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La vita cristiana è tutta nella lotta con l’Angelo

Il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato, ammoniva Pio XII in anni non sospetti, vale a dire settant’anni fa, ben prima che andasse in voga la teologia della misericordia a buon mercato del signore argentino che si è travestito da papa (nel radiomessaggio a conclusione del Congresso Catechetico degli Stati Uniti, Boston, il 26 ottobre 1946). E anche prima che Paolo VI – proprio lui, l’amico dei massoni, e massone lui stesso! – lanciasse il suo grido d’allarme sul fumo di Satana che si era infiltrato in Vaticano: dopo che la Chiesa stessa gli aveva aperto le porte, a partire dal conclave del 1958. La perdita del senso del peccato è, quindi, un problema che da molto tempo interroga la coscienza di credenti; ed è ben strano, e altamente significativo, che solo adesso un certo numero di essi se ne sia reso conto e vada cercando delle possibili spiegazioni, quando il fatto era lì, sotto gli occhi di tutti, e un grande papa, come Eugenio Pacelli, lo aveva posto all’ordine del giorno, richiamando su di esso la riflessione di tutti i cattolici pensosi della serietà della loro fede.

Nel suo celebre romanzo Morte, dov’è la tua vittoria?, lo scrittore cattolico Henri Daniel Rops (1901-1965), accademico di Francia, faceva dire a uno dei suoi personaggi, l’abate Pérouze, queste parole (titolo originale: Mort, òu est ta victoire?*, 1934; tradizione dal francese di Flavio Quaranta, Milano, Rizzoli, 1994, p. 186):

La sola vita è quella che ci viene dalla lotta per la nostra anima, la lotta contro l’angelo. Gli uomini di oggi disprezzano questa verità essenziale dell’essere che si vince, che si sorpassa. Hanno bandito il peccati dalla loro vita e dai loro libri, perché si sono perduti in lui, nel fiume fangoso senza sapere dove si dibattono. E invece si legano, si legano

La verità essenziale del’essere che si vince e si sorpassa era dunque oggetto di disprezzo da parte di molti, cattolici compresi, a giudizio di uno scrittore che ne parlava prima ancora di Pio XII, al principio degli anni ’30 del XX secolo: e siamo già risaliti indietro di quasi novant’anni. Dunque, sono almeno tre generazioni che i credenti, se sono disposti a guardarsi intorno, e soprattutto a guardarsi dentro, possono vedere in cosa consiste il problema essenziale della fede nel mondo contemporaneo: il progressivo smarrimento, l’attenuazione e infine la perdita del senso del peccato. Attenzione: bisogna guardarsi dalla frettolosa impressione che un simile evento sia semplicemente il frutto della progressiva secolarizzazione della società, del graduale, inesorabile distacco degli uomini dal Vangelo di Gesù Cristo, che si riflette e si ripercuote anche tra le file dei credenti. No, qui siamo in presenza di qualcosa di più profondo, e soprattutto di più malefico: se il tessuto della Chiesa, se la fede dei credenti si fossero conservati integri, non si sarebbe arrivati a questo punto; infatti, cosa si può immaginare di più devastante, di più contraddittorio, di più innaturale, per un credente, che smarrire il senso del peccato? Se si verifica una cosa del genere, non si tratta di un malessere periferico e secondario: è una malattia morale, che colpisce al cuore la fede e che è suscettibile di discutere e distruggere l’itero edificio della Chiesa. Che fede è, una fede che sia stata sbarazzata del senso del peccato? Se il peccato non viene più percepito come tale, allora la morale cattolica è stata tutto uno sbaglio, un errore, un malinteso; allora i credenti, per duemila anni, si sono affannati vanamente intorno a una cosa assurda e patetica, la ricerca della santità, e hanno combattuto contro un nemico evanescente, se non addirittura immaginario, il diavolo. La perdita del senso del peccato è la sciagura più grande che possa colpire la Chiesa, molto peggiore di una persecuzione scagliata dall’esterno, per quanto crudele e sistematica; e un clero che vi assista passivamente, senza reagire con tutte le sue forze, vuol dire che ha smarrito il senso della sua missione e ha abdicato al suo dovere, vuoi per debolezza, vuoi per complicità col mondo.

Henri Daniel-Rops, nel brano sopra citato, fa riferimento a un episodio misterioso dell’Antico Testamento,m che ha affascinato molti artisti ed è stato raffigurato in un gran numero di tele e di affreschi: la lotta di Giacobbe cin un Angelo del Signore, protrattasi per tutta la notte, oltre il guado del torrente Iabbok, presso Penuel (Genesi, 32, 25-32):

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!».  Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca.

Perché Giacobbe ha lottato con l’Angelo, per tutta la notte, fino allo stremo delle forze, e ne ha riportato una slogatura del femore, ma infine ha strappato la vittoria? Per ottenere una benedizione. Questo episodio pertanto vuol farci capire che la vita del credente è impegno, militanza, lotta, e prima di tutto lotta con se stesso, lotta senza quartiere per ottenere la benedizione del Signore. E chi può sperare di ottenere la benedizione del Signore, se non colui che è pronto e disposto a tutto pur di fare la Sua volontà, di lasciar andare il proprio io e di arrendersi alla potenza del Suo amore? E che altro è il peccato, se non l’adorazione del proprio io e il disprezzo dell’amore di Dio, il rifiuto di fare la sua volontà? Dunque la lotta di Giacobbe con l’Angelo è la lotta del credente contro le proprie passioni disordinate, contro la parte inferiore di se stesso, che brama le cose carnali, le cose di quaggiù, e non si cura delle cose eterne, della beatitudine celeste. Ma allora la vita è lotta, è rischio, è impegno totale; non è una passeggiata di piacere, non è un continuo indulgere alle proprie umane debolezze: è uno sforzo per superarsi, per oltrepassarsi. Aveva visto giusto Nietzsche, dopotutto, assai più di tanti altri spiriti moderni inebriati dall’edonismo banale e materialista; solo che non aveva compreso che l’uomo non si può oltrepassare da se stesso: sarebbe uno sforzo vano e impossibile, paragonabile alla pretesa del Barone di Münchhausen di tirarsi su, con tutto il cavallo, dal fango della palude in cui è sprofondato, afferrandosi, per i capelli e facendo forza con le braccia. Come potrebbe l’uomo essere piedistallo a se stesso? Come potrebbe puntare in alto, facendo forza sulla terra, lui che è fatto per aspirare al cielo? Come potrebbero, i suoi piedi, poggiare sul terreno solido e sorreggere tutto il peso della sua persona, tutta la tensione del suo slancio, se la terra è proprio ciò che lo trattiene in basso, che gli tarpa le ali e lo costringe a sentire tutto il peso di se stesso? La lotta di Giacobbe con l’Angelo ci ricorda che, per ottenere la benedizione del Signore, bisogna gettarsi allo sbaraglio, bisogna odiare le proprie comodità, bisogna disprezzare tutto ciò che ci suggerisce l’istinto della viltà, del risparmio, della prudenza malamente intesa. Dio non sa che farsene degli spiriti tiepidi, calcolatori, professionisti del temporeggiamento: no, Lui vuole degli spiriti eroici. Ci vuole eroi; ci vuole santi; oppure non ci vuole. Non si accontenta d’averci a metà, perché è come un amante geloso: ci vuole per Sé fino in fondo, in ogni nostro pensiero, in ogni nostra fibra, senza riserva alcuna. Chi cerca Dio, ma con cautela; chi vuol fare la Sua volontà, ma con riserva; chi è pronto a darsi a Lui, però alle proprie condizioni, non è pronto a lottare con l’Angelo, e dunque non è che un inciampo a se stesso, un pozzo prosciugato nel deserto, un coltello senza lama. A chi o a che cosa può servire? A nulla. Trascorrerà i giorni e gli anni della sua vita credendo d’aver fatto chissà cosa, ma non avrà fatto nulla, non avrà progredito d’un millimetro sulla strada che a ciascuno è data. Potrà anche aver fatto grandi cose agli occhi degli uomini; potrà aver riportato trionfi, aver riempito i suoi forzieri, aver strappato l’applauso delle folle: ma agli occhi di Dio sarà una delusione totale, una promessa mancata. Avrà fallito il suo scopo e non se ne sarà neppure accorto, perché avrà messo a tacere la voce salutare del rimorso, la voce stessa di Dio che ci richiama al nostro compito; perché ciascun uomo ne ha uno, fatto per lui.

Ed eccoci arrivati alla responsabilità gravissima di una chiesa, quella dei nostri giorni, che ha smesso di lottare con l’Angelo; che ha smesso di esortare i fedeli alla lotta con l’Angelo; che ha smesso di cercare, di chiedere, di pretendere, la benedizione del Signore; che si rifiuta addirittura d’impartire la benedizione ai fedeli, in nome di un assurdo fraintendimento del rispetto della libertà religiosa, che si traduce in un vero e proprio tradimento delle pecorelle del gregge di Cristo. Eccoci arrivati al nodo di un clero, di una classe di teologi, di una cultura "cattolica" che non solo non pensano affatto a lottare con l’Angelo, per strappare la benedizione dell’Altissimo, ma che, tutto al contrario, inseguono il mondo, le sue passioni, ciò che è importante per esso e non per Dio; e intanto, di Dio, hanno quasi smesso di parlare, se non come pretesto per le loro tirate politiche, sociologiche, ambientaliste ed ecologiste, e per le loro ossessionanti filippiche a favore dei cosiddetti migranti e della cosiddetta chiesa dei poveri. Per causa loro, la chiesa è diventata davvero una chiesa povera: ma non nel senso positivo da essi auspicato, bensì nel senso d’impoverita, inaridita, rattrappita, consunta, de-spiritualizzata e perfino desacralizzata. Una "chiesa" che non è più la Chiesa, non è più la Sposa del Signore Gesù; una "chiesa" dove i vescovi cattolici si fanno imporre le mani e si fanno benedire dai sacerdoti della Macumba, i quali li autorizzano a praticare i riti diabolici del maleficio e del satanismo; espongono striscioni arcobaleno sulle facciate delle loro chiese, per inneggiare al femminismo, all’omosessualismo e al transessualismo, il tutto in nome di Dio; espongono dentro le chiese dei crocifissi ruotanti come le lancette di un orologio, e rane crocifisse al posto del Cristo in croce, secondo una precisa simbologia satanica; e dove i "teologi" vanno blaterando che Cristo è solo un profeta, che tutte le religioni sono buone e vanno bene, che tutti saranno perdonati, Giuda Iscariote compreso, e che nessuno ha il diritto di giudicare alcunché; che basta la propria coscienza per distinguere il bene dal male, e che il reiki, la psicanalisi, la magia, l’animismo e l’ateismo radicale e massonico sono tanto degni di stima quanto, se non più, della fede "clericale", ottusa e bigotta nel Dio di Gesù Cristo. Altro che lotta con l’Angelo: qui siamo nel bel mezzo della lotta col diavolo; e per chi pretende di ricevere la benedizione del diavolo, si sa bene come andrà a finire. Giungiamo così alla sconcertante conclusione che i sacerdoti di quella che si fa ancora chiamare la chiesa cattolica, in realtà sono i servi della sinagoga di Satana; che i servili adulatori dell’impostore sudamericano sono paragonabili ai sevi della Bestia dell’Apocalisse, e che se il segno della lotta con l’Angelo è stato, per Giacobbe, il femore slogato, che lo ha reso zoppicante per tutta la vita, il segno della bestia è impresso sulla fronte di questi osceni adoratori dell’Anticristo, dell’uomo malvagio dallo sguardo di ghiaccio, che non piega mai le ginocchia di fronte a Dio ma si prostra fino a terra, col sedere all’aria, per baciare le scarpe degli uomini, possibilmente islamici e di colore.

Sono cose gravissime, lo sappiamo, quelle che abbiamo detto; e tuttavia, se non le dicessimo noi, le griderebbero i sassi. Fino a quando lo scandalo dovrà andare avanti, sfruttando la timidezza o il senso dell’obbedienza dei cattolici, una volta che appare evidente come non ci troviamo più di fronte alla Chiesa fondata da Gesù Cristo per la salute delle anime, bensì di fronte a una entità degenerata, mostruosa, completamente dominata dalla massoneria e perciò nelle mani dei nemici di Cristo e del suo Vangelo? Fino a quando permetteremo, col nostro silenzio e a causa di un desiderio comprensibile, ma erroneo, di non aggravare lo scandalo, lo scempio che si sta perpetrando sotto i nostri occhi, la profanazione inaudita della religione fondata da Gesù, consentendo ai falsari e ai mistificatori di seguitare a spacciarsi per dei veri ministri consacrati, ingannando le anime e trascinandole non già verso Dio, ma verso il diavolo? Guai a noi se non parlassimo; guai a noi se non denunciassimo l’impostura, il tradimento e il sacrilegio! Saremo cacciati fuori, saremo calunniati in ogni modo, saremo perseguitati; ci getteranno addosso il ricatto morale di voler spaccare la chiesa, di voler creare turbamento e confusione. Ma non subiremo questo ricatto, non ci lasceremo zittire per amor di quieto vivere. Li costringeremo a uscire allo scoperto, a far vedere che essi, e non noi, stanno deviando dalla retta via e falsificando la Parola del Signore. Li sfidiamo sin d’ora a mostrare dove noi stiamo sbagliando; in che cosa ci siamo scostati dal millenario Magistero della Chiesa; in che cosa stiamo alterando e travisando la divina Rivelazione. E se essi non potranno convincerci d’errore, allora sarà palese da che parte sta l’eresia e chi è il lupo travestito da pastore…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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