
Coscienza storica e coscienza mitica, la posta in gioco
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Che peccato non aver avuto professori così
12 Giugno 2019L’uomo cristiano credeva nella Provvidenza; l’uomo moderno crede nel Progresso. Non ci sono punti d’incontro, né mediazioni possibili tra le due fedi; perché di fedi sui tratta, la seconda essendo un esplicito surrogato della prima. I cristiani moderni, che sono una contraddizione in termini, credono anch’essi nel Progresso, almeno nei fatti; a parole, forse, credono ancora, almeno in parte, nella Provvidenza. Però quello che conta sono i fatti; e i fatti sono che gli uomini moderni non hanno altra fede, se ne hanno una, che quella nel Progresso; altrimenti non credono in niente, e quindi, in effetti, sono solo dei nichilisti. Nel binomio cristiano moderno, è il secondo termine che prevale, necessariamente e fatalmente, sul primo; se prevalesse il primo, non avremmo a che fare con un cristiano moderno, ma semplicemente con un cristiano, il quale, quanto alla sua cittadinanza terrena, si trova a vivere nell’ambito della modernità, senza però appartenerle e senza aver fatto suoi gli elementi essenziali che la costituiscono, primo fra tutti il relativismo assoluto spacciato per pluralismo, dialogo e rispetto delle posizioni altrui. Il cristiano, in quanto cristiano, appartiene al Vangelo; e il Vangelo è eterno ed è fatto per l’eternità; dunque, il vero cristiano si considera cittadino dell’eternità e quando deve decidere cosa è bene e cosa è male, non guarda a come si regolano tutti, a quel che dicono gli altri e a ciò che stabiliscono le leggi (le leggi dicono, per esempio, che aborto, divorzio ed eutanasia sono cose perfettamente lecite), ma guarda alla parola di Dio così come l’ha insegnata il suo Figlio, Gesù Cristo, e non come la smercia la contro-chiesa dei nostri giorni, figlia della modernità e quindi, in ultima analisi, figlia di Satana. È lui, infatti, il Diavolo, che ha insegnato ai gesuiti la misera astuzia di voler aggiornare e adeguare il messaggio del Vangelo al linguaggio dell’uomo moderno, dicendo, però, di non volerne modificare i contenuti: perché quell’aggiornamento non è, e non può essere altro che un tradimento, e quell’adeguamento è precisamente lo stratagemma escogitato allo scopo di cambiare i contenuti, ossia la dottrina, ma senza avere l’onestà di dichiararlo.
Ma in che cosa consiste, esattamente, la differenza fra le due fedi, quella nella Provvidenza e quella nel Progresso? La fede nella Provvidenza è la fede nella volontà di Dio: l’abbandono fiducioso ad essa, senza la pretesa di poterne penetrare il segreto; la fiduciosa certezza che il mondo è nelle mani di Dio, la storia e il tempo sono nelle mani di Dio, tutto è nelle mani di Dio, dal filo d’erba alla galassia; e che niente, assolutamente niente, neppure la caduta della piuma d’un passero, può accadere contro la volontà di Dio. Il che non significa, evidentemente, che tutto ciò che accade corrisponde perfettamente alla sua volontà: il male non è ciò che Dio vuole, ma ciò che Dio permette, in taluni casi, per non soffocare il dono più grande che Egli ha fatto all’uomo: l’intelligenza, e, insieme ad essa, il suo necessario corollario, la libertà del volere. Se l’uomo volesse sempre il bene, non sarebbe più uomo, sarebbe angelo; ma l’uomo non è angelo (e, del resto, gli Angeli stessi ebbero la libertà, e quindi la possibilità di ribellarsi, e una parte di essi lo fece; da allora, invece, tutta la loro intelligenza e la loro volontà si son fatte docili strumenti, definitivi e inalterabili, del Volere divino). Bisogna distinguere pertanto fra ciò che Dio vuole e ciò che Dio permette: la permissione non è la stessa cosa della volontà; resta comunque vero che tutto ciò che accade, accade o per volontà, o con la permissione di Dio. E ciò è misterioso; e, senza il dono della fede, non di rado è anche scandaloso: come altrimenti giudicare il trionfo apparente dei malvagi e la disfatta apparente dei buoni? È la fede che aiuta il credente ad accettare simili cose: la fede nella superiore Intelligenza di Dio e nella perfezione assoluta del suo Amore per gli uomini. Dio sa quello che fa, e ci conosce sino in fondo all’anima; noi no, non sappiamo neppure ciò che è bene per noi stessi, e continuamente c’inganniamo, imboccando strade sbagliate e rinnovando in continuazione errori sopra errori, traviati dalla concupiscenza e dall’ignoranza, che accendono, a loro volta, la lussuria, la superbia e l’avidità.
Sull’alternativa fra Provvidenza e Perogresso, osservava Karl Löwith (Monaco di Baviera, 1897-Heidelberg, 1973) nel suo saggio Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia; traduzione di Flora Tedeschi Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1963; prefazione di Pietro Rossi, Milano, Il Saggiatore, 1989; Milano, EST, 1998):
Il principio hegeliano della traduzione secolare del principio cristiano "nella forma della ragione umana e della libertà" è comune a tutte le filosofie della storia dell’Illuminismo. Tuttavia Hegel si distingue dai suoi predecessori come dai suoi discepoli radicali per aver ricondotto il concetto teologico del compimento del tempo attraverso Cristo alla fede illuministica nel progresso. Nella sua filosofia della storia il progresso non è rivoluzionario: esso tende alla peretta elaborazione e perfezione di un principio in sé compiuto dell’intero processo storico. Per il razionalista tipico del secolo XVII e del secolo XVIII il progresso rappresenta invece un illimitato progredire verso una sempre maggiore razionalità, libertà e felicità, poiché il tempo non è ancora compiuto.
J. B. Bury, nel suo volume "The Idea of Progress", ha posto in luce come essa sorga nel secolo XVII per svilupparsi in una generale visione del mondo. La fede in un progresso terreno e illimitato si sostituisce sempre più a quella nella provvidenza di un dio trascendente. "Gli uomini non poterono costruire una teoria del progresso, finché non si sentirono indipendenti da una provvidenza". Ma infine proprio l’idea del progresso doveva assumersi la funzione della provvidenza, cioè quella di prevedere e di provvedere per il futuro.
Il problema del progresso, anzitutto nel campo delle arti e delle scienze, fu posto per la prima volta nelle "querelle des anciens et des modernes" e successivamente discusso per più di un secolo in tutta Europa da uomini come Fontenelle, Vico, Swift e Lessing. La distinzione tra "moderni" e "antichi" riguardò dapprima la problematica superiorità dei moderni sull’antichità classica, ma apparentemente ignorò la questione se essi fossero progrediti anche rispetto al cristianesimo. Un esame più approfondito di queste discussioni sui vantaggi e gli svantaggi dell’antichità mostrava comunque che il loro problema centrale era la distinzione tra antichità pagana e cristianesimo, tra ragione e rivelazione. E quando la moderna idea del progresso divenne la religione degli uomini di cultura, la modernità fu intesa in antitesi tanto all’antichità classica quanto al cristianesimo, che di per se stesso rappresentava già un progresso rispetto all’antichità. Condorcet, Comte e Proudhon non si pongono più sul serio la questione se i moderni abbiamo superato gli antichi: per essi il problema consiste piuttosto nel superamento e nella sostituzione delle dottrine fondamentali e del sistema sociale della Chiesa cristiana. Nello stesso tempo essi erano consapevoli che il progresso della rivoluzionaria età moderna non è semplicemente un’immediata conseguenza delle nuove conoscenze scientifiche e storiche, ma è mediato dal cristianesimo che supera il paganesimo classico introducendo per la prima volta nella storia occidentale l’idea del progresso, precisamente dall’Antico al Nuovo Testamento. In conseguenza di questa dipendenza originaria dell’idea del progresso dal cristianesimo, la sua accettazione moderna è equivoca: cristiana nella sua origine, anticristiana nella sua tendenza. Mentre il punto di partenza della moderna religione del progresso è l’attesa escatologica di un compimento futuro, alla luce del quale l’umanità è vissuta finora in stato di corruzione, negli scrittori classici — anche quando descrivono la decadenza di Atene o di Roma — non si trova mai una simile disperazione e una simile speranza.
Le interpretazioni della storia in termini di progresso e di decadenza, da Voltaire e Rousseau fino a Marx e a Sorel, sono il tardo ma ancor valido prodotto della teoria biblica della salvezza e della perdizione. Alla riflessione storica classica rimase estranea questa interpretazione escatologica del divenire in riferimento a un giudizio e a una redenzione finale.
Senza dubbio la querelle des anciens et des modernes anticipa la dialettica fra Provvidenza e Progresso e ne è quasi la prova generale, nel senso che istituisce un implicito raffronto fra il cristianesimo e la modernità, il che ci permette di retrodatare i suoi prodromi al XVII secolo. Perciò il cambio di paradigma è in corso da quattro secoli; se poi vogliamo andare alle sue radici, si deve risalire fino al XIV secolo, cioè alla tarda Scolastica e a Guglielmo di Ockham. D’altra parte, bisogna tener presente che il cambio di paradigma ha investito i popoli europei solo relativamente tardi; nel complesso, e specialmente nelle campagne, essi sono rimasti legati al vecchio paradigma, cioè alla concezione cristiana, sia pure in forme sempre più impoverite e incoerenti, fino alle soglie della piena modernità, che si è affermata con l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la diffusione di una mentalità liberale e materialista, sempre più venata d’indifferentismo e di edonismo. Ad accogliere il nuovo paradigma sono state le élites: quelle dell’umanesimo pagano nel XIV secolo, poi quelle del naturalismo rinascimentale (clero compreso: Bruno e Campanella erano frati domenicani); indi, dalla prima metà del XVI secolo all’inizio del XVIII, quelle del libertinismo, che fin dal 1525 godevano, in Francia, della protezione della sorella del re Francesco I, Margherita d’Angoulême. Eppure, ancora nel XIX secolo, la mentalità illuminista, libertina e progressista non aveva fatto breccia che in una parte dell’aristocrazia e in alcuni settori della grande e media borghesia; restava però quasi del tutto estranea alle masse popolari, specie in ambito rurale. Perché la fede nel Progresso cominciasse a penetrare negli strati più bassi e più numerosi della società, era necessario che incominciasse a diffondersi un certo benessere, o, quanto meno, una certa aspettativa di benessere: infatti sin dall’inizio l’ideologia del Progresso, ufficialmente adottata dai philosophes illuministi, si era fatta banditrice di una nuova promessa, quella della felicità. Prima, però, era necessario che il quadro di riferimento spirituale e morale dei popoli europei venisse preso d’assalto e letteralmente scardinato dagli effetti della Rivoluzione industriale. Fu solo con il trasferimento forzoso delle masse contadine nei centri urbani e con la sostituzione della famiglia mononucleare alla famiglia patriarcale estesa, e con il trauma di un inserimento selvaggio nella realtà urbana e nel sistema di fabbrica, che i popoli d’Europa persero irrimediabilmente la sostanza della fede religiosa e, pur conservandone il guscio ormai vuoto, si aprirono alle sirene del nuovo paradigma, che, in cambio della miseria e dell’abbrutimento presenti, prometteva un avvenire migliore e addirittura una futura felicità, quale mai essi avevano sognato o sperato. Infatti il nuovo paradigma, largo di promesse, moltiplicava i richiami a una serie di diritti del cittadino, senza ricordare con sufficiente chiarezza che a ogni nuovo diritto non può che corrispondere un nuovo dovere, e in tal modo operò un gigantesco inganno, dando a intendere che il futuro avrebbe portato sempre più diritti, sempre più benessere e sempre memo doveri e sacrifici. Il cristianesimo, invece, era sempre stato molto franco e leale nella sua pedagogia: non aveva mai promesso nulla d’impossibile; non aveva mai detto, o anche solo suggerito, che un bel momento tutte le miserie verranno sanate e che vi sarà la realizzazione del Regno di Dio sulla terra; al contrario, ha sempre ricordato ai fedeli che il regno di Dio non è di questo mondo, anche se in questo mondo, nella vita terrena con le sue ombre le sue luci, ha inizio la sua costruzione. Nella società italiana del Settentrione, la piena modernizzazione è arrivata all’indomani della Seconda guerra mondiale, quando gli animi erano provati dall’esperienza traumatica di un conflitto senza precedenti, ed è venuta così a colmare un vuoto non solo materiale, costituito dalla miseria e dall’emigrazione, ma anche e soprattutto morale e spirituale; in quella del Meridione non è arrivata neppur oggi, se non nelle forme spurie e aberranti che sono proprie di un fenomeno d’importazione cui la società locale non partecipa affatto, se non per cercar di adattarvisi. Il che non va letto solo in senso negativo, perché il rovescio della medaglia è che, quando si verifica questa situazione, continuano a sopravvivere come luci nella notte, gli ultimi bagliori del paradigma precedente. Nell’Italia rurale, la religiosità popolare ha resistito più a lungo; non è un caso che l’ultimo grande santo del XX secolo sia stato un uomo del profondo Sud, padre Pio da Pietrelcina. Padre Pio non è immaginabile nella Milano o nella Torino del boom; e la sua religiosità ascetica, mistica, sofferta, non è conciliabile con lo "spirito" conciliare. Egli vedeva bene da dove arrivava il pericolo e aveva chiesto e ottenuto di poter celebrare la Messa in latino, fino all’ultimo dei suoi giorni. Ecco perché i teologi contemporanei, per non parlare dei cardinali e dei vescovi bergogliani, non parano mai di lui. Padre Pio, contadino del Sud pieno di un fervore spirituale battagliero e intransigente, vedeva la vita come una perenne lotta fra il bene e il male; credeva nella Provvidenza e non nel Progresso. E come dargli torto? Perfino l’ateo Leopardi, centocinquanta anni prima, non credeva al Progresso, né alla sua promessa di felicità. E perché dovrebbe crederci un cristiano oggi, se non perché è diventato un cristiano moderno, cioè un cristiano che si è arreso alla modernità?
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