1905, dal critico e filologo Ovid Densusianu (1873-1938), che a sua volta si rifà alla lezione del poeta Alexandru Macedonski (1854-1920). Esule volontario in Francia, a Parigi, dal 1884 al 1912 (per motivi d’incompatibilità personale e culturale più che politici), anarcoide per temperamento, grande ammiratore di Baudelaire, Rimbaud e Verlaine, Macedonski aveva scritto alcune opere addirittura in francese (tra cui La mort de Dante) e aveva fondato a Bucarest una rivista, Literatorul, uscita dal 1880 al 1885, che aveva contribuito molto a diffondere la poetica simbolista.

Ora Densusianu, attraverso Viata noua, vuole propagare il verbo modernista che coincide, in quel momento storico, col simbolismo; non si occupa affatto di questioni sociali e dà un impulso notevole alla produzione letteraria "pura", creando le premesse per l’"esplosione" modernista dopo la prima guerra mondiale. Egli, personalmente, non è uno scrittore notevole; professore di letteratura latina all’Università di Iasi, non compone che dei versi di scarso valore. In compenso è un infaticabile operatore culturale, che cerca di promuovere un profondo rinnovamento nel panorama letterario romeno. Innamorato della latinità, pensa che solo a quella fonte, per la mediazione francese e italiana, la cultura romena debba ispirarsi; è chiaro il sottinteso polemico verso le simpatie che una parte dei suoi compatrioti hanno sempre mostrato per il mondo germanico e, in forma più o meno esplicita, per quello russo e slavo in generale. Rispetto al mondo contadino, così importante per poporanisti e seminatoristi, c’è invece un certo distacco, poiché il simbolismo è soprattutto un fenomeno d’importazione, almeno all’origine, e per di più un fenomeno eminentemente cittadino: parte dalla Parigi di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé e giunge direttamente a Bucarest, sorvolando, per così dire, il mondo rurale con le sue problematiche ancora patriarcali, con i suoi modi di vita in gran parte pre-industriali. E anche questo è un segnale che qualcosa, nella struttura sociale ed economica della "vecchia" Romania, incomincia a cambiare.

Possiamo distinguere i poeti influenzati dalle idee di Viata noua in tre gruppi principali: i simbolisti "puri", come Ion Minulescu (1881-1944) e Gheorghe Bacovia (pseudonimo di Gheorghe Vasiliu (1881-1944); i modernisti propriamente detti (meno legati a modelli stranieri, cioè, in questo caso, francesi), come Adrian Maniu (1891-1969), Aron Cotrus (1891-1961) e soprattutto il geniale Lucian Blaga, assai noto anche come filosofo (1895-1961); e infine ermetici come Ion Barbu (pseudonimo di Barbilian Dan, 1895-1961) e integralisti come Ilarie Voronca (pseudonimo di Eduard Marcus, 1903-1946). Una posizione del tutto autonoma e, in un certo senso, proteiforme è infine quella del grande, tumultuoso Tudor Arghezi (pseudonimo di Ion Teodorescu, 1880-1967), forse il più notevole poeta romeno di tutto il Novecento, cui faremmo troppo grave torto (come lo faremmo a Lucian Blaga, o come lo avremmo fatto ad Eminescu) se pretendessimo di sintetizzare qui, in poche battute, la sua straordinaria voce poetica, fra le più alte del suo tempo a livello europeo.

Per quel che riguarda i prosatori, il movimento modernista annovera Hortensia Papadat-Bengescu (1878-1955); Camil Petrescu (1894-1957: un autore importante, che non ha alcun rapporto di parentela col Nostro); e Mircea Eliade (1907-1986), che diverrà un grande storico delle religioni, emigrerà in Francia e scriverà anche romanzi di notevole valore, ma in lingua francese (scelta analoga a quelle di Tristan Tzara, Eugéne Ionesco ed Èmile Cioran).

A questi si possono aggiungere il grande innamorato del mare, Jean Bart (pseudonimo di Eugen P. Botez, 1874-1933), quasi un Joseph Conrad romeno, ed il prete ortodosso Gala Galaction (pseudonimo di Grigore Pisculescu, 1879-1961) in una posizione particolare, tra gli epigoni di entrambi i movimenti, poporanista e seminatorista, ma più vicina al modernismo che al tradizionalismo, di cui ora diremo. Alcuni storici della letteratura, lo notiamo per inciso, accostano a questi ultimi due anche Agirbiceanu e lo stesso Rebreanu. In realtà, non è sempre agevole inserire un determinato autore entro schemi ben precisi, poiché vi sono autori che hanno attraversato, nellaloro vita, esperienze letterarie anche assai diverse (è il caso del camaleontico Tudor Arghezi) e, d’altra parte, alcuni movimenti tendono a sfumare l’uno nell’altro. Si tratta di un fenomeno molto comune in tutta la letteratura del Novecento e non specifico della Romania, specie per quanto riguarda la poesia; ma in Romania è forse più pronunciato perché nella cultura di questa nazione, come abbiamo detto, le riviste letterarie hanno svolto un ruolo fondamentale, per certi aspetti superiore a quello da esse rappresentato nei paesi dell’Europa occidentale.

La quinta rivista importante su cui vogliamo brevemente soffermarci è Gandirea (Il pensiero), il cui primo numero appare nel 1921 e l’ultimo nel 1944. Il suo fondatore è un giovane scrittore e giornalista di ventotto anni che si sta mettendo in luce in questo periodo e che è destinato a comporre una produzione copiosissima (oltre quaranta volumi di romanzi e racconti, senza contare la produzione giornalistica): Cezar Petrescu. Ma poichè è proprio di lui che vogliamo parlare in questa sede, rimandiamo il discorso su Gandirea ancora per un poco.

LA VITA E IL PERCORSO LETTERARIO.-

Cezar Petrescu è un moldavo, come Sadoveanu, come Ionel Teodoreanu, di cui fra poco diremo qualcosa, come Nicolae Iorga e tanti altri. La sua terra natale è nella Moldavia settentrionale, a Cotnari, non lontano da Iasi, dove nasce il 14 dicembre 1892.

Giovanissimo, inizia la sua attività letteraria come giornalista e come scrittore, collocandosi d’istinto fra i cosiddetti neoseminatoristi, verso i quali lo attrae l’amore per la terra e, al tempo stesso, la preoccupazione per la difesa della sua identità minacciata da modelli di vita estranei, urbani e internazionali. Spirito conservatore, contemplativo, pessimista, ideale prosecutore della strada tracciata dal suo grande conterraneo, Mihail Sadoveanu, e tuttavia pervaso da un’inquietudine spirituale autenticamente sentita e da un’ansia di rigore e di pulizia morale mai smentita nella sua lunga carriera, Petrescu assomiglia un po’ a tanti personaggi dei suoi romanzi e racconti. E’ il classico provinciale ingenuo e sognatore, pieno di illusioni sulla bontà degli uomini e sulla funzione quasi apostolica dell’intellettuale, che si trasferisce nella grande città occidentalizzata, Bucarest, per dare la scalata al successo letterario.

Osservatore attento e penetrante della realtà, buon conoscitore d’uomini cui lo predispone una innata capacità d’intuizione psicologica, odia l’ipocrisia borghese, la furbizia dei filistei, le piccole meschine manovre di chi non ha talento, ma è abbastanza cinico e sfrontato per farsi comunque avanti; e percepisce emozioni e atmosfere grazie a una sensibilità estremamente acuta, quasi dolorosa.

In lui c’è un contrasto, un intimo dissidio che è poi quello della Romania di quegli anni decisivi: dal padre valacco ha ereditato uno spirito eminentemente pratico, dinamico, vigoroso e intraprendente; dalla madre moldava l’attitudine al ripiegamento interiore, al bisogno di solitudine e di silenzio, all’anelito di evasione dalla grigia e piatta atmosfera della realtà quotidiana, nei regni bellissimi del sogno e della fantasia. Vive in un’epoca di trapasso e, sensibile come tutti i veri artisti, è egli stesso un uomo di trapasso: cioè un uomo diviso fra opposte esigenze spirituali, allarmato e spaventato dal fosco avvenire che avanza col cosiddetto "progresso", e tuttavia in qualche modo cosciente dell’impossibilità di un puro e semplice ritorno al passato, cui pure il suo cuore desideroso di pace anela incessantemente. Come il Petrarca del Secretum, che come lui visse in un’epoca di faticosa transizione tra un passato che non vuol morire e un futuro che stenta ad affermarsi, potrebbe dire di sé stesso: "Quel doppio uomo che è in me."

Infatti la sua vita movimentata, i frequenti spostamenti, i bruschi passaggi dalla povertà alla ricchezza e viceversa, le metropoli occidentali, i porti del Vicino Oriente, le stesse apparentemente opposte esigenze del suo estro letterario: un realismo disadorno e antiromantico e, contemporaneamente, un’attrazione invincibile per l’ignoto e il mistero: tutto questo ne fa lo scrittore romeno la cui vita più ricorda quella di Jack London, e non solo per il dato biografico esteriore ma anche per quella consapevole fragilità dissimulata dietro una facciata di energico e infaticabile volontarismo. E a Jack London somiglia anche per l’amaro pessimismo, mitigato solo dal senso rasserenatore della madre natura; mentre la donna, in Petrescu (come in London) non è e non può essere elemento rasserenatore, poiché non sa mantenere le promesse seducenti del suo fascino misterioso e si rivela anch’essa, anzi, parte della dolorosa disillusione, del drammatico disinganno che la vita implacabilmente riserva anche a coloro che si erano illusi di dominarla a piacere.

E dopo Jack London, Honoré de Balzac. Con Balzac esiste una sintonia quasi perfetta sia nell’atteggiamento realistico di chi vuol cogliere tutta la realtà senza infingimenti; sia nell’ambizione di poterla abbracciare, analizzare e descrivere in ogni sua manifestazione, in ogni classe sociale e in ogni tipo umano; sia, infine, nell’identificazione col giovane ingenuo di belle speranze che la dura realtà del mondo, e particolarmente della grande città smaliziata e corrotta, riporta bruscamente dalla poesia alla prosa più arida e meschina della vita umana: come il protagonista di Illusioni perdute del grande romanziere francese. In lui c’è una curiosità spontanea verso il dato umano, verso il meccanismo, per così dire, delle passioni, dell’ambizione, della brama di vivere da cui, schopenhauerianamente, d’istinto, si ritrae pieno di angoscia, scoraggiamento e delusione. Sente che il male è lì, in quell’ardente desiderio di vita, in quell’attaccamento irrazionale alle cose, in quella volontà di successo e di godimento che si trasforma in un meccanismo feroce, spietato e che lancia gli uomini gli uni contro gli altri, per superarsi e sopraffarsi a vicenda. Intuisce tutta la bruttezza di un modo di essere puramente egoistico e utilitaristico, di una ricerca illimitata di felcità che si traduce, inevitabilmente, in uno scacco bruciante e traumatico. "I want to be happy", risuonano le note della canzone americana nell’ edificio di Calea Victoriei; e questa umanità che si affanna disperatamente in una ricerca del piacere senza fine e senza pace, suscita in lui una reazione di pena profonda, di rammarico impotente, ma anche, si direbbe, di ripulsa e di disgusto, come davanti a uno spettacolo di pagliacci mal riuscito, chiassoso e volgare.

Certo, vi è anche una buona dose di filosofia leopardiana in tutto ciò: il male non è solo nel fatto di desiderare incessantemente, di bramare senza limiti una felicità che per sua stessa natura non può che essere indefinita e illimitata, dunque irraggiungibile; il male è a monte e sta proprio nel fatto di esistere, di esserci. Per dirla con Heidegger, siamo esseri-per-la-morte ed il nostro dramma sta nel Da-sein, nella colpa originaria di esserci.

E un altro accostamento ci sembra indispensabile per capire la dimensione letteraria di Cezar Petrescu: quello con Lucrezio. Come il grande poeta latino del De rerum natura, egli cerca istintivamente un sollievo alla pena di vivere nel ritorno confidente al grembo della natura amica, spoglio (rousseianamente) di amibizioni e malizie proprie dell’"uomo civile", cioè dell’uomo infelice perché lontano dalle proprie radici; ma al tempo stesso, sente che la natura non è fatta per l’uomo, che persegue un suo disegno imperscrutabile di cui noi siamo solo miseri strumenti. Anche per questo, forse, nell’opera narrativa di Petrescu non vi è mai l’incontro gioioso e costruttivo fra l’uomo e la donna; i sessi combattono anch’essi una battaglia spietata e incessante per il piacere e per la supremazia, un darwiniano bellum omnium contra omnes. Le braccia della donna sembrano accogliere l’uomo innamorato e fornire un sollievo alla sua arsura interiore, al suo divorante desiderio di felicità che è, in fondo, inconscio terrore della morte e inconscio desiderio di immortalità; ma in essa non si cela che l’ennesimo inganno, l’ennesima amara delusione, forse la più bruciante di tutte: e di nuovo il pensiero torna al Martin Eden di London. Sembra piuttosto che la natura si serva dei nostri desiderii, delle nostre atroci illusioni, della nostra divorante ricerca della voluttà per qualche suo fine nascosto, forse per la pura e semplice perpetuazione della specie.

È, ancora una volta, la schopenhaueriana volontà che spinge gli esseri a protendersi, ad affannarsi verso la vita, la radice di tutti gli inganni e di tutte le sofferenze. Per dirla con le parole di Enea al padre Anchise nei Campi Elisi (Virgilio, Eneide, VI, 721). Quae lucis miseris tam dira cupido? ("Infelici, cos’è mai questa brama funesta del giorno?"). Possibile che gli uomini abbiano una tal smisurata e scomposta brama di vivere, dopo che la vita ha loro rivelato tutta la sua crudele insensatezza?

Ancora, questo particolare atteggiamento nichilistico, non solo di pessimismo antropologico, ma di pessimismo (ancora con Leopardi) cosmico, è senza dubbio alla radice di un altro aspetto caratteristico della produzione letteraria di Petrescu: l’interesse per l’infanzia, per il mondo puro ed ingenuo dei bambini. Questo interesse lo ha spinto a scrivere per loro alcuni dei suoi libri più belli, pieni di poesia e di struggente malinconia, come il celebre Fram, ursul polar. Ma avremo occasione di riparlarne.

L’evento decisivo nel percorso umano e letterario di questo Autore non è un evento privato, ma una grande, irreparabile tragedia collettiva: la prima guerra mondiale, al rombo dei cui cannoni tutta la patriarcale vita romena viene scossa dalle fondamenta, e un’intera generazione viene assassinata spiritualmente: sarà il tema della sua opera forse più famosa: Intunecare. Quando il governo Bratianu, dopo lunghe e tormentose incertezze, dichiara guerra all’Austria-Ungheria ed invade la Transilvania, nell’agosto 1916 (trascinato sia dalla conquista italiana di Gorizia, sia dagli effimeri successi dell’offensiva Brusilov in Galizia e Bucovina), Cezar Petrescu è un giovane di ventiquattro anni che, come tanti suoi coetanei, viene arruolato e spedito al fronte. Grande è l’entusiasmo della borghesia nazionalista, ma scarso quello dei contadini, assillati (proprio come era accaduto in Italia l’anno prima) dalla preoccupazione di dover lasciare i campi abbandonati nel pieno del ciclo agricolo, e troppo poveri, sfruttati e analfabeti per comprendere le rivendicazioni territoriali, che vanno molto al di là della Transilvania poiché comprendono le contee esteriori di Szatmàr (Satu Mare), Bihor e Arad, o Piccolo Alföld, sin nei pressi di Szeged, il Maramures e l’intero Banato. E solo nove anni prima quei contadini si erano ribellati alla loro intollerabile condizione di servaggio, e avevano visto i fucili dell’esercito rivolgersi e sparare contro di loro!

Le illusioni di una facile e rapida vittoria s’incrinano e vanno in pezzi nel giro di poche settimane. Dopo una serie di battaglie disperate per impadronirsi dei passi carpatici prima che la neve li blocchi, le truppe austro-tedesche del generale von Mackensen riescono a sboccare nella pianura valacca e il 6 dicembre entrano a Bucarest, sgombrata in fretta e furia sotto un tempo piovoso e inclemente. Il dispositivo militare romeno è stato spazzato via in poco più di tre mesi. La nazione, però, non si arrende: nell’ora della catastrofe (come l’Italia un anno dopo, a Caporetto) ritrova orgoglio e unità e decide di proseguire la lotta, nonostante il naufragio di tante speranze. Il governo si trasferisce a Iasi, il fronte si stabilizza dietro il Siret e l’esercito si riorganizza, durante l’inverno, nella Moldavia.

Nell’estate del 1917 gli Austro-Tedeschi muovono nuovamente all’attacco: ma questa volta non hanno di fronte le truppe impreparate e mal dirette dell’anno prima, bensì un esercito rinnovato nello spirito, nelle armi e nei rifornimenti. Operando per linee interne e, questa volta, ben diretto a livello di comandi, l’esercito romeno compie il piccolo miracolo di vincere una serie di gloriose battaglie difensive, mandando a vuoto gli ambiziosi piani del nemico. Ma dopo le rivoluzioni russe del 1917, e specialmente dopo quella di Ottobre, il venir meno della copertura sul fianco destro rende impossibile sfruttare il successo e costringe il governo a chiedere l’armistizio nel dicembre e a firmare l’onerosa pace di Bucarest, il 7 maggio 1918. Ma non è finita: in autunno si annuncia il crollo degli Imperi Centrali, preceduto dalla resa di Turchia e Bulgaria; il 9 novembre l’esercito romeno riprende la lotta e il 28, ad Alba Iulia, i consigli nazionali delle terre "irredente" proclamano l’unione con la Romania. Essa viene poi ratificata nel trattao di pace di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919, che accoglie gran parte delle rivendicazioni romene.

Cezar Petrescu vive in prima persona gli avvenimenti della prima guerra mondiale: le illusioni dell’estate 1916, la disfatta dell’autunno-inverno, la fervida ripresa del 1917, l’armistizio e poi, di nuovo, la conclusione vittoriosa del conflitto. Nonostante l’aspetto solido, il suo fisico cova la malattia da cui, allora, solitamente non si guarisce: la tubercolosi. Con questa sentenza di morte scritta nelle sue cartelle cliniche, viene ritirato dal fronte e relegato nell’amministrazione di una zona delle retrovie. Lì dovrebbe attendere la morte; invece guarisce: la vita lo ha graziato, quella vita che in giovinezza ha amato con trasporto, con voluttà, abbeverandosi — come scrive Agnesina Silvestri-Giorgi, sua traduttrice – a tutte le fonti, mordendo golosamente a tutti i frutti.

Il ritorno a casa, al tempo di pace, contrariamente a tutte le aspettative non è quell’evento gioioso che a lungo i giovani soldati hanno aspettato. Qualcosa, dentro quella generazione, si è spezzato: ne parlerà nel suo romanzo Intunecare, delineando un’analisi lucidissima e sconsolata non solo e non tanto dei suoi casi personali, ma di una intera generazione "perduta". Petrescu, come tanti suoi commilitoni e non solo romeni, ma di tutto il mondo, ha creduto che i sacrifici durissimi, le sofferenze spirituali e materiali della spaventosa carneficina sarebbero almeno stati compensati e moralmente riscattati, se non giustificati, da un’èra nuova di pace, comprensione e autentico progresso: cioè non solo da un maggior benessere economico (che peraltro, nella Romania e in gran parte dell’Europa del primo dopoguerra, tardava ad arrivare), ma altresì da una più ampia e comprensiva coscienza etica, da una nuova — si direbbe oggi — "qualità della vita". Ora tutto ciò si rivela una misera illusione: tutta una classe di nuovi ricchi, di profittatori di guerra, di affaristi senza scrupoli, di donne sfrontate si fa avanti; tutto un mondo verminoso di pescecani che arraffano a man bassa e si fanno strada brutalmente, sfruttando lo smarrimento morale, il tragico disorientamento di quanti hanno fatto davvero la guerra, e vi hanno trovato soltanto la tomba dei loro ideali e della loro giovinezza. Per essi, come per Radu Comscia, il protagonista (velatamente autobiografico) di Intunecare, la fine della guerra non porta altro che una sveviana "senilità" che non è cronologica — sono appena dei trentenni -, ma psicologica e coincide con una specie di disgusto esistenziale, di precoce avvizzimento dell’anima.

Abbiamo detto che Petrescu, insieme a Gib Mihaescu (che, malato di tisi, a differenza di lui muore ancor giovane, nel 1935, a soli quarantun anni) fonda nel 1921 la rivista Gandirea. Abbiamo anche visto che tutte queste riviste letterarie, nella Romania dell’epoca, non esprimono solo le tendenze estetiche di questo o quel movimento letterario, ma sono anche, quasi sempre, le ispiratrici, o le portavoce, di altrettante vere e proprie ideologie sociali. Stando così le cose, come si colloca Gandirea nel panorama culturale del primo dopoguerra, e a quali posizioni politico-sociali si ricollega?

Diciamo subito che, come sul piano artistico Gandirea vuole essere il punto di riferimento dei valori della tradizione (quindi, ancora una volta, del mondo rurale, ma in una fase storica in cui esso è minacciato dall’avanzata chiassosa e disgregatrice della società affaristica e industriale di stampo americaneggiante), sul piano culturale e, indirettamente, sociale essa promuove un esperimento veramente notevole: l’alleanza dell’elemento nazionale, che in genere tende a divenire nazionalistico, con l’elemento religioso bizantino-ortodosso. È chiaro che i tradizionalisti (d’ora in poi li chiameremo così) avvertono tutta la crisi di valori, tutto l’abisso spaventoso di relativismo nichilista che si è aperto come conseguenza della prima guerra mondiale; essi percepiscono chiaramente che l’Europa, ferita a morte e confusa, sta rischiando di perdere la propria anima, e che un paese come la Romania, retto ancora da strutture sociali di tipo patriarcale, subirà in modo anche più brusco e traumatico il passaggio verso i tempi nuovi, dominati dall’ossessione edonistica e dalla frenesia produttivista.

Il pericolo, dal punto di vista politico-sociale, è che il rifiuto della "modernità" e della "occidentalizzazione forzata" (per usare due espressioni recentissime e dunque anacronistiche, ma ugualmente efficaci) finisca per sospingere gli intellettuali tradizionalisti verso esiti politici chiaramente reazionari, come avviene, di fatto, per Nichifor Cràinic (pseudonimo di Ion Dobre), che nel 1926 prende in mano il movimento e gli dà un indirizzo più spirituale che letterario (come osserva Gino Lupi), il cosiddetto gandirismo. Crainic finisce per aderire al fascismo, come del resto Rebreanu – lo abbiamo già visto; in lui c’è una vena di misticismo esaltato e piuttosto nebuloso che lo accomuna, effettivamente, alla sensibilità della "mistica" della Guardia di Ferro, o almeno dei suoi massimi teorici, Corneliu Codreanu e Ion Mota. Crainic, che da giovane ha studiato in seminario e poi ha insegnato teologia a Cernauti, sostiene che la cultura romena deve ritrovare le proprie autentiche radici nella Chiesa bizantino-orientale in nome di un "senso teologico del bello", in opere come Puncte cardinale in haos (Punti cardinali nel caos), del 1936; Nostalgia paradisului (Nostalgia del paradiso) e Ortodoxie si etnocràtie (Ortodossia ed etnocrazia), entrambe del 1940. Nella Romania degli anni trenta egli svolge una funzione culturale (e indirettamente politica) per certi aspetti non dissimile da quella di Guénon in Francia e di Evola in Italia: indica nella secolarizzazione il male principale del mondo moderno e, nel ritorno al sacro, l’unica possibile via d’uscita dal naufragio morale ormai prossimo.

Non sarebbe assolutamente giusto, tuttavia, bollare come reazionario tutto il movimento tradizionalista, nel quale, in realtà, convergono più anime e ispirazioni diverse. Il comun denominatore è la lotta contro il modernismo e contro gli eccessivi influssi stranieri, specie francesi, che dopo il 1918 si fanno ancor più forti, anche per il particolare quadro politico dell’Europa post-bellica, in cui la "Piccola Intesa" formata da Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania si contrappone al revisionismo ungherese e diviene, di fatto, lo strumento politico-militare della Francia nell’area danubiana e balcanica (come la Polonia di Pilsudski lo è, in funzione antitedesca e antisovietica, nell’area baltica). A parte questo, c’è posto per tutti coloro che non sono disposti ad assistere con le mani in mano alla dissoluzione dei vecchi valori, né a rinunziare alla volontà di riscatto civile delle masse contadine, secondo il vecchio spirito del seminatorismo.

Poiché sono decine gli scrittori che si riconoscono, più o meno esplicitamente, nel tradizionalismo, ricorderemo solo pochissime figure di spicco: i poeti Ion Pillat (1891-1946) e Vasile Voiculescu (1884-1963); il drammaturgo di origine macedo-romena Victor Eftimiu; e, tra i romanzieri, oltre naturalmente a Cezar Petrescu, il già citato Gib Mihaescu; Matei Ion Caragiale, nipote di ion Luca (1885-1936); George Mihail Zamfirescu (1898-1939); e infine Ionel Teodoreanu (1897-1954), delicatissimo interprete del mondo dell’infanzia, specialmente nella trilogia La Medeleni (A Medeleni, 1925-27), soffusa di un impareggiabile alone di poesia che ricorda, nella grande capacità di penetrazione psicologica, certe atmosfere del miglior Pascoli.

Dicevamo che le idee politico-sociali, all’interno del movimento tradizionalista, sono abbastanza variegate e non coincidono necessariamente con una scelta di campo di estrema destra, come quella di Nichifor Crainic (che pagherà per essa, trovando la morte in carcere). Il caso di Cezar Petrescu ricorda, anche in questo, quello del suo maestro ideale, Mihail Sadoveanu, che, insieme alla stragrande maggioranza degli intellettuali romeni, decide di rimanere nella Repubblica popolare sorta nel 1947. Ma, come scrittore, egli ha concluso la sua fase veramente creativa tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta; l’ultimo libro importante è Tapirul, del 1946. Egli ha solo cinquantaquattro anni, ma l’intensa attività letteraria lo ha come precocemente logorato. Muore a Bucarest il 9 marzo del 1961.

Coerente con le sue idee, fin dal 1937 lo scrittore aveva disertato l’atmosfera convulsa e moralmente disordinata della capitale per ritirarsi in una grande villa di campagna a Busteni, costruita agli inizi del Novecento nel tipico stile architettonico delle case romene. Busteni è una tranquilla cittadina di circa 11.000 abitanti, posta a 950 metri d’altitudine, alle pendici meridionali delle Alpi Transilvaniche, lungo la strada che da Ploiesti sale verso Predeal. La casa dello scrittore è stata trasformata nel Museo commemorativo "Cezar Petrescu" che contiene, tra l’altro, oltre 10.000 fra libri e riviste, dono della sua famiglia.

LE OPERE.-

Novello Balzac o novello Zola, Cezar Petrescu si è presto orientato verso i grandi affreschi sociali e psicologici,con l’ambizione di descrivere tutte le classi sociali e, in un certo senso, tutto il quadro della vita umana. Perciò la sua opera narrativa si può raggruppare in alcuni grandi cicli, che ora descriveremo brevemente.

Il ciclo della prima guerra mondiale e delle sue conseguenze sociali e morali, denominato di "guerra e pace", è probabilmente il più noto e il più popolare, anche perché di esso fa parte Intunecare (che si può tradurre in italiano con L’imbrunire quanto al significato letterale, Ottenebramento quanto a quello spirituale, e con Oscuramento oppure L’ombra che scende, con riguardo ad entrambi), che è considerato il miglior romanzo romeno sulla prima guerra mondiale. Esso è, quindi, l’equivalente de Il fuoco di Henri Barbusse nella letteratura francese, di Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu in quella italiana o di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque in quella tedesca; con la differenza che quello di Petrescu è un affresco molto più ampio e abbraccia anche la condizione dei reduci di guerra e dell’intera società romena fin verso il 1925. A questo ciclo appartengono anche altri romanzi di gran pregio, tra cui Comoara regelui Dromichet (Il tesoro del re Dromichet), del 1931, e Aurul negru (Oro nero), in cui "la ricerca petrolifera è denunciata come una violazione dei ritmi naturali, inizio di un processo di contaminazione che investirà tanto la natura che l’uomo" (Rosa del Conte). Quest’utimo aspetto ci mostra chiaramente come il neoseminatorismo di Petrescu, permeato di un rispetto sacrale per la natura di ascendenza quasi religiosa, alla Sadoveanu, si sostanzia anche di problematiche che oggi non esiteremmo a definire ecologiste (o, se si preferisce, come direbbe Luisa Bonesio, "geofilosofiche"), intendendo l’ecologia nel senso più ampio della parola: non solo il rispetto di un certo rapporto tra uomo e natura, ma anche una necessità interiore dell’uomo, che riconosce nel proprio bisogno identitario l’esistenza di un legame organico e spirituale con la madre terra in generale, e con quella particolare terra che lo ha visto nascere e lo ha cresciuto, in particolare. Non importa se qualche critico un po’ troppo condizionato da pregiudizi ideologici ha voluto vedere in Comoara regelui Dromichet delle tracce del pensiero di V. Parvan (fondatore, con Nicolae Iorga e G. Murgòci, dell’Istituto per gli studi dell’Europa sud-orientale, nel 1913) che in un suo libro, Getica, aveva gettato le basi di una teoria apertamente razzista, facendo degli antichi Geti, per il popolo romeno, quel che saranno gli Ariani per gli ideologi della Germania nazista. A noi sembra piuttosto che in questo libro Cezar Petrescu sviluppi coerentemente e limpidamente le premesse di tutto un atteggiamento spirituale verso la terra, che è presente, come abbiamo detto, nelle radici più profonde di tutta l’anima nazionale, e che solo pochi intellettuali totalmente occidentalizzati hanno potuto ignorare. Come afferma Mario Ruffini a proposito di Comoara regelui Dromichet, "il suo seminatorismo si è evoluto, ha acquistato maggior ampiezza di respiro: non più e non solo la visione della bellezza e della purezza morale nei contadini ma la ricerca di una realtà più alta, al di fuori di una determinata classe sociale; non è il razzismo (…) ma la ricerca degli elementi tradizionali dell’idealismo e della fede del popolo romeno."

Nel ciclo della società romena tra le due guerre,e più in particolare della "capitale che uccide" spicca per ampiezza di ricostruzione sociologica e per vigore narrativo Calea Victoriei (che è il nome del più importante viale di Bucarest), ove è descritto con spietato realismo il processo di decadenza morale che la società bucarestina vive all’indomani della pur vittoriosa conclusione della guerra 1916-18. Si può dire che Petrescu, avendo idealizzato il mondo contadino d’anteguerra (come quasi tutti i seminatoristi: si ricordi il dissidio fra Iorga e Rebreanu proprio su questio punto essenziale), è naturalmente portato a un atteggiamento contrappositivo nei confronti della grande città, specialmente se inquinata, ai suoi occhi, da un americanismo senza valori e senz’anima. E il fenomeno non riguarda solo la produzione di questo scrittore né la sola società romena: si pensi, tanto per fare un parallelo (pur senza dimenticare le ovvie specificità nazionali) la contrapposizione fra il movimento letterario italiano di Strapaese, diffuso fra il 1926 e il 1932 dalle riviste Il Sevaggio di Mino Maccari e L’Italiano di Leo Longanesi, e quello di Stracittà, ispirato da Novecento di Massimo Bontempelli e Cuzio Malaparte. Si tratta, sia nel caso romeno che in quello italiano (ma si potrebbero citare altri esempi), in buona sostanza di questo: la cultura e la vita di un popolo devono attingere alle tradizioni paesane, sentite come autentiche e perciò veramente nazionali, oppure devono "sprovincializzarsi", aprendosi al cosmopolitismo e, magari, anche al gusto per l’esotico? E si badi che non si tratta affatto di una questione oziosa, perché, specie nel caso di una società non ancora pienamente industrializzata (com’era, ovviamente, il caso della Romania assai più che dell’Italia) dipende dalla strada che si imboccherà a partire da quel bivio niente di meno che la scelta del modello di sviluppo (per usare un’altra espressione recente) che determinerà i futuri destini di quella nazione, tanto materiali che spirituali. È questo, per tornare a fare un parallelo con il caso italian (ma spostandoci in avanti di due o tre decenni), il nodo centrale di tutta la riflessione letteraria, e di gran parte di quella cinematografica, di un autore come Pier Paolo Pasolini, così attento e preoccupato che una imitazione di modelli sociali e nazionali esterni snaturassero irrimediabilmente l’identità popolare delle classi subalterne e delle regioni periferiche; tanto è vero che volle cimentarsi, tanto nella poesia che nel teatro, in opere scritte nel friulano dei suoi genitori, sentito come la marilenghe, la dolce madrelingua che nulla e nessuno possono sostituire veramente.

A questo ciclo appartengono anche i due romanzi Oras patriarhal (Città patriarcale), del 1931, e Apostol (L’apostolo), del 1933. Il primo, apparso inizialmente in due volumi (ma l’edizione romena del 1961, con prefazione di Mihai Gafita, è in un unico volume di quasi 500 pagine; alcuni critici hanno definito "prolissi" i romanzi di questo periodo — Intunecare è di quasi 700 pagine -, ma la lunghezza è conseguenza dell’intento sociologico che determina il taglio narrativo) è ambientato in una immaginaria cittadina di provincia dal clima spitituale meschino e sonnolento. Esso "rivela, sotto l’apparente monotonia di un’esistenza tranquilla, la presenza degli stessi odii e rivalità e soptrattutto degli stessi vizi della grande città, al cui modello la provincia cerca, in modo dissimulato o aperto, di conformarsi." (Del Conte). Questo romanzo riprende, in un certo senso, temi e situazioni di uno dei primi libri di Petrescu ambientati nella provincia romena, Drumul cu plopi (La strada dei pioppi) del 1924, che è una raccolta di racconti ispirata alla vita monotona delle cittadine di provincia e ricorda in qualche modo i primi racconti di Carlo Cassola, come quelli de La visita, ma anche Gente di Dublino di James Joyce. L’opera prima dello scrittore dublinese è del 1914; non sappiamo se abbia influenzato direttamente i racconti di Drumul cu plopi, ma è ben possibile, dal momento che Cezar Petrescu, pur così attaccato al mondo patriarcale della sua terra, ha viaggiato molto e letto ancora di più, fino a raccogliere una biblioteca privata veramente sterminata, e inoltre ha collaborato con molte riviste straniere. Mario Ruffini osserva che "in Drumul cu plopi la sostanza lirica vien spesso interrotta da frequenti descrizioni di quadri sociali e ambienti morali; il lirico così si volge all’osservazione e all’analisi e si annuncia il passaggio al realismo."

L’altro romanzo, Apostol, già nel titolo par voglia rendere omaggio a un tipico atteggiamento che era stato proprio dell’ideologia sciale seminatorista: la missione da svolgere fra il popolo per elevarlo socialmente e moralmente, che è già prefigurata in alcuni personaggi minori della terza parte di Intunecare. Come scrive Rosa Del Conte: "Del seminatorismo Petrescu fa propria anche la vocazione apostolica, che impegna l’intellettuale a promuovere il livello etico e culturale delle masse rurali. La prospettiva però dalla quale guarda al risultato è decisamente negativa. Il giovane maestro, che torna dalla città per svolgere quest’azione missionaria, urta contro gli ostacoli creati da un’amministrazione corrotta e da una coalizione d’interessi meschini." Pertanto la figura dell’apostolo scivola inesorabilmente in quella dello sconfitto (Petrescu non ama il lieto fine), anzi del perdente, che è una categoria ben più drammatica: non solo perché reca in sé una connotazione di sveviana "malattia", cioè incapacità, di vivere come gli altri (mentre si può essere sconfitti senza divenire dei perdenti, ed è il caso di Ettore nell’Iliade), ma anche perché finisce per dubitare che il proprio scacco sia dovuto non tanto agli ostacoli esteriori, ma in buona misura ad una fragilità e inadeguatezza intime: finisce, cioè, per dubitare di sé stesso. E questo appartiene alla categoria del patetico, oltre che a quella del tragico, e apparenta la figura dell’Apostolo a tutta una serie di anti-eroi che caratterizzano la letteratura europea negli anni della crisi, fra il meriggio della belle époque che già cova la grande catastrofe e i lontani bagliori del secondo conflitto mondiale. Ricorda soprattutto figure della narrativa mitteleuropea, come i protagonisti de La marcia di Radetzki di Joseph Roth o de L’uomo senza qualità di Robert Musil, ma senza la componente freudiana e psicoanalitica che compare, invece, in un altro ciclo di opere dello scrittore di Cotnari.

Viene poi il ciclo della grande rivolta contadina del 1907, cui dedica tre volumi intitolati semplicemente 1907 e scaglionati nel tempo (i primi due rispettivamente nel 1937 e nel 1938, il terzo apparso durante la seconda guerra mondiale); ciclo che non poteva mancare in un autore, come Petrescu, così sensibile ai valori della storia, nonostante il suo radicale pessimismo sulla capacità del bene (per lui rappresentato dall’ingenua anima contadina) di sostenere vittoriosamente la lotta con quelle del male (che non è solo sociale ma metafisico e investe il mistero stesso dell’anima umana nei suoi strati più profondi).

Al ciclo della narrativa per l’infanzia appartiene Fram, ursul polar (Fram, l’orso polare);, certamente la più nota e anche la più riuscita, di cui parleremo a parte. Ma non possiamo dimenticare nemmeno il libro per bambini Il pupazzetto di neve che conferma la sua capacità di calarsi nell’anima dei fanciulli, nella miglior tradizione di Sadoveanu e di Teodoreanu. È un vero peccato che Carmen Bravo-Villasante, nel capitolo dedicato alla Romania del suo bel libro Storia universale della letteratura per ragazzi, si sia dimenticata delle opere di Petrescu dedicate al mondo dell’infanzia, poiché si tratta di un aspetto non marginale e non estemporaneo dell’arte di questo scrittore. Si direbbe che egli vi proietti quella sete di purezza, di candore che la scoperta dell’arido vero, per usare un’espressione leopardiana, ha distrutto in lui per sempre, senza però giungere a cancellarne del tutto la nostalgia e il rimpianto.accorato. Perciò, mentre Teodoreanu ha il dono di vedere il mondo con gli occhi stessi dei bambini, Petrescu, scrittore più meditativo e più pessimista, lo vede come l’adulto che ha nostalgia dell’infanzia: alla maniera di Pascoli, appunto. L’infanzia (un po’ come il mondo rurale), ha per lui il fascino dell’innocenza e perciò egli vi tende istintivamente, quando è sopraffatto dal sentimento della disarmonia e dell’insensatezza del vivere presenti nel mondo degli adulti.

Nel ciclo dedicato alla campagna, vista come un’oasi di pace e serenità dal punto di vista spirituale, almeno prima dell’industrializzazione, spiccano le deliziose Scrisorile unui razes (Lettere di un picccolo proprietario di campagna), che è anche l’opera di esordio dello scrittore ventinovenne (sinora si era dedicato al giornalismo), pubblicata nel 1922. Si tratta di una serie di istantanee sulla vita campestre e di ricordi del tempo di guerra, che vengono inizialmente pubblicate, volta per volta, sulla rivista La iena fondata dallo stesso Petrescu nel 1919, e alla quale collaborano numerosi scrittori romeni. In quel periodo, precedente la fondazione di Gandirea, egli pubblica anche una quantità di articoli e pamphlets di carattere politico, per la maggior parte contro la guerra. Sono le due anime eterne della personalità di Cezar Petrescu, e forse dello stesso spirito romeno: quella attiva e battagliera, inasprita dall’esperienza diretta della brutalità della guerra e dalla rivelazione del fondo egoistico dell’animo umano; e quella malininconica e sognante, che aspira a un ritorno felice e rigeneratore nella dolce pace dei campi, in una virgiliana atmosfera di distacco dai drammi del vivere, quasi fuori del tempo.

Un ciclo a parte è poi quello della trilogia dedicata al grande poeta Eminescu, intitolata Luceafarul, del 1934. Non poteva mancare, nella vasta opera di Petrescu, un omaggio alla figura del massimo poeta romeno, del poeta nazionale che egli sa interpretare in una vasta opera che è stata molto apprezzata dai suoi compatrioti. Ricordiamo che Luceafarul è il titolo di una famosissima poesia, anzi un poemetto, di Eminescu, il cui titolo significa L’astro della sera (cioè il pianeta Venere), e che per purezza di forma, per armonia di rime e di ritmi, si può considerare perfetto. In esso, attraverso un’antica leggenda, Eminescu aveva sviluppato il concetto che per raggiungere l’immortalità è necessario rinunciare alla felicità terrena:

C’era una volta come nelle fiabe,

c’era una volta,

di gran progenie d’imperatori

una bellissima fanciulla.

Ed era figlia unica

E bella fra le belle,

com’è la Vergine tra i santi,

la luna tra le stelle.

Dall’ombra delle volte aurate

Muove ella il passo

Verso la finestra, dove in un angolo

L’Astro l’aspetta.

Guarda all’orizzonte come sul mare

Sorge e brilla,

e sulle mobili vie

barche nere conduce. (…) [trad. di Ramiro Ortiz]

A proposito di Eminescu, col cui animo sognante Petrescu sente più d’una affinità (un critico italiano lo ha definito "il poeta della foresta e della polla"), non è da escludersi che il titolo dei racconti Drumul cu plopi gli sia stato suggerito, magari inconsciamente, da un’altra poesia del grande lirico suo conterraneo (Botosani, patria di Eminescu, è anch’essa nella Moldavia settentrionale), Sotto i pioppi dispari:

Sotto i pioppi dispari

Spesso sono passato:

mi conoscevano i vicini tutti…

tu non m’hai riconosciuto! (…) [trad. di Ramiro Ortiz]

Sempre al genere saggistico appartiene un’altra biografia, Alexandru Vlahuta si epoca sa (A. V. ela sua epoca), dedicata al poeta che, insieme a Gheorghe Cosbuc, aveva fondato il Semanatorul, sotto l’ispirazione di Nicolae Iorga. Vlahuta (1858-1919), nella sua famosa conferenza Onestitàtea in arta (L’onestà nell’arte), pronunziata nel 1893 e pubblicata poi nel 1909, affermava che l’artista è colui che svolge una missione nazionale, e contrapponeva "alla corruzione delle classi cittadine superiori, la bontà e la semplicità dei contadini; alla prepotenza dei ricchi, le sofferenze degli umili e dei perseguitati" (Gino Lupi). Cezar Petrescu si sente certo in sintonia con una tale concezione "missionaria" dello scrittore e con una tale rivalutazione del mondo rurale, di contro alla decadenza morale dei ricchi ceti urbani; e questo spiega il suo interesse per Vlahuta, oltre naturalmente al fatto che questi è stato il fondatore della rivista-madre dei seminatoristi, suoi maestri spirituali.

Altri saggi di Petrescu sono: Scriitorul si epoca sa (lo scrittore e la sua epoca), del 1956, una riflessione sulla funzione dell’intellettuale nella società; e Marturiile unui scriitor (Testimonianze di uno scrittore), del 1957, un libro di memorie letterarie.

Bisogna poi ricordare alcuni altri libri di Cezar Petrescu, che non è sempre agevole inquadrare in questo o quel ciclo narrativo. Tra essi ricordiamo: Le paradis general (Paradiso generale), del 1930; Kremlin (Il Cremlino), del 1931; Nepoata Hatmanului Toma (Il nipote dell’atamano Toma), del 1932; Nirvana, del 1934; Duminica orbului (La domenica del cieco), pure del 1934;.Carmen saeculare, del 1935. E ancora: Il riso, tradotto in Italia nel 1965; Il disertore; Naluca; Uomini di ieri, uomini di oggi, uomini di domani; e il volume di racconti e novelle Vieni e vedi, che contiene, tra l’altro, Il dottor Negrea, I nostri, Alla vigilia della rivoluzione del 1948.

Abbiamo lasciato per ultimo un gruppo di romanzi e di novelle che, pur appartenendo, in massima parte, alla prima fase narrativa dello scrittore, si discostano a tal punto dal resto della sua produzione, da far quasi pensare — almeno in un primo momento — alla mano di un altro autore. Si tratta del ciclo che lo stesso Petrescu ha definito del fantastico interiore e la cui caratteristica è un particolarissimo intreccio di realtà e fantasia, capace di creare atmosfere surreali ed oniriche, come i quadri di Paul Delvaux, e che non di rado sconfina nell’angoscia e nel terrore, pur rifiutando il ricorso al soprannaturale ma servendosi unicamente del fenomeno psichico, colto nelle sue maifestazioni più bizzarre e allucinate. Talvolta questo tipo di narrativa rassomiglia — per continuare con il paragone pittorico — a certi quadri irreali e terribili di Balthus, per non dire di Bosch; talaltra rievoca certe atmosfere alla Pirandello o alla Unamuno, perfino alla Borges, evocando i labirinti della mente ove la chiara coscienza dell’io viene afferrata e travolta dalle forze possenti e misteriose dell’inconscio. Oltre che a certi romanzi di Jack London, le opere di Petrescu del "fantastico interiore" si rifanno, in misura più o meno marcata, alla narrativa del mistero e dell’orrore di Washington Irving (lo Irving de L’avventura dello stuidente di Germania), di Nathaniel Hawthorne (lo Hawthorne de Il mio parente, maggiore Molineux), di Edgar Allan Poe, e anche di Guy de Maupassant (il Maupassant de L’Horla), ma servendosi dei meccanismi psicologici rivelati da Sigmund Freud e dalla psicoanalisi.

Si tratta di un gruppo di opere ragguardevole, che da solo avrebbe potuto illustrare discretamente le qualità di uno scrittore, e infatti costituisce un po’ un corpus separatum all’interno dell’opera complessiva di questo Autore; tuttavia non bisogna cadere nell’errore di considerarle del tutto avulse dalle problematiche care a Petrescu. Si direbbe che in esse prenda il sopravvento la sua metà fantastica e sognatrice (quella materna, come si è visto), desiderosa di evasione e tuttavia pensosa del mistero della vita, che nel sogno e nella visione sembra farsi ancora più acuto e inquietante. "Nei romanzi e nelle novelle che egli definisce del "fantastico interiore" Cezar Petrescu ritrae del mistero qualche lato allucinante creando visioni che richiamerebbero Poe se qui l’orrore non fosse unicamente determinato dal fenomeno psicologico colto in sé stesso, all’infuori delle circostanze esteriori, spesso semplicissime o addirittura banali"(A. Silvestri-Giorgi).

La prima di queste opere, in ordine cronologico, è il volume di racconti Omul din vis (l’uomo del sogno), pubblicato nel 1926, di cui il critico romeno George Dumitrescu ha scritto: "Lo studio freudiano dell’anima di Omul din vis lo fa però già uscire dall’ombra proiettata dal suo grande maestro [cioè Sadoveanu]; mi pare di sentire in lui, ora, il riflesso di altre influenze, della morale del romanzo inglese e del misticismo russo. La maturità del suo talento [di Cezar Petrescu] riveste il fondo spirituale dell’autore con uno stile armonico e vigoroso, cesellante le frasi chiuse entro i confini logici del pensiero". Anche questi racconti sono percorsi da una nota di amaro pessimismo antropologico; in uno di essi, La neve, si descrive la crisi coniugale di due sposi che, per un momento, sembra sul punto di risolversi positivamente quando il marito, preso dal ricordo di un lontano giorno d’amore, va a comprare dei fiori per rappacificarsi con la moglie,che ha lasciato sola e piangente come un piccolo animale ferito. Ma poi l’incontro con una giovane e bella ragazza, e quindi con gli amici che lo trascinano a bere all’osteria, distruggono la sua debole volontà di ritornare dalla donna un tempo amata e ora prematuramente sfiorita nelle amarezze e nelle delusioni. Quando rientra, a notte tarda, vacillante per il vino, getta a terra i garofani sulla neve, e li calpesta prima di varcare la soglia.C’è anche qualcosa che richiama alla mente i racconti di Katherin Mansfield in queste situazioni ambigue e sospese al filo di un evento riparatore, ma una Mansfield amareggiata e incapace di lieto fine. Ne La neve, peraltro, manca l’elemento misterioso che è caratteristico di questa raccolta.

Del 1929 è l’opera forse migliore di questo ciclo, il romanzo breve (breve, almeno per i canoni di Petrescu: sono più di 150 pagine), Simfonia fantastica (La sinfonia fantastica), un piccolo gioiello di acutezza psicologica sospeso tra Freud e Pirandello, con un sottofondo inquietante che lo percorre come un brivido incontrollabile. Di esso torneremo a parlare tra poco, perché si tratta di una delle cose migliori del nostro Autore, che forse nella misura "breve" del racconto o del romanzo breve trova la capacità di esprimere al meglio le sue potenzialità narrative, piuttosto che nei romanzi di grande mole.

Vediamo brevemente le altre opere di questo ciclo. Omul care si-a gasit umbra (L’uomo che ha ritrovato la sua ombra), del 1929, parte da una palese reminiscenza di Adelbert von Chamisso, scrittore tedesco del Settecento, ma nel tema dell’ombra individua anche uno degli elementi-chiave della psicologia dell’inconscio e quindi raccorda antiche intuizioni e scoperte delle moderne scienze umane. Aranca, stima lacurilor (Aranca, il fantasma dei laghi), "che — come è stato osservato — ha il sapore di una nordica ballata romantica trasportata nel nostro irriverente Novecento" -, è tutto giocato al confine tra realtà e fantasia; gli impalpabili fantasmi del subcosciente ci riconducono a un’atmosfera ambigua e rarefatta che è stata ricreata anche da uno scrittore statunitense un po’ fuori dagli schemi, Robert Nathan, con quel suggestivo e poetico Ritratto di Jennie, che è stato anche trasposto ottimamente per gli schermi cinematografici dal regista William Dieterle, nel 1949. Adevarata moart a lui Guynemer (La vera morte di Guynemer), è anch’essa del 1929, un anno prodigioso per la produzione narrativa di Petrescu; si tratta da una narrazione animata da una logica implacabile contro il mito di un certo eroismo creato dalla povera fantasia dei mortali, che esplicita quel netto rifiuto della violenza derivato dall’esperienza della guerra. Tradotta e pubblicata quasi subito in Italia, come Omul din vis e Simfonia fantastica, ha contribuito ad avvalorare nel nostro paese l’immagine di uno scrittore contraddistinto da un inquieto sentimento del tragico e del mistero, più Poe che Balzac, insomma; anche perché i romanzi "realistici", come Intunecare e Calea Victoriei, sono giunti presso il grande pubblico italiano solo successivamente (il secondo nel 1935, il primo molto più tardi, nel 1945). Baletul mecanic (Il balletto meccanico) è del 1931, un altro anno fervidissimo, con tre romanzi pubblicati, conferma la genuinità della vena surreale e vagamente inquietante del nostro Autore, e la sua capacità di creare situazioni impreviste e sconcertanti, pur servendosi di mezzi inventivi tutto sommato quotidiani: proprio di qui, anzi, dalla sproporzione tra l’apparente banalità delle premesse e la dimensione allarmante dei risultati, sta il maggior pregio della tecnica narrativa in questo ciclo del fantastico interiore. Il rifiuto dell’elemento soprannaturale, infatti, conduce Petrescu a rifuggire dai facili effetti "alla Stephen King" per concentrarsi tutto sulle sottili seduzioni di un gioco di "fragili fantasmi". Tecnica da sempre preferita dagli scrittori del mistero più raffinati, come Henry James nel Giro di vite, e che dà la vera misura del valore autentico di un genio letterario.

Prima di concludere questa parte, ci resta da dire qualcosa sullo stile di Cezar Petrescu. È chiaro che in una produzione così vasta non si può pretendere di trovar sempre un livello omogeneo di eccellenza. Petrescu è uno scrittore abile e padrone di una tecnica notevole, che sa adottare, volta a volta, i registri linguistici più adatti al contenuto delle singole opere. Alcune pagine di Intunecare sono sorrette da una potenza drammatica degna del miglior Rebreanu, altre del ciclo fantastico possono reggere il paragone con Villiers de l’Isle Adam o con Guy de Maupassant. Linguisticamente così come ideologicamente, egli si mostra aperto all’influenza dell’Occidente, e al tempo stesso deciso a difendere il valore autonomo della lingua e della cultura nazionale. Ciò non toglie che nei moltissimi romanzi e racconti di questo autore faccia qua e là capolino una certa sciatteria giornalistica, un certo "mestiere" che gli viene tanto dalla sua carriera e dalla formas mentis di giornalista, sia pure molto impegnato, quanto da una certa qual sovrabbondanza e quasi frenesia d’ispirazione, capace di spaziare, come abbiamo visto, nei campi più diversi, dal sogno e dall’evasione ai problemi sociali più scottanti e impegnativi. Ci pare, però, che una parte della critica romena della generazione a lui successiva sia stata decisamente troppo dura nei suoi confronti, forse anche in conseguenza di una certa impostazione ideologica che, dopo il 1944, bollava (come in Unione Sovietica, Polonia, ecc.) di "individualismo decadente" tutto ciò che atteneva alla sfera personale, e di "protofascismo e razzismo" ogni forma di tradizionalismo patriottico. Per esempio, Mircea Popescu è arrivato ad affermare che i romanzi di Cezar Petrescu "tradiscono la mano esperta del mestierante e rifuggono, tranne forse Intunecare, da idee e problemi". Critica non solo ingenerosa, ma ingiusta e pregiudizialmente malevola, dal momento che al problema umano queso prolifico scrittore ha dedicato, si può dire, l’intera opera sua; e ciò vale anche peri i romanzi e i racconti del ciclo fantastico, dal momento che in essi Petrescu ha voluto non già evadere spensieratamente da una realtà soffocante, quanto scandagliare il mistero del cuore umano dall’altro lato della parete: quello dell’inconscio, della nevrosi incombente, del richiamo oscuro e irresistibile delle forze interne primordiali: dell’ombra, appunto.

Più equilibrato e condivisibile ci sembra il giudizio, pur severo, di uno dei massimi esperti italiani di letteratura romena, Gino Lupi: "Benché il mondo di Cezar Petrescu sia letterario, pur introducendo episodi di vita contemporanea, l’atmosfera e gli ambienti di campagna, di provincia, della capitale, risultano evidenti e reali, dominati dalla tristezza derivante (anche quando l’argomento evade dalla realtà nel campo dell’ultrasensibile) dalla convinzione della vittoria del male sulle forze buone innate nell’uomo."

Per concludere, possiamo dire che il valore dell’opera letteraria di Cezar Petrescu è diseguale; ma se nuoce, in alcuni romanzi, una certa prolissità narrativa e, talvolta, una certa convenzionalità di scrittura (senza dimenticare che anche alcune pagine di romanzieri grandissimi, come Fëodor Dostoevskij, presentano analoghi difetti, che pure non ne sminuiscono il valore complessivo), è indubbio che questo Autore è stato uno dei migliori prosatori romeni del periodo fra le due guerre, e uno dei più ricchi e interessanti dell’intero Novecento.

LE TRAME.-

Per dare una conoscenza più puntuale dell’opera narrativa di Petrescu al pubblico italiano, abbiamo pensatro di riassumere la trama di quattro dei suoi romanzi, scelti fra i maggiori e con il criterio di illustrarne, per quanto possibile, la poliedricità d’interessi e di stili narrativi: Intunecare, Simfonia fantastica, Calea Victoriei e Fram, ursul polar.

a) INTUNECARE (OSCURAMENTO).-

Radu Comscia è un giovane di origini campagnole, ambizioso e tuttavia profondamente idealista, che si è trasferito a Bucarest per tentare la strada del successo. Da povero studente provinciale è divenuto un giovane dottore promettente ed è fidanzato con la bella e un po’ frivola Luminiza, figlia di un importante uomo politico e proprietario terriero, Alessandro Vardaru. Tra una vacanza sulle spiagge di Costanza e una stanca relazione con Zoe Vesbianu, donna "facile" ma intimamente onesta, assiste ai discorsi concitati e al clima di mobilitazione patriottica che precede la dichiarazione di guerra all’Austria, nell’estate del 1916. Il futuro suocero, che dispone di amicizie altolocate nel governo, ha disposto perché Radu venga "imboscato" in un tranquillo ufficio d’intendenza, ma il giovane rifiuta con sdegno la manovra e si arruola volontario, allo scoppio delle ostilità, con il grado di tenente. Non si lascia contagiare dalla febbre nazionalista e bellicista dei "generali da salotto", che giocano con le bandierine sulla carta geografica; tuttavia è compreso del significato morale di quell’ora e pensa che la sua generazione debba sacrificarsi per un futuro che assicuri pace e benessere alla nazione. Crede, insomma, nella guerra democratica come suscitatrice di un rinnovamento spirituale del popolo e va al fronte animato da generose illusioni. La guerra, però, rivela subito il suo volto brutale e per di più reca l’invasione tedesca. Bucarest cade, l’esercito romeno si ritira in Moldavia e, con esso, la famiglia Vardaru, come fanno tanti altri ricchi borghesi della capitale.

Le situazioni di dolore, di ingiustizia, di miseria umana in cui si trova coinvolto, operano in Radu un inizio di risveglio morale. Lui, che aveva praticamente abbandonato i genitori e rifiutato l’amore di una fanciulla povera, tutto preso dalla smania dell’ascesa sociale, comincia a rendersi conto delle enormi contraddizioni sociali che lo circondano e dell’impossibilità di perseguire una felicità puramente individualistica; intuisce, inoltre, per la prima volta la superficialità della fidanzata che egli ama profondamente, tipica ragazza viziata delle classi alte. Comincia infine ad aprire gli occhi sull’egoismo fondamentale dei rapporti umani, e intuisce che anche la guerra cui partecipa non è che una espressione di tale lotta darwiniana che soverchia la generosità e l’altruismo. "Io penso — dice a un certo punto un suo commilitone, il tenente Gherea — che dalla lotta disperata che si combatte per occupare un posto nel vagone, uno psicologo potrebbe trarre conclusioni ingegnose… Uno psicologo e forse un sociologo. E specialmente, non ora, che c’è il caos: in tempi normali… Tutte le altre classificazioni si annullano; restano solo due categorie di viaggiatori: quelli che hanno occupato un posto e quelli che ne vogliono uno. Si guardano a vicenda con astio…"

Finalmente, raggiunto dalla notizia della morte della madre, davanti a lei che non ha potuto salutare perl’ultima volta da viva, si sente toccato nel profondo, e riscopre di avere un’anima sensibile quando i suoi occhi si bagnano di lacrime. Anche la morte in battaglia di amici e compagni contribuisce alla sua rapida maturazione interiore. Al capitano Plescea, Radu afferma con calore: "La guerra generale coincide con una rivoluzione che aspetta di scatenarsi in ogni uomo. Sappiamo tutti che spesso basta un solo avvenimento esterno a cambiare la nostra linea di condotta nella vita, a provocare una rivelazione. Un’ora sola di guerra contiene tanti avvenimenti quanti sarebbero bastati un tempo per riempire tutta la vita di un uomo. Come possiamo credere che torneremo dalla guerra gli stessi di prima?"

Intanto gli eventi incalzano. Nell’estate 1917 si combattono furiose battaglie e in una di queste Radu viene gravemente ferito agli occhi e al volto. Riacquista la vista, ma rimane tragicamente sfigurato da una cicatrice sul viso, quasi un marchio indelebile che la rivelazione della guerra ha impresso su di lui. Quando lascia l’ospedale e ha un colloquio con Alessandro Vardaru, lo rimprovera aspramente per aver cercato di manipolarlo come un burattino, poi gli annuncia che intende rompere il fidanzamento per non imporre a Luminiza un matrimonio con un uomo sfigurato. Pur protestando, quello non lo trattiene. Poi, Radu ha un ultimo colloquio con la ragazza, durante il quale ella mostra pure una consapevolezza inaspettata, che prima non possedeva."Ogni vita umana — osserva Luminiza, quasi parlando a se stessa — è divorata da un male nascosto perché gli uomini non hanno mai il coraggio di guardare dentro di sé e di spiegarsi. Di spiegarsi a se stessi e agli altri." Nemmeno lei, però, alla fine lo trattiene; e Radu sente che, in fondo, quella rottura è quel che lei desiderava, ma senza avere il coraggio di dirlo apertamente.

Rientrato nella vita civile, finita la guerra, comincia la disperata discesa sociale e morale del giovane, che è tre volte uno sradicato: campagnolo inurbato; borghese retrocesso a quasi proletario; soldato incapace di adattarsi a un mondo di affaristi, speculatori di guerra, intriganti d’ogni risma. E la sua stessa crescita morale lo lascia ora indifeso davanti alla durezza dell’esistenza, spogliato delle sue vecchie ambizioni che riconosce velleitarie; amareggiato dai tanti sacrifici inutilmente sopportati da lui e dai suoi commilitoni, molti dei quali sono caduti o sono rimasti invalidi; disgustato, infine, dal cinismo e dall’arrivismo degli ex imboscati che ora si godono sfacciatamente le dubbie ricchezze accumulate.

Sempre più solo, sempre più angustiato e depresso, persuaso infine dell’inutilità di lottare per la giustizia in un mondo che ammira e premia solo la furbizia, e dell’assurdità della vita stessa, Radu va inesorabilmente alla deriva. "Che dirti? — esclama a un vecchio amico di prima della guerra, in un ultimo incontro- Aspetti una confessione? Che ti spippoli, che cosa? La mia storia è qui, qui e qui!- e indicò successivamente il volto sfigurato, il vestito con l’orlo delle maniche sfrangiato e la fronte. Chiunque la può leggere, e per questo c’è chi la fugge!

"- La tua sofferenza, Radu, è qui… – disse adagio Virgilio toccandogli il petto. — È la tua anima che è malata."

Ormai la solitudine e l’amarezza hanno scavato nel suo animo buono e sincero un abisso di rancore contro tutto e contro tutti. E quando una sera, per caso, al mare rivede (senza essere veduto) Luminiza, ormai sposata e madre di un bimbo, beatamente ignara di quanto lo ha fatto soffrire con la sua immaturità e leggerezza, non gli resta che fuggire, stravolto, fra gli spini, per poi cadere in un cupo lago di asfalto.

b) SIMFONIA FANTASTICA (LA SINFONIA FANTASTICA.-

Gregorio Stolnicu è un serioso e temuto professore universitario, sposato a una donna dolce ma dalla salute instabile, e da qualche tempo soffre di vaghi disturbi nervosi che non vuole ammettere neanche con se stesso. Il suo atteggiamento nei confronti del prossimo è di critica feroce, di arcigno moralismo, di antipatia e malevolenza dispensate a trecentosessanta gradi.

Un giorno, mentre siede a teatro per assistere a un concerto, si sente particolarmente inquieto e maldisposto, finchè arriva a riconoscere la cusa del suo disagio. È la testa calva e lucida di uno sconosciuto spettatore, seduto nella poltrona davanti alla sua, intorno alla quale volteggia una mosca che ogni tanto vi si posa per passeggiare. Gregorio sente un incontenibile bisogno di schiacciare l’insetto e cerca disperatamente di resistervi, di distrarsi, ma sempre la sua attenzione ritorna alla mosca e a quella calvizie che sembra affascinarlo, con rinnovata bramosia: "Gregorio Stolnicu si sentì dominato da una stupida idea: Alzare la palma così, dolcemente, piano piano, e paf!, schiacciare l’acrobatica mosca e interrompere quel diabolico sabba" (l’Orchestra, infatti, sta eseguendo Il sogno di una notte di Sabba). Alla fine, teso fino allo spasimo, il colletto inzuppato di sudore, quando sta per ormai per cedere all’impulso incontrollabile e schiacciare l’insetto sul capo dell’ignaro vicino, si precipita fuori tra l’irritazione del pubblico, salvandosi con la fuga.

Il professore, dietro l’apparenza seria e impeccabile, cova una grave nevrosi, dovuta forse alla continua repressione dei suoi istinti e desideri, che si è imposta fin da giovane per costruirsi una solida posizione sociale. Ci sono già state due avvisaglie, prima del concerto e della mosca tentatrice: quando ha infranto, di nascosto, un grande specchio di proprietà della moglie, che aveva sempre detestato, lasciando quindi che venisse incolpata e licenziata una innocente cameriera; e quando, poi, ha composto a caso un numero del telefono, importunando con parole incomprensibili l’ignoto interlocutore: così, per il gusto della trasgressione, lui uomo serissimo; e ne è rimasto assai turbato.

Finalmente, preoccupato per quello che sente crescersi dentro e che non riconosce come suo, Gregorio Stolnicu si decide a consultare un medico, che formula una diagnosi di surmènage e gli consiglia riposo e distrazione, magari un viaggio. Esilarante la descrizione della visita e del medico nanerottolo e malevolo: "Si strofinò le mani magre e piccole con soddisfazione maligna, scrisse qualcosa in un libretto d’appunti, ove aperse una nuova rubrica, e si strofinò ancora le mani. ‘Questo fra due anni al massimo, finisce per acchiappare la sua mosca. Non la scappa!’ Mingherlino, malaticcio e ipocondriaco, aggressivo e avaro, l’illustre medico non era mai così felice come quando scopriva in un cliente forte, ben piantato e prospero, i segni d’una condanna senza scampo."

In inverno, per cambiare aria e per seguire in parte i consigli del medico, il professore decide di partire per un viaggio all’estero di tre settimane, per incontrare dei colleghi filologi. Alla stazione ferroviaria, mentre sta acquistando il biglietto, vede attraverso i vetri la moglie Amelia che cammina sorridente a fianco del suo giovane e goffo assistente universitario, dal nome ancor più buffo di Nerone Crezeanu.. Quel mattino Amelia aveva detto di non sentirsi bene, e l’assistente gli aveva comunicato che era in partenza per un’altra città. Già da prima tormentato dall’idea che tutti i mariti vengano bellamente traditi dalle mogli, ora per la prima volta si sente toccato dal morso della gelosia.

Tornato a casa, annuncia bruscamente di avere annullato la partenza, fra lo stupore della moglie e dell’assistente, che è loro ospite a pranzo. Da quel momento, assume un atteggiamento rancoroso verso Amelia, senza però rivelarle i suoi sospetti; mentre la poverina è gravemente malata di tubercolosi e i medici quasi non le lasciano tenere in braccio la bimba di un anno. La sua improvvisa e incomprensibile ostilità verso Crezeanu, che gli ha chiesto un consiglio circa il suo possibile fidanzamento con la bella studentessa Monica, provoca indirettamente la fine dei rapporti fra i due giovani: il professore pensa che sia solo una finta per meglio ingannarlo, l’assistente prende come un diniego l’aspra risposta di Stolnicu, per il quale ha un’autentica venerazione.

Tornato a consultare il medico, che lo persuade dell’irragionevolezza dei suoi sospetti, il professore torna a un atteggiamento più affettuoso e comprensivo nei confronti di Amelia, sempre più malata, e più benevolo verso il povero Crezeanu., che però ha perduto per sempre l’amore di Monica, ora fidanzata ad un altro. Ma è solo una tregua di breve durata: una conversazione casuale in treno con uno sconosciuto gli rivela sotto una nuova luce lo specialista a cui s’era affidato, convincendolo della sua totale inettitudine; e quindi del fatto che non lui è malato, ma che gli altri, tutti gli altri, congiurano per ingannarlo e tradirlo, sua moglie e il suo assistente per primi. Essi sono certamente amanti, glie la fanno sotto il naso, e per giunta si divertono a renderlo ridicolo. Perfino la sua figlioletta lo odia ed è complice della congiura generale. "Ecco la verità: tutti lo ingannavano. (…) Dette in giro un’occhiata amara a tutti, coalizzati per ingannarlo e per rubargli la vita, l’onore e ogni bene terreno. Duro e vendicatore, il suo sguardo si fermò più a lungo sopra la bimba issata sull’alto seggiolino a rotelle…"

Stremato dalla mania di persecuzione, precocemente invecchiato, Stolnicu dissimula con tutti il proprio rancore e intanto desidera la morte della moglie, per liberarsi dall’incubo della gelosia. Nella casa infelice dominano sospetto e tensione: la servitù lo odia e lo evita, considerandolo impazzito. E ad ogni minima occasione, ad ogni minimo indizio, egli continua a costruire il suo fantastico castello di supposizioni, anzi di certezze, convincendosi che la moglie lo ha sempre tradito, e con innumerevoli amanti; e che la loro bambina non è veramente sua figlia, ma chissà di chi.

Un giorno, finalmente, Amelia ha un copioso sbocco di sangue, e il dottore lo informa che l’ora è ormai vicinissima. Per un momento, Gregorio Stolnicu sembra tornare in sé, si commuove al destino della donna, sente il rimorso per i propri assurdi sospetti che le hanno avvelenato gli ultimi mesi di vita. Dal capezzale d’agonia, Amelia gli dice parole affettuose, poiché lo ha semore amato, e gli raccomanda di non essere troppo severo con la piccina. Pochi giorni dopo è morta. Eppure la tortura non è ancora finita: il morso della gelosia non lascia la presa, e Stolnicu, disperato, si chiede come farà a sapere la verità, ora che la donna è morta e non potrà mai più confessarla.

Allora si mette a frugare tra le cose della morta, alla ricerca della prova definitiva, mentre lei giace nel letto della stanza accanto. Ed ecco, trova un fascio di lettere: lettere roventi di passione per un altro. Eccola, la prova! Solo, non vede che le date sono vecchie di anni e anni, e dimostrano il contrario di quel che egli crede. Così, davanti a quella conferma che lui aveva avuto ragione, sempre, e che era stato vittima di un continuo, sfacciato inganno, il suo sistema nervoso cede ed egli scoppia ridere di un riso pauroso e assurdo, colmo di una nota allegra e gioiosa. Lui era sano, e gli altri erano dei miserabili, degli imbecilli, dei traditori. "Al capezzale della morta, nella camera cogli specchi velati di nero, le luci dei ceri tremolavano gialle e sinistre."

c) CALEA VICTORIEI (VIA DELLA VITTORIA).-

Il giovane provinciale Jon Ozun è diretto in treno verso Bucarest, ove spera di avere successo come giornalista e scrittore, quando fa la conoscenza di due dei figli del giudice Costantino Lipan, che, come lui, lasciano il paese natìo con tutta al famiglia per trasferirsi nella capitale, dove il magistrato ha ottenuto un avanzamento di carriera. La famiglia è composta, oltre a Costantino e sua moglie Elena, da quattro ragazzi, due maschi e due femmine: Anna, Sabina, Costea e Nello. Tutti hanno sognato lungamente quel giorno che dovrà cambiare le loro vite: il trasferimento dalla provincia sonnacchiosa alla capitale, carica di seduzioni e di promesse.

Veramente, l’arrivo a Bucarest sembra avvenire sotto una cattiva stella: il treno si ferma bruscamente in mezzo alla campagna perché, come si verrà a sapere quando i passeggeri scendono a curiosare, una ragazza si è suicidata gettandosi sotto le ruote. "Altre lanterne, uscite come dalla terra, gettarono sul corpo riverso la loro luce giallastra.Le braccia della vittima, tagliate all’altezza del gomito, come due pezzi anatomici, giacevano immote nel sangue e nel fango nerastro, da una parte e dall’altra del corpo. Un viaggiatore ne toccò una con la punta del bastone. Il corpo, non più coperto dai vestiti strappati, mostrava, in una nudità impudica e d’una bianchezza irreale chiazzata di sangue coagulato, il sesso esposto a tutti gli sguardi, e i seni rotondi, intatti e pallidi, sporgenti dalla camicetta. Una larga pozza di sangue luccicava nera come pece sotto le tremule luci."

Pure, quel tragico incidente è l’occasione per la conoscenza tra Jon Ozun e Costea e Sabina Lipan. Già, Sabina. Un viaggiatore seduto nello scompartimento aveva esaminato i membri della famiglia Lipan e li aveva trovati tutti scialbi e insignificanti: tutti, tranne la giovanissima Sabina. Viva, allegra, sana, forte, le era apparsa come "il nobile felino della giungla nato da una famiglia di gatti malandati".

Quando arriva nella capitale, gli inizi per il giovane Ozun sono durissimi. Fame, freddo, difficoltà di trovare un alloggio, un impiego. È una gavetta delle più severe, la sua: gli amici su cui aveva contato lo evitano; e una sera, infreddolito e affamato, dopo aver girato in lungo e in largo senza nulla concludere, è spinto a rubare il povero pasto di un operaio del gas. Decisamente, la capitale non sembra voler mantenere alcuna delle sue promesse. Da ultimo, quando Jon è giunto all’estremo limite delle sue risorse, riesce ad avere un incontro col famoso scrittore Teofilo Steriu, da lui venerato come un maestro, che lo incoraggia con buone parole e lo introduce nell’ambiente delle riviste letterarie. È l’inizio di un sogno che finalmente si avvera. Per Steriu, invece, che — deluso dalla vita — si è chiuso sempre più in se stesso, è l’ultimo atto di generosità della sua vita: malato, morirà di lì a poco e sarà ricordato con una solenne cerimonia pubblica, che lui certo avrebbe aborrito.

Intanto, Costantino Lipan è coinvolto negli amibui mageggi politici della capitale. Il ministro Gica Elefterescu , suo vecchio compagno, ve lo ha chiamato, conoscendo la sua piatta onestà senza merito né fantasia, al preciso scopo di usarlo contro il gruppo finanziario Hagi-Jordan e favorire, così, la propria scalata al potere. Il giudice, ingenuo e fiducioso, non si accorge di nulla ed è entusiasta della calorosa accoglienza del suo vecchio amico che ha fatto tanta strada.

Un giorno, Jon Ozun incontra Costea Lipan, che non aveva più visto da quella sera sul treno. Fanno amicizia e Costea gli confida la sua irrequietezza, il suo disgusto per la ricca borghesia, la sua simpatia per la causa dei poveri e degli opppressi; in pratica, di essersi accostato al bolscevismo. Tornato a casa, Costea assiste ai preparativi della sorella Anna per recarsi a una decisiva occasione mondana: il tè offerto in casa del ministro Elefterescu e che riunirà i maggiori nomi della finanza, della politica, del giornalismo. La madre Elena, timida e modesta, pensa alla lettera che annuncia la grave malattia della zia Matilde. Passata la "storica" giornata, qualcuno dovrà andare a Iasi per darle l’ultimo saluto e, magari, raccogliere un po’ di eredità. Non vi è calcolo meschino in lei, ma sincera preoccupazione per il bene dei figli; ma quando incontra lo sguardo di Costea, vi coglie una sfumatura d’ironico disprezzo per quei borghesissimi maeggi. Al tè del ministro, poi, l’argomento del giorno è l’affaire dei Petroli Hagi-Jordan, che il nuovo procuratore generale, Costantino Lipan, si appresta ad affrontare con mano energica… per distruggere i nemici di Elefterescu senza che questi debba correre alcun rischio di persona.

Costea, qualche tempo dopo, lascia la casa dei genitori ed entra in una cellula clandestina di terroristi bolscevichi. Fanatizzato dalle dottrine di un capo, si trova implicato in una pericolsa attivtà rivoluzionari finchè, un giorno, la sorella Sabina lo viene a trovare e lo scongiura di tornare a casa. È accaduto che il ministro Elefterescu, avendo raggiunto i suoi segreti obiettivi, ha chiesto a Costantino Lipan di fermare l’inchiesa Hagi-Jordan e che, avendo ricevuto un rifiuto, lo ha ricattato mostrandogli l’incartamento della polizia relativo a suo figlio, ormai schedato come elemento pericoloso Ma Costea, irremovibile, non vuol saperne di rinunciare alla sua scelta; e Jon Ozun, pregato da Sabina di fare qualcosa per convincerlo, si vede invece obbligato dal direttore del giornale ove lavora a montare un caso scandalistico sul procedimento Hagi-Jordan, e a descrivere Costea Lipan, di cui conosce l’intima rettitudine, come un mostro da sbattere in prima pagina per colpire, attraverso di lui, la credibilità del padre.. Il clima politico si aggrava bruscamente con l’assassinio del primo ministro da parte di uno sconosciuto. Da ultimo, Costantino Lipan si reca personalmente dal figlio per convincerlo a rinunciare alla sua vita clandestina; non ci riesce, e, piegato dalla vergogna, si umilia a promettere al ministro che fermerà l’inchiesta.

Pare che l’influenza della capitale sia stata disastrosa per la famiglia del giudice. Anna, la figlia maggiore, ha contratto un matrimonio d’interesse con un nipote di Elefterescu, e diviene l’amante di un dissoluto dongiovanni; mentre Nello, il figlio più giovane, passa oziosamente le giornate in mezzo ai bellimbusti della jeunesse dorèe bucarestina, la cui anima è il figlio del finanziere Hag-Jordan, il giovane Nicki. L’unica che è rimasta immune da tale influsso malefico, conservando la sua semplicità e la sua sana gioia di vivere, è Sabina, che è divenuta amica del cuore di Viorica Hagi-Jordan, figlia del petroliere,dopo averla strappata dalla china della droga.

Un giorno, Nicki dà una festa mondana ed è invitata anche Sabina. Mentre Viorica è trattenuta momentaneamente da una zia giunta in visita, Sabina contempla le scatolette di droga — eroina, morfina, cocaina — che l’amica, su suo consiglio, si apprestava a distruggere prima di partire per un viaggio all’estero. La curiosità, l’inesperienza e un oscuro istinto la spingono a fare quell’esperienza proibita: a sniffare la droga. E mentre è sotto l’effetto di essa, Nicki è svelto ad approfittare della situazione e la violenta. Quando Viorica ritorna nella stanza e capisce tutto, è troppo tardi: armata di frusta, si getta con furia impotente sul fratello.

Tornata in sé, Sabina vaga disperata meditando il suicidio; infine si reca da Costea, ma non lo trova. Nella cameretta del fratello, però, c’è una pistola: la prende, si stende sul letto e si spara al seno. Un po’ più tardi, Costea disperato veglia il cadavere della fanciulla, mentre da una stanza vicina il grammofono continua a suonare l’ultimo disco alla moda: I want to be happy!,"Io voglio essere felice!".

d) FRAM, URSUL POLAR (FRAM, L’ORSO POLARE).-

Fram, un orso bianco simpatico e intelligentissimo, è la maggiore attrazione del circo Struschi, sempre in viaggio da una città all’altra d’Europa. Le sue acrobazie, il suo comportamento spiritoso e quasi umano fanno impazzire d’entusiasmo tutto il pubblico dei bambini, verso i quali mostra una particolare predilezione.

Tutto cambia improvvisamente quando Fram, senza causa apparente, cade in preda a un inspiegabile torpore, diventa pigro ed apatico, e sembra aver totalmente disimparato quei difficili esercizi che mandavano in visibilio grandi e piccini. In breve, sembra essersi chiuso in un suo mondo interiore pieno di malinconia, che nessuno riesce a capire e ove a nessuno è permesso di entrare.

Il diretttore del circo, che gli vuol bene, chiama un esperto di orsi che individua subito la causa del mutamento: Fram è stato afferrato dalla nostalgia per la sua terra natale, lassù, tra i ghiacci eterni, e per la vita libera e selvaggia rimasta in qualche angolo della sua memoria. Non uscirà mai più da quella patetica malinconia, se non verrà restituito alla sua condizione di animale selvaggio. E il direttore, che in fondo è un brav’uomo, grato per quanto Fram ha dato al circo nei suoi tempi migliori, sia pure con dispiacere decide di ricambiare il suo vecchio "amico"facendolo imbarcare su una nave rompighiaccio che deve salpare da Amburgo, diretta al Polo Nord, con precise istruzioni di rimetterlo in libertà.E così avviene.

Mano a mano che la nave si avvicina alla zona artica, Fram sembra ridestarsi da un lungo sogno e comincia, impaziente, a fiutare l’aria fredda che viene dal settentrione. E quando la nave giunge in vista di un’isoletta rocciosa, l’orso viene fatto sbarcare e si allontana subito con gioia, fra la commozione dell’equipaggio, per ricominciare una nuova vita, pieno di speranza.

L’incontro coi suoi simili, però, è una grandissima delusione. Fram è ormai un animale profondamente umanizzato: l’aggressività e la stupida ferocia degli altri orsi lo disgustano, e quella lunga, eterna notte polare, abitata solo dai riflessi lunari sul gelido paesaggio bianco, sotto un cielo vuoto e spaventoso, lo riempie di angoscia e di un insopportabile senso di abbandono e solitudine. Inoltre, odia la violenza e non vorrebbe uccidere; l’idea del sangue gli ripugna: ma ha fame, terribilmente fame. Tenta senza successo di fare amicizia con gli altri orsi, ma è respinto come un intruso e anzi aggredito. Riesce a difendersi con facilità e ad avere la meglio, grazie ai trucchi e alle mosse impensate imparati negli anni del circo; ma il suo cuore è colmo di tristezza e di amarezza. Capisce che l’unica legge esistente lassù è la legge del più forte, che deve uccidere per riuscire a sopravvivere, per non essere ucciso a sua volta. E quella legge, per lui, è intollerabile: non vuole uccidere, ne prova un orrore e un ribrezzo indescrivibili. Deve farlo, però, per difendersi; ma lo spettacolo dell’orsacchiotto che si accanisce sull’orso morente colma la misura del suo disgusto.

Riesce, per qualche tempo, a nutrirsi con le prede già uccise dai suoi simili, ma ormai ha capito che quella vita non potrà mai fare per lui: solo tra gli uomini ha imparato il calore di una diversa legge di vita, regolata non dal mors tua, vita mea, ma dal calore degli affetti e specialmente dalla freschezza e dalla gioiosità spontanea dei bambini, il cui ricordo gli punge il cuore di nostalgia come, negli ultimi tempi della vita al circo, il ricordo lontano dei suoi genitori e dei ghiacci immacolati dov’era nato.

Un giorno, incontra due cacciatori di orsi che il freddo e la fame hanno ridotto all’impotenza: esausti, semicongelati, non aspettano altro che la morte. Erano stati sbarcati dalla stessa nave che aveva ricondotto Fram nell’Artide ma, a causa di una bufera, non avevano potuto rientrare alla loro base, una capanna di legno che avrebbe rappresentato la salvezza. Allora Fram li copre con la sua calda pelliccia e li salva dal congelamento. Poco dopo la nave ritorna per prenderli a bordo; c’è un momento di esitazione: ai due uomini dispiace lasciare per sempre il loro salvatore. No, la sua vita non può essere fra quelle distese vuote e desolate, ma solo fra gli uomini, dove ha imparato la dolcezza dei sentimenti ed è diventato qualcosa di diverso da un grosso plantigrado ottuso e feroce.

"I due cacciatori entrarono nella capanna per vedere se non avessero dimenticato nulla. Quando uscirono, Fram era scomparso; lo cercarono, lo chiamarono.

"-Peccato. Avremmo dovuto prender congedo da lui… Hai visto come erano stupiti tutti i marinai?

"Egon salì in cima a una rupe per guardar in giù. Di lassù, si vedevano anche le due barche ferme accanto alla riva.

"- Guarda! — disse sbalordito. — Volevi sapere dov’è Fram: è già imbarcato. Ci ha preceduti.

"Infatti, era salito in barca. Voltava le spalle all’isola. Attorno a lui, i marinai cercavano di mandarlo via; ma Fram stava immobile, inchiodato nella barca.

" — Ma allora… – cominciò Otto.

" — Allora — completò Egon — lo prendiamo con noi. È il suo desiderio.Non lo dice, ma lo dimostra abbastanza chiaramente.

"I due cacciatori scesero dalla riva rocciosa. I remi cominciarono a dividere l’acqua, verso la nave ancorata al largo.

" — Caro Fram, non giri neppure gli occhi? — gli chiese Egon. Non dici neppure addio al tuo paese? Bada, questa volta è per sempre…

"Ma Fram, voltando le spalle ai deserti polari, guardava innanzi a sé, verso il mondo lontano, oltre i ghiacci e le acque."

PICCOLA ANTOLOGIA.-

Da OMUL DIN VIS (novella La neve, trad. di Gioachino Miloia).

Il brano che presentiamo narra la vicenda iniziale della novella "La neve".Un uomo e una donna che un tempo si sono amati, ma che ora consumano il loro rapporto nella delusione e nell’amarezza,al suono dei campanelli d’una slitta sulla neve ricordano il giorno felice di tre anni prima, quando erano giunti in quella casa, provenienti da un’altra città, innamorati e pieni di speranze.

Circola in queste pagine un’atmosfera grigia e opaca, quasi di tranquilla disperazione. Non vi sono scoppi d’ira o altre manifestazioni esplicite di aggressività, ma piuttosto una tensione trattenuta e quasi congelata, un’ansia non detta dell’evento risolutore, della parola che consola o del gesto che rasserena. I due personaggi sono còlti in una scena di allucinata staticità, prigionieri della loro frustrazione e quasi storditi dalla perdita della speranza. Immersi in uno squallore che li imprigiona d’ogni parte, ricordano certi personaggi dei racconti dublinesi di James Joyce o dei drammi di John Osborne. Chiusi nella propria disillusione, incapaci di comunicare l’uno con l’altra, Giovanni e Lisa sono il simbolo di un’umanità angosciata e dolente, priva persino del conforto di uno sfogo al proprio soffrire.

Rimasti soli, tutti e due si evitaron collo sguardo. Lisetta lisciava col palmo della mano la tovaglia, aspettando qualcosa, una parola, il primo segno della riconciliazione. Giovanni Sarbu, che quasi si arrostiva le mani appoggiate contro la stufa di maiolica, la guardò attraverso le sopracciglia aggrottate come un nemico, poi volse in fretta gli occhi sul quadro dirimpetto, una cattiva litografia rappresentante Ofelia riversa sull’acqua coi capelli sciolti.

Quando ne staccò lo sguardo, Lisetta piangeva. Senza singhiozzi, col capo leggermente gittato all’indietro, colle mani aggrappate al tappeto che copriva il divano, colle labbra strette. Le lagrime scorrevano silenziose una dopo l’altra dai suoi occhi sgranati, scivolavano in perle rotonde sulle guance, gocciolavano sulla camicetta bianca; e questa disperazione muta, senza agitazione, sciolse d’un tratto, come un’ondata rovente, il cuore di Giovanni Sarbu.

Quasi senz’accorgersene, si staccò dalla stufa e le prese le tempie tra le mani, asciugandole coi baci le acri lagrime:

– Povera Lisa, povera Lisetta mia…

Il braccio di Lisetta gli cinse il collo con disperazione, gli si attaccò col viso al viso, così vicino che sentiva battere le sue ciglia come una carezza muta e sottomessa. Nel petto di lei compresso contro il suo, i battiti del cuore pulsavano rapidi sotto il seno schiacciato dall’abbraccio: povero battito d’un essere spaventato, annidatosi in quel riparo da dove lui voleva scacciarlo…Tacevano, mentre ad ambedue le parole avrebbero potuto apportare il balsamo desiderato. Ma le parole non venivano. Non sapevano più parlarsi, loro due. C’era tra loro come l’ombra d’un bambino morto. Volle parlare, ma non riuscì che a balbettare: Lizon, Lizon!…

E nuovamente tacquero.

La strinse più forte per scacciare i tristi pensieri. Ma la donna si staccò lentamente per ascoltare. S’udivano i sonagli d’una slitta che scivolava sulla neve verso l’angolo della via.

– Come allora! — disse lei rabbrividendo e attaccandosi nuovamente alle sue labbra quasi per bergli il respiro.

"Come allora"; come in quel pomeriggio in cui per la prima volta eran giunti in quella città. La neve, morbida come adesso, era caduta da poco sulle case. La città silenziosa pareva il rifugio agognato per il loro amore. Non c’era pericolo d’imbattersi in un conoscente. Non c’era nessun amico da evitare. Nessuno conosceva la loro storia. Immaginavano ormai la vita come staccata dal resto del mondo, vissuta solo da loro.

Li aveva portati una slitta leggera per le vie laterali, fra i giardini dei sobborghi cinti da steccati di tavole, coperti di neve, fra il sordo latrar dei cani quando passavano accanto a un granaio. Nella campagna, tra la nebbia della lontananza, si vedeva un monte coperto di boschi azzurrastri, la striscia del fiume dalle rive strapiombanti; si vedeva su d’una collina un podere col suo giardino disteso sulla costa e con le righe nere, diritte e geometriche sepolte nella neve. Il fumo s’innalzava diritto dai camini; un contadino con una pesante slitta di legno, si fece da parte appoggiandosi con una mano ai buoi color fumo, e li salutò amichevolmente. Tutto pareva nitido, candido, quieto e semplice.

Erano entrati nella stanza riscaldata con ancora negli orecchi il tintinnare dei campanelli; lui le aveva slacciate le scarpette piccole come i sandali di un bambino; e poi vi fu quel bacio lungo e interminabile su quello stesso divano dove ora erano seduti. Allora non avrebbero creduto che sui cuscini sgualciti di quel divano avrebbero un giorno soffocato i loro singhiozzi.

Le lacrime della donna ricominciarono a scorrere. Solo allora egli capì che quello era il terzo anniversario. (…)

Da INTUNECARE (trad. di A. Silvestri-Giorgi).

Il brano è ambientato sul fronte della Moldavia, nella primavera-estate del 1917, quando si svolsero sanguinose battaglie fra gli eserciti austro-tedeschi e quello romeno, che si era notevolmente riorganizzato durante l’inverno, nonostante la precedente sconfitta. Nel paesaggio boscoso e assolato, di fronte a una natura bella e ignara dei drammi umani, si svolge un intenso colloquio fra il protagonista, il tenente Radu Comscia, e un suo commilitone reduce da un’azione di pattuglia in cui ha ucciso un sottufficiale ungherese e ne è rimasto profondamente turbato. Le riflessioni che questi svolge, tormentato dal senso di colpa, tentano disperatamente di dare un significato morale più alto, per la società futura, all’orrore criminale della guerra. Petrescu si riconosce in questa ricerca quasi religiosa di ricavare l’ordine dal disordine, l’armonia dalla brutalità, alla luce della sua stessa esperienza di reduce della prima guerra mondiale. Si noti che i pensieri dei due protagonisti del dialogo sono analoghi a quelli che, negli stessi anni, andavano svolgendo i miglior iintellettuali d’Europa di fronte al male assoluto, incomprensibile della guerra come macello organizzato, e specialmente quelli che l’avevano accolta come una dura mecessità o addirittura, illusi e generosi, erano corsi ad arruolarsi.

"Radu salì con Michele alla ‘casa del tedesco’ dove il giorno era calmo e il sole illuminava la radura fino a tardi. Sul prato d’erba verde, minuta e fitta, circondato dalla danza circolare degli abeti, due tracce d’un tronco che era stato trascinato sembravano strisce lucide tracciate da un’unghia gigantesca sopra un velluto sottile. La parete rimasta in piedi, con le orbite vuote delle finestre, appariva come una faccia contratta, nell’attesa di coloro che dovevano vederne ancora dopo quelle che già avevano viste.

Si sedettero su un gradino di pietra, davanti al giardinetto dai fiori inselvatichiti, fra le erbacce e gli spini. La gatta aveva portato i gattini al sole. Uno, bianco, giocava seguendo delicatamente con la zampetta sul suolo l’ombra di un’ape. Una formica rossa trascinava indietreggiando il cadavere di un insetto tre volte più grande di lei. Michele Vardaru la respinse con un rametto sottile, ma quella tornò ostinata a riprendersi la sua preda.

– Tutto nella natura non è che carneficina — disse lentamente Michele gettando il fuscello e appoggiando il mento suoi pugni. — Se ti chini a guardare con una lente sopra un palmo di terra, là dove ti han detto che regna la grandiosa calma della natura, vedi solo distruzione. Un insetto ne spia un altro, una larva attacca l’altra, tutto è soltanto un continuo assassinio. Il mondo è un cimitero mai sazio.

Si alzò, asciugandosi la fronte alta e bianca col fazzoletto, e disse guardando da una parte:

– Lo sai che ho ammazzato un uomo.

E subito fissò Radu negli occhi, avidamente, per leggervi un brivido d’emozione.

Radu intuì qualcosa dei pensieri di Michele, e rispose, alzando le spalle con un gesto che voleva indicare come non ci trovasse nulla di straordinario:

– Caro Michele, è la guerra!

E poi aggiunse:

– Probabilmente ti proporranno per una decorazione.

"È la guerra…".

Michele fece due passi, si voltò, e sedendosi accanto a Radu, parlò tutto d’un fiato, senza alzare gli occhi verso di lui.

– Ho ammazzato un uomo. Non lo conoscevo, non mi aveva fatto nessun torto, né aveva alcuna ragione di volermi male…Portava soltanto un’uniforme diversa. Era giovane come me, vestiva come me l’uniforme di allievo sottufficiale. Forse era venuto esattamente con le stesse mie idee. E io ho spianato il revolver e ho tirato. In due minuti quell’uomo giovane come sono io qui, non è stato più altro che una carogna. Un occhio gli era uscito dall’orbita, perché gli ho tirato una palla nella testa. Pareva che mi guardasse insanguinato e atterrito… L’ho sepolto. Si chiamava Kadar Istvan, e dalle lettere trovate nelle sue tasche ho visto che era studente in lettere, che preparava una tesi su Petöfi, e pensava con pena alla sua povertà che non gli permetterebbe di laurearsi a Jena, quando ci fosse la pace… Questo scriveva a una sua sorerlla e non era arrivato a spedire la lettera. E ci era anche un’altra lettera, di sua sorella, chissà che ragazza bisognosa, che gli mandava un pacco con qualche fazzoletto, capi di biancheria, una scatola di surrogato di caffè, zucchero, tavolette di cioccolata… Gli domandava se badava abbastanza a non raffreddarsi, aggiungeva altri particolari di casa: uno zio che era stato da loro, che facevano i vecchi, una cugina che domandava di lui e lo aspettava. Mi ha tradotto tutto un camerata transilvano. C’era una vita che si preparava e io l’ho troncata. Con che diritto? Quello che non ha ritorno, non si può né pagare né riparare… niente… un cadavere… E dopo, mi son nascosto e ho pianto. Gli ufficiali mi hanno fatto i loro rallegramenti e anche il maggiore… Il colonnello mi ha chiamato al telefono… Tutti erano contenti che io avessi ucciso un uomo. Ora te lo posso dire perché non me ne vergogno più: dopo che tutto è finito, mi son nascosto e ho pianto. Per lui e per me… Ora ho capito che cos’è la guerra.

– Radu lo prese per la vita e se lo strinse al cuore come un bambino, perché veramente il labbro di sotto di Michele tremava come il labbro d’un bimbo che cerca di vincere uno scoppio di pianto.

– Caro Michele, se non tiravi tu, tirava lui. Ignoro quali fossero le circostanze, non me le figuro; ma questo è certo: se tu gli hai sparato addosso, vuol dire che non si poteva fare diversamente… Ti ammazzava lui.

– Ed è proprio questo che è orribile — disse Michele. — Proprio questo… Ci siamo incontrati in pattuglia. Da noi in un punto distante due chilometri dalle trincee ci son certi fossi. Là ci siamo incontrati nel cuor della notte, come se ci fossimo cercati. Avevo chiesto io stesso di essere mandato.. Del resto sarebbe andato un sergente con tre uomini. Forse anche lui aveva chiesto di andare, come me. Solo per dimostrare a se stesso che non tremava… Venivano verso di noi e li abbiamo aspettati. Quando siamo loro sbucati davanti, i suoi soldati hanno alzato le mani per arrendersi. Ma lui ha gridato in ungherese un ordine, e ha teso la mano per sparare. Era alto come me, si profilava perfettamente fra due tronchi. Da due capi opposti del mondo siamo venuti per trovarci lì!… Ho sparato due colpi, uno dopo l’altro, ne ha sparato uno anche lui, che mi ha fischiato all’orecchio. Quando è precipitato a terra con le mani tese, ho provato una gran gioia, tutto il sangue mi è andato al capo e al cuore. Capisci che orrore? Ho provato una grande felicità per aver ucciso un uomo, io che non potevo schiacciare una formica… Due palle, una nella testa, l’altra nel polmone…

– Vedi, Michele, tu stesso riconosci che non potevi fare diversamente. La palla ti ha sfiorato l’orecchio, potevi cadere tu al suo posto — insistè Comscia, ma senza convinzione. — Non dicevi tu che nella guerra non esiste l’uccisione?

– Dicevo… dicevo! Quello che dicevo era prima di questi fatti. Non potevo sapere. Nessuno può sapere da lontano. Tutti ragionano, discutono, espongono teorie, si esaltano. È facile credere, quando si è lontani, di essere i soli a conoscere la verità… Ora ho capito che la guerra è una sola realtà: tutti quelli che hanno ucciso non la dimenticheranno mai. Forse solo di qui è possibile che venga la salvezza, qui sta la sola cosa buona di quest’orrore che tutti compiamo. Quando ognuno avrà il suo morto e tale ricordo gli sarà presente in ogni atto della vita, cadranno tutte le menzogne, capisci, tutte… Quando fra un anno, due, dieci, mi troverò con uno che mi spifferi le sciocchezze vecchie come il mondo, gli domanderò solo questo: Lei ha ucciso un uomo? Se no, la prego di non parlarmi. Lei è un impostore. Lei non può capire…

(ed. La Capitale, Roma, 1945, pp. 362-366.)

Da SIMFONIA FANTASTICA (trad. di A. Silvestri-Giorgi).

Siamo all’inizio del romanzo e ancora non sappiamo nulla del protagonista, il professor Gregorio Stolnicu, che siede a un concerto, irrequieto e distratto, e del quale cominciamo ad intuire gradualmente la nevrastenia che lo tortura.La descrizione dell’impulso assurdo e inconfessabile che s’impadronisce di lui e ne tende il sistema nervoso quasi fiono al punto di rottura è una pagina magistrale e un esempio di quella "letteratura della crisi" che ha trovato grandissimi interpreti in Thomas mann, Robert Miusil e Joseph Roth, ma che ha il suo vero e insuperato capostipite nel Dostoevskij dei "Ricordi del sottosuolo". Per quel che riguarda la letteratura italiana, il brano di Petrescu suggerisce un accostramento con "La carriola" di Luigi Pirandello e con alcune pagine famose di Italo Svevo, anch’esse sospese fra il drammatico e il grottesco.Il dramma di Gregorio Stolnicu è quello di una vita inautentica, frustrata e disumanizzata in nome della carriera e del successo sociale, che egli paga però a carissimo prezzo con un disordine psichico che sfocerà nella pazzia.

I suoi occhi avevano incontrato la causa di tutte le vicende che dovevano turbargli e scompaginargli la vita.

Nella poltrona davantio a Gregorio Stolnicu c’era un uomo calvo, basso e grasso. Una di quelle calvizie totali, perfette e lucide, che riflettono i lumi dei candelabri come i globi verniciati dei giardini. E sulla calvizie passeggiava una mosca…Una mosca, alla fine di novembre, significava una vitalità eccezionale! Certo, una mosca rianimata dal calduccio del calorifero.

La mosca passeggiava sulla lucida testa, percorrendola in linea retta e in diagonale, a zig-zag e a spitrale, descrivendo dei cerchi, traversandola in fretta, come se si fosse ricordata all’improvviso di aver dimenticato qualcosa all’altra estremità. Si sarebbe detto che si ostinasse a scoprire un qualche invisibile difetto in quella perfetta sfera: una impercettibile irregolarità o un anemico capello. O forse stendeva un piano suddiviso di quella superficie perfettamente liscia; forse stava facendo una minuziosa misurazione, secondo un metodo inedito e tutto suo.

Il signore grasso cercava ogni tanto di interrompere la appiccicosa passeggiata, alzando un corto braccio per allontanare l’insetto.

Goffa e inefficace difesa: la mano non arrivava a destinazione: la mosca si alzava in linea retta, descriveva alcune evoluzioni in vol plané, e poi tornava a discendere direttamente sulla testa calva, ipnotizzata da quello specchio sferico.

Il proprietario della calvizie rinunziò filosoficamente agli infruttuosi tentativi.

Ma Gregorio Stolnicu, lui, non poteva rinunziare.

Si sentiva affascinato dalla calvizie rosea e dalle intrepide esplorazioni della mosca,, che traversava in tutte le direzioni quel lucido deserto, non interrotto dall’oasi di un solo ciuffo di capelli. Con un interesse assurdo e concentrato, ne seguiva i capricciosi zig-zag, aspettando inquieto ogni volta che la mosca si fermava. L’insensibilità del signore davanti a lui lo feriva personalmente, quasi una inferiorità, nel campo sensitivo, di tutta la specie umana. Come poteva sopportare ciò? Una mosca che, col suo passo aderente, percorre una testa calva, deve dare la più irritante sensazione… E l’altro continuava ad ascoltare, senza alcun segno di impazienza.

Lui, invece, non ascoltava più niente: l’orchestra con tutti i suoi sessanta strumenti e il maestro gesticolante con la bacchetta non esistevano più per lui. Era tutto immerso lì, nella ipnotica calvizie e nelle escursioni della mosca

Una smania perversa, assurda e morbosa, che già altra volta aveva provata, s’era impadronita di lui. Se l’altro non sentiva, toccava a lui allontanare la mosca, poiché non circolava soltanto sulla lucida zucca rosea dello sconosciuto che gli stava dinanzi, ma gli pareva che col suo piccolo passo solleticasse lì, direttamente, il cervello di Gregorio Stolnicu.(…)

Gregorio Stolnicu si asciugò un filo di sudore. Cercò disperatamente di pensare ad altro, imponendosi di ignorare l’esistenza della mosca e quella della testa calva; guardò il soffitto roseo e circolare, decorato di pesanti ornamenti come la sala d’un bagno a vapore turco; contò le lampadine, provando la numerazione da destra a sinistra e viceversa; lesse attentamente la data sopra la scena: 1888, calcolando l’età dell’Ateneo; lesse le iscrizioni commemorative delle arti e scienze umane: Fisica, Matematica, Geografia, Musica, Pittura, Letteratura. (…)

Gregorio Stolnicu si sentì dominato da una stupida idea: alzare la palma dolcemente, così, piano piano e paf!, schiacciare l’acrobatica mosca e interrompere quel diabolico sabba.

Si asciugò la fronte, col fazzoletto bagnato di sudore. Ricorse a un’astuzia: come per caso, cambiando posizione, sfiorò colla mano la testa calva, scacciando per un istante la mosca e chiedendo scusa, cortesemente. Il signore si sollevò a metà con un "sst" impaziente. Il giovanotto vicino, con la gota punteggiata di pustolette, lo guardò curioso con aria interrogativa. Il colletto di Gregorio Stolnicu era così inzuppato di sudore che si sarebbe potuto strizzare.

Ormai capiva che non si salverebbe che con la fuga. Si attaccò con tutte e due le mani ai braccioli della poltrona, con gli occhi sbarrati sul sabba della mosca., tendendo disperatamente tutta la sua volontà per non ascoltare il perfido suggerimento: "Guarda, così! Piano, alza la palma piano piano, leggermente, e poi con mossa fulminea: paf!"

Da CALEA VICTORIEI (trad. di C. Ruberti).

Sabina, il, personaggio più bello e più vivo del romanzo, sconvolta per la violenza subita da Nicki Hagi-Jordan, giovane bellimbusto miliardario,mentre era sotto l’effetto della sua prima e unica esperienza con la droga, dopo aver vagato a lungo disperata, si reca dal fratello Costea, che ha rotto con la famiglia per le sue idee politiche di sinistra, e col quale aveva sempre avuto un rapporto di comprensione e di complicità. Ma Costea non c’è; e Sabina, trovata la sua pistola, decide di farla finita. Ossessionante, la voce ritmata di un grammofono continua a gracchiare, da qualche parte, un motivetto americano alla moda. "I want to be happy!", Intanto,il padre di Nicki ha organizzato la fuga all’estero del figlio e Viorica, sorella di Nicki e amica di Sabina, è ricaduta in pieno nella tossicodipendenza, da cui l’altra l’aveva aiutata a liberarsi. Siamo all’epilogo del romanzo; Petrescu, con feroce realismo e quasi con sadico compiacimento, mette in risalto la frivolezza e la corruzione morale della capitale romena tra le due guerre, che ha portato alla rovina la famiglia provinciale dei Lipan e ne ha spezzato il fiore più dolce e profumato: la giovanissima Sabina, appunto.E quel cielo così infinitamente azzurro, così disperatamente vuoto, ricorda il cielo lontano e indifferente del "Canto notturno di un pastore errante dell’Asia" di Leopardi, col cui pessimismo è in sintonia la visione del mondo dell’Autore.

"In questa camera non ci sono mai stati fiori. Sulla tavola non c’è che la rivoltella, piccola, nera e piatta: un giocattolo della Morte.

Ella non ha schiacciato in vita sua nemmeno una formica.

Com’è freddo l’acciaio! Lo riscalda con la mano, col calore del suo petto.

È un letto con la coperta ruvida ed il cuscino di tela dura, da caserma.

In questa camera non ci sono mai stati fiori.

Non tirerà nella tempia. Qui, sotto il seno, dove batte caldo e minuto l’orologio della vita. Ella non ha mai schiacciato nemmeno una formica. Ma la mano non le trema ora.

"I want to be happy!"

È stato tutto questo?

* * *

Jordan Hagi-Jordan montò in automobile, vestito d’un abito a quadretti, che gli dava un aspetto di turista americano, di milionario che ha zappato nelle cave di carbone.

Accese un sigaro grosso e profumato. S’era tagliati i baffi e le mascelle potenti ne mostravano il riso feroce, apertamente.

Dopo che l’automobile si fu avviata, e fu richiuso il cristallo di mezzo perché il meccanico non udisse, Jordan si voltò all’amico dal volto livido e dal ciuffo di capelli sulla fronte:

– Meno male che è finita, questa storia! Ti confesso che l’ho vista brutta. Per fortuna ho procurato il passaporto a Nicki. È partito oggi. Tra un anno, al suo ritorno, ogni cosa sarà dimenticata… Dopo le ore amare che m’ha procurato quell’imbecille di Lipan, ti confesso che non ho troppi rimorsi. Tutto si paga a questo mondo. Nicki deve aver letto il mio pensiero. Il bello è che era malato, la canaglia! Canaglia del diavolo!

L’epiteto fu ripetuto con una indignazione ostinata, quasi ammirativa.

– E la signorina Viorica? Quando parte, in tal caso? — chiese l’uomo livido, col ciuffo sulla fronte.

– La signorina Viorica!? Chi le capisce, le donne? Ora non parte più… M’hanno seccato tutte le sue storie! Ha sfregiato il volto di Nicki con quello scudiscio…Dovresti cominciare a farle la corte sul serio. Te l’ho detto: dal momento che hai il mio consentimento, che aspetti? Vuoi che ti spinga io nelle sue braccia?

* **

Viorica Hagi-Jordan non parte più. È in camera con le persiane chiuse. Tutte le scatoline le stanno dinanzi, pronte a servire. Non le ha spedite, non le manda più al principe perché ora servono a lei. Il filo sottile che la manteneva a galla s’è spezzato ed ella è ricaduta al fondo, dove si agita invasa da quelle acri voluttà, con contorcimenti di spasimo.

Veste un abito d’argento, ha un cuscino morbido sotto la nuca. Le occhiaie violacee invadono di nuovo il volto fino alle labbra, in cui è riapparsa una ferita livida: il segno dei Jordan.

Il levriero s’è allontanato dai suoi piedi. È immobile nell’altro angolo della stanza e sa che non potrà più capire se la mano si stenda per accarezzarlo o per impugnare la frusta.

Le persiane sono chiuse.

Ma la notte è rimasta chiusa dentro.

* * *

"I want to be happy!".

Il canto metallico del grammofono risuona lugubre nella camera dove si trova una morta.

Il dottor Mihai Pop-Spataru guarda ostilmente la parete da cui il suono si diffonde come la farsa macabra d’un ventriloquo.

Costea non ode.

Egli fissa il letto dalla coperta ruvida, guarda con occhi sbarrati e senza lagrime nei quali si legge che egli non dimenticherà.

Il dottor Spataru raccoglie i guanti, il cappello. Non ha più nulla da fare, ormai. Vorrebbe saper una cosa, ma non ha la forza di chiedere. Gli sembra che quel volto immobile, nella sua fredda ed eterna pace, gli parli alla memoria. Lo conosce, ma non rammenta. Se ne vedesse gli occhi, ricorderebbe subito, ma gli occhi non riceveranno più la luce del sole, gli occhi senza riposo, lucenti come l’antracite.

– Era la vostra amante?

– No! Mia sorella!

Forse s’è ingannato. Egli ha veduto e dimenticato tante cose! Fa alcuni passi verso l’uscio poi si volta. Come abbandonare quei ragazzi, con l’orribile canto del grammofono?

"I want to be happy!".

Prende Costea per un braccio e lo spinge verso la finestra.

– Non starle vicino, non guardare. È una cosa che rovina i nervi.

Non ricorda che, con le stesse parole aveva rimproverato una notte lo stesso giovane, perché lasciava la sorella atterrita dinanzi allo spettacolo della morte.

– Costea… come si può far questo?

Ora Sabina sapeva che questo era possibile.

Il canto è terminato.

Il dottor Mihai Pop-Spataru è andato via e Costea è rimasto presso la finestra.

Calea Victoriei risuona del clamore della folla che torna dalla più attesa corsa dell’annata, nel più trionfale tramonto di questo autunno. È un palpitare policromo di sciarpe, un sorpassarsi affannoso di automobili e di equipaggi, un chiasso assordante di voci che si spinge fin lì, nella camera dove non ci sono stati mai fiori e dove, sopra un letto dalla ruvida coperta, si trova una morta per la cronaca di domani.

Le cortine, aperte in fuori dalla mano di Costea, hanno spiegato le loro ali brune. Così le apre l’arcangelo nero, ogniqualvolta giunge là dove è stato chiamato.

Verso il cielo, infinitamente azzurro, due braccia alzate invocano il pianto. Non si comprende cosa vogliano. Implorano forse la luce ch’è in alto, o maledicono forse l’ombra ch’è in basso.

Il cielo è profondo e vuoto.

(ed. U.T.E.T., Torino, 1933, pp. 339-342.)

Da FRAM, URSUL POLAR (trad. di A. Silvestri-Giorgi).

Il brano che viene qui proposto descrive la fonte della improvvisa e apparentemente inspiegabile malinconia che ha preso il prodigioso orso Fram, grande attrazione del circo Struschi e beniamino del pubblico infantile di mezza Europa: la nostalgia dei luoghi natali. Il confuso ma potente ricordo della sua prima infanzia tra i ghiacci è penetrato inaspettatamente nel suo animo di animale addomesticato, sconvolgendo dolorosamente la sua vita sinora felice. Fram, come tanti personaggi di Petrescu, è uno sradicato; ma il ritorno al paese dei ghiacci ne farà uno sradicato anche maggiore: scoprirà di non essere più capace di vivere tra gli animali selvaggi, in una natura dura e spietata, e vorrà tornare nel paese degli uomini, dove ha scoperto di possedere sentimenti "umani"che ormai sono parte integrale della sua vita. È il solo caso, nella narrativa di Petrescu, in cui il conflitto fra natura e cultura si risolve a favore di quest’ultima. Ma ciò avviene perché egli ha idealizzato l’animale "buono", estrema versione del mito del buon selvaggio; mentre gli altri orsi, quelli che Fram incontra al Polo, incarnano gli eterni difetti umani: stupidità, egoismo, violenza cieca.

Si noti, in questa pagina, di quanta delicatezza è capace l’Autore nel descrivere il rapporto fra l’orsacchiotto e la sua mamma: è una scena squisita, che ricorda irresistibilmente il celebre quadro "Le due madri" del pittore Giovanni Segantini: la madre umana e la madre bovina, ciascuna col suo piccolo accanto, nel tepore dolce della stalla, entrambe còlte nell’intimità e nel mistero toccante della maternità.

"Quando, molto tardi, chiudeva gli occhi, Fram faceva sempre lo stesso sogno.

Era la storia di poche e incerte vicende, di un’infanzia lontana che per molto tempo aveva dimenticata.

La storia di un orsacchiotto bianco, preso piccolo da Eschimesi nelle regioni polari, portato da un marinaio in un porto delle terre calde e venduto ad un circo.

L’orsacchiotto si dimostrò subito più sveglio dei suoi fratelli; meno timido, più forte, più audace. Imparava in fretta. Fece amicizia con gli uomini; capì quello che faceva loro piacere e quello che non gradivano, quello che volevano che facesse e quello che non volevano.

Divenne il famoso Fram, l’orso polare, orgoglio del circo Struschi e gioia dei ragazzi; l’orso gigantesco che si presentava solo nell’arena a svolgere il suo programma senza bisogno di domatore, che inventava ogni volta qualcosa di nuovo, e capiva lo scherzo e conosceva la pietà.

S’era dimenticato di quanto aveva lasciato lontano, nei deserti di neve e di ghiaccio, dove la notte durava sei mesi e il giorno altri sei: dove un giorno e una notte significavano un anno. Se n’era dimenticato. Mai il suo pensiero tornava lassù. Viveva fra gli uomini, era il loro amico, il loro favorito; sapeva leggere il desiderio e la gioia nei loro occhi; forse capiva anche i loro dolori nascosti, allo stesso modo che carezzava sempre e viziava i bimbi poveri della galleria.

Ora, all’improvviso, quel mondo così lontano nello spazio e nel tempo, si risvegliava in lui; e veniva a ricercarlo nel sogno.

E il sogno era sempre lo stesso.

Prima, una tenebra impenetrabile, una notte gelida e umida, in una caverna di ghiaccio. Là era nato Fram, nell’isola in mezzo al mare congelato; era nato di notte, e la notte dura la metà dell’anno. Il sole non nasce mai; nel cielo gelido brillano solo le stelle, e talora la luna. Ma per lo più regna una profonda oscurità, perché la luna e le stelle sono coperte da nubi; e la bufera trasporta vortici di neve ululando, gemendo e sibilando; il ghiaccio scricchiola: è una furia spaventosa che fa accapponare la pelle. Come tutti gli orsacchiotti, Fram era nato senza occhi; li aveva messi solo dopo cinque settimane.

Nella grotta, la tormenta non penetrava; si sentiva solo l’urlìo di fuori; ma c’era ghiaccio sotto, ghiaccio sopra, ghiaccio lucente sulle pareti. Dormiva appallottolato in un covo caldo caldo: la pelliccia dell’orsa lo copriva e lo riparava dalle punture del freddo.

Cercava col muso la sorgente di latte caldo del seno materno; si sentiva lavare dalla lingua, carezzare dalla zampa della mamma. Qualche volta si svegliava solo; l’orsa mancava. Era andata in cerca di cibo. Lui, tutte queste cose non le poteva capire. Si svegliava all’improvviso nel buio e nella solitudine; cominciava a gemere piano, a chiamare, a lamentarsi. Si spaventava della sua stessa voce. Stava atterrito e triste col muso schiacciato contro le pareti della caverna. Aveva freddo. Fuori, il ghiaccio esplodeva, la bufera rovesciava i grandi blocchi candidi; gli pareva di sentire dei passi. Si addormentava mezzo gelato. Si svegliava tardi, riscaldato, avendo goduto nel sonno una specie di felicità: la pelliccia calda era accanto a lui; accanto a lui la sorgente di latte; e una zampa morbida come la seta lo carezzava avvicinandoselo al petto. Capiva che era tornata la creatura grande e buona che lo proteggeva; e anche lui cercava di leccarle il muso, riconoscente; ma era così goffo e grullo! Allora non si rendeva conto di tutte le cure che gli prodigava la mamma, con quanta pena si allontanava da lui e che se ne andava solo quando era vinta dalla fame, in cerca di preda.

PICCOLA GUIDA BIBLIOGRAFICA

1) Opere di carattere generale:

LUPI, GINO, La letteratura romena, Firenze, Sansoni-Accademia ed., 1968;

LUPI, GINO, La letteratura romena, in U. DÈTTORE (a cura di), Le lettere (2 voll.), Milano, Bianchi e Giovini ed., 1944, vol. I, pp. 607-625;

MUNTEANU, BASIL, Storia della letteratura romena moderna, Bari, Laterza, 1947;

OTETEA, ANDREI (a cura di), Storia del popolo romeno, Roma. Ed. Riuniti, 1981;

ORTIZ, RAMIRO, Letteratura romena, Roma, Signorelli, 1941;

ORTIZ, RAMIRO, Manualetto rumeno, Modena, Soc. Tip. Modenese, 1945;

IORGA, NICOLAE, Storia dei Romeni e della loro civiltà, Milano, Hoepli, 1928;

POPESCU, MIRCEA, Storia della letteratura romena, in A.A. V.V.,Storia delle letterature del sud-est europeo, Milano, F.lli Fabbri ed., 1970.

A.A. V.V., La Romania, Milano, Teti & C. ed., 1976;

PRAMPOLINI, GIACOMO, Storia universale della letteratura (7 voll.), Torino, U.T.E.T., 1953, vol. VII, pp. 680-708;

PRAMPOLINI, GIACOMO, La letteratura della Romania, in Il Milione. Enciclopedia di tutti i paesi del mondo (12 voll.), Novara, De Agostini, 1968, vol. III, pp. 392-398;

LUGANI, VALERIO-MERCATALI, ROBERTO, La Romania, Milano, ed. Aristea, 1969;

GALATI, FRANCESCO LICINIO (a cura di), Dizionario della letteratura mondiale del ‘900 (3 voll.), Roma, Ed. Paoline, 1980; le "voci" sulla letteratura romena sono di Rosa Del Conte;

BURGIO, ALFONSO, Storia della letteratura (2 voll.), Milano, Vallardi, 1963;

DE MICHELI, MARIO (a cura di), Poeti romeni del dopoguerra, Parma, Guanda, 1967;

Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (12 voll.), Milano, Bompiani, 1983;

CELLETTI, MARIACHIARA, Letteratura rumena, in Pan. Enciclopedia Universale (10 voll.), Roma, Casini ed., vol. 8, pp. 561-566.

2) Opere di Cèzar Petrescu:

Intunecare, Bucuresti, Editura Minerva, 1976 (repere istorico-literare Rodica Rotaru);

Oras patriarhal, Bucuresti, Editura Pentru Literatura, 1961 (prefata de Mihai Gafita);

La sinfonia fantastica, Perugia, La Nuova Italia, 1929;

L’uomo del sogno, Ed. Istitutto per l’Europa orientale, 1929;

La vera morte di Guynemer, Firenze, Novissima ed., 1931;

La capitale (Calea Victoriei), Torino, U.T.E.T., 1935, 1965;

L’ombra che scende, Roma, ed. La Capitale, 1945;

Balletto meccanico, Roma, ed. La Capitale, 1946;

Il riso, Bari, Ed. Paoline, 1965;

Fram, l’orso polare, Milano, Ed. Paoline, 1966.

FRANCESCO LAMENDOLA

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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