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Quando Cocteau, gay e oppiomane, flirtava coi nazi

C’è qualcosa che non quadra nella versione politically correct dell’atmosfera culturale che regnava in Europa negli anni ’30 e nei primi anni ’40, compresa quella dei Paesi occupati, nella prima fase della Seconda guerra mondiale, dalle potenze dell’Asse. Ci è stato detto che l’Italia fascista e, a maggior ragione, la Germania nazista rappresentavano, dal punto di vista culturale, una evidente e penosa regressione, una chiusura autarchica pressoché totale, un rifiuto delle avanguardie, dello sperimentalismo, della modernità nelle sue forme più innovatrici e propositive, mente la vivacità intellettuale, la freschezza inventiva, la duttilità e l’apertura verso ogni forma di esperienza nuova erano appannaggio delle democrazia antifasciste, quindi della cultura inglese e soprattutto francese, ma non quella del 1940-44, bensì quella anteriore, quando Parigi era la bandiera della libertà contro Roma e Berlino, che rappresentavano l’oscurantismo e il cieco ritorno al buio passato (romano per l’Italia, pagano per la Germania). Eppure, quando poi si va a vedere, sul terreno concreto dei fatti, se la realtà combaci, e in quale misura, con questo cliché preconfezionato, che a tutti gli europei è stato somministrato, in dosi industriali, dai banchi della scuola elementare fino alle aule dell’università, si scopre, non senza sorpresa, che i fatti hanno la strana propensione a non lasciarsi affatto ingabbiare in codesto schema; che mostrano perfino la capricciosa tendenza a discostarsene alquanto; e che non sono affatto rari quelli che lo smentiscono in pieno e non possono esser presentati come eccezioni, ma che, se anche lo fossero, sarebbero già sufficienti a mostrare come il paradigma del politicamente corretto non tiene, è solo una mistificazione creata a posteriori dai vincitori della Seconda guerra mondiale: cominciando dai grandi vincitori esterni, innanzitutto i banchieri di Londra e di New York, e finendo coi piccoli e misteri "vincitori" interni, le mani sporche del sangue di cento guerre civili, cioè quegli europei che hanno scelto di stare dalla parte dei primi e di farsi loro seguaci nel tener buoni e sottomessi i loro compatrioti, smerciando la favoletta a buon mercato di un’Europa libera e felice che il mostro nazi-fascista minacciò di distruggere, ma che è risorta gloriosamente dalle rovine del ’45, tenuta a battesimo da quei mecenati totalmente disinteressati che furono Roosevelt, Churchill e Stalin, e gloriosamente avviata verso le magnifiche sorti e progressive che si sono sviluppate per decenni e proseguono tuttora, nel clima di democrazia e libertà di cui oggi godono i liberi e felici popoli d’Europa.

Prendiamo il caso della Francia, sia della Repubblica di Vichy, quella apertamente filotedesca e collaborazionista del maresciallo Pétain, sia anche quella direttamente sottoposta all’occupazione germanica, con la dolce Parigi che seguitava pur sempre ad essere la capitale intellettuale e artistica del continente, anche all’ombra della svastica che garriva dall’alto della Tour Eiffel. Che cosa si potrebbe immaginare di più lontano, di più repulsivo per la concezione nazista dell’arte, delle avanguardie come il surrealismo; e cosa si potrebbe immaginare di più sgradevole e più intollerabile per gli artisti germanici tradizionalisti, come Arno Breker, lo scultore prediletto di Hitler, l’autore dei possenti eroi del rinato germanesimo, tutti muscoli michelangioleschi e fierezza ariana, di artisti sessualmente invertiti e scandalosamente impudichi, nonché oppiomani, come Jean Cocteau (1889-1963), il cui stile di vita era un oltraggio vivente all’austera morale teutonica e le cui frequentazioni avrebbero potuto riempire i baveri delle giacche di triangoli rosa, e rinfoltire gli ospiti dei campi di concentramento d’oltre Reno? Si direbbe che un tipo così, dal punto di vista delle concezione artistica e intellettuale nazista, fosse la perfetta incarnazione vivente dell’arte degenerata. Eppure Arno Breker (1900-1991), fra gli altri, fu un amico personale e un estimatore del poeta surrealista e dichiaratamente omosessuale Jean Cocteau; e Cocteau, a sua volta, fu un convinto fautore dell’amicizia e della solidarietà artistica e intellettuale fra i due popoli, ed esortò i suoi connazionali e vedere nella patria di Breker e di Ernst Jünger — il quale ultimo non era nazista, ma neppure antinazista, e che negli anni dell’occupazione fu di guarnigione a Parigi — un valido interlocutore nella costruzione di una patria comune europea, che scavalcasse, in nome dei valori artistici e intellettuali, le barriere di tipo politico; mentre altri scrittori, come Céline, si spingevano assai oltre, esortando i tedeschi a far piazza pulita della marmaglia ebraica, o celebrando le SS quali cavalieri dell’ideale, come Brasillach e Drieu La Rochelle. Tutte cose che, dopo la "liberazione" di Parigi, sono state precipitosamente archiviate e scrupolosamente nascoste, in modo che i francesi e tutti gli europei educati a partire dal 1944, ignorassero questo lato della storia culturale del loro continente, e credessero ciecamente che con lo sbarco in Normandia era rinata la civiltà europea, dopo che per quattro lunghi anni essa era stata oscurata e negata dalla barbarie nazi-fascista.

Queste osservazioni acquistano ancor più forza se i fatti in questione sono ammessi e riconosciuti, sia pure con un cero imbarazzo e, ovviamente, relegati a singole eccezioni, dagli esponenti della cultura politically correct, democratica e antifascista quanto basta per essere al di sopra di qualsiasi sospetto di revisionismo o di simpatie destrorse. Un buon esempio di ciò è offerto dal massiccio studio di 730 pagine dello storico britannico (classe 1958, discendenza ebreo-russa) Mark Mazower, L’impero di Hitler. Come i nazisti governavano l’Europa occupata (titolo originale: Hitler’s Empire. Nazi Rule in Occupied Europe, 2008; traduzione dall’inglese di Francesca Gimelli, Milano, Mondadori, 2010, pp. 445-447; 449):

Le ambiguità del collaborazionismo emergono ancora più nette nel regno delle arti, perché in questo ambito i tedeschi lasciarono ai francesi molto spazio. La Parigi occupata non era solo un luogo di code, razionamento e ansia, ma anche (soprattutto nei primi anni di guerra) un centro in forte espansione di attività editoriale, sfilate di moda, prime cinematografiche e gallerie d’arte. Con la sua permissività l’occupazione tedesca alzò la posta in gioco per l’identità della cultura nazionale francese, scatenando tra conservatori e modernisti feroci battaglie sulla natura dell’arte e il potere della censura. Pur continuando a impersonare il ruolo di oppressori (quantomeno per chi era escluso dalla loro tutela per motivi razziali), i tedeschi riuscirono a imporsi anche come protettori di artisti e poeti. La guerra di Jean Cocteau illustra molti di questi paradossi. Il famoso surrealista, omosessuale e oppiomane era il simbolo della decadenza e della corruzione presi di mira da Vichy. I razzisti di estrema desta di Parigi avevano molti motivi per detestarlo, perché alla vigilia della guerra aveva firmato una petizione proposta dalla Lega internazionale contro l’antisemitismo, e prima ancora era diventato famoso per aver organizzato gli exploit di Panama Al Brown, un brillante peso gallo che fu il primo campione del mondo ispanico nella storia della boxe. Potremmo dunque aspettarci che la storia della guerra di Cocteau fosse un episodio di resistenza modernista contro i filistei del collaborazionismo. E per molti ersi fu proprio così, poiché Cocteau tentò in tutti i modi di resistere a Vichy e al suo coro violento di fascisti parigini, ma trovò alcuni dei suoi più fedeli alleati fra i tedeschi. D’altra parte, era forse sorprendente? Nel pensiero di Cocteau anche i tedeschi potevamo essere artisti e solo animi meschini non riuscivano a capire che i valori dell’arte erano superiori alla nazione.

L’occupazione e Vichy rappresentavano due enormi sfide per la carriera di qualsiasi ambizioso artista francese. Alla fine dell’agosto 1941, proprio quando i primi rastrellamenti spedivano migliaia di ebrei parigini nel campo d’internamento di Drancy, Cocteau sembrò entrare in conflitto con la censura di Vichy. Dopo che i responsabili della cultura ebbero vietato la sua nuova commedia, "La macchina da scrivere", l’autore reagì cercando mecenati e protezione, come aveva sempre fatto anche in passato. E a chi rivolgesi contro le autorità di Vichy, se non agli stessi tedeschi, specie quando tra i loro funzionari vi erano personaggi come lo scrittore Ernst Jünger, nota icona di una destra divenuta critica nei confronti del nazismo? E proprio grazie a Jünger e al suo collega Gerhard Heller, un appassionato studente di letteratura francese, Cocteau riuscì a far togliere il bando di Vichy. I suoi censori francesi si sentirono oltraggiati. Dopo l’autorizzazione della produzione di un’altra delle sue commedie, presero in mano la situazione: i fascisti di Deloncle, che avevano appena tentato di fare saltare le sinagoghe di Parigi, irruppero nel teatro e aggredirono gli attori. La lotta con gli ultras proseguì anche dopo che gli uomini di Deloncle furono tenuti a freno. Quando il ministro dell’Istruzione di Vichy liquidò una delle sue opere come "inopportuna". Cocteau tenne una lettura ai suoi amici tedeschi per vedere cosa ne pensavano: ne furono entusiasti. Sembrava più facile, scrisse l’editore Gaston Gallimard comunicare con i "buoni tedeschi" che con i "cattivi francesi". L’ambasciatore tedesco Otto Abetz e la sua moglie francese furono molto più calorosi del romanziere francese di destra Céline, che lasciò stupefatti i tedeschi con la violenza dei suoi attacchi contro i propri compatrioti. Dopo le piacevoli conversazioni con Cocteau e la visita a Picasso nel suo studio, Ernst Jünger, tutt’altro che un liberale, era rimasto scioccato da Céline e dal suo "stupore che noi, soldati, non spariamo agli ebrei, che non li impicchiamo o li sterminiamo, il suo stupore che chi ha le baionette rifiuti di usarle allo scopo".

(…) Cocteau aveva molto di cui essere grato. Era l’appoggio tedesco a proteggerlo dagli estremisti francesi. Poco interessato alla politica, mostrava quanto fosse semplice per un creatore di miti dalla mentalità indipendente praticare le arti sotto l’occupazione, anzi, con il sostegno tedesco. Con l’approvazione dei censori, la guerra vide decollare la sua carriera come regista cinematografico. Quando una rivista di destra pubblicò un articolo dei denuncia nei suoi confronti, lui annotò che "tutti i tedeschi ne ridevano".

La ricostruzione di Mark Mazower, che abbiamo riportato solo in parte, è esatta, ma, trattandosi comunque di una ricostruzione rigorosamente politically correct, non sono coerenti, né del tutto oneste, le conclusioni. Il fatto che Cocteau — poeta, romanziere, saggista, drammaturgo, attore, sceneggiatore, regista cinematografico, librettista, disegnatore — non abbia trovato alcun ostacolo, da parte degli occupanti tedeschi e della critica tedesca, alle opere e alle attività che dispiegava, con vulcanica irruenza, in una decina di ambiti differenti, e ciò ad onta della sua omosessualità e della sua dipendenza dall’eroina, ma abbia incontrato, semmai, l’ostilità e il disprezzo di parecchi francesi, contro i quali chiese e ottenne la protezione dei nazisti, avrebbe dovuto suggerire un ulteriore ampliamento della prospettiva storiografica (e si tenga presente che quello di Cocteau è solo uno dei molti casi d’intellettuali di un certo peso che avremmo potuto citare). Quando Mazower si chiede, enfaticamente, se tale situazione in apparenza paradossale fosse davvero sorprendente, giunge a un passo dalla giusta interpretazione di quei fatti; ma immediatamente si tira indietro con una lettura minimalista e tranquillizzante dell’increscioso fenomeno, liquidandolo con uno sbrigativo giudizio di tipo minimalista: Nel pensiero di Cocteau anche i tedeschi potevamo essere artisti e solo animi meschini non riuscivano a capire che i valori dell’arte erano superiori alla nazione. Come se si fosse trattato solo di un caso isolato, spiegabile in termini di psicologia individuale. La verità è un’altra: né i tedeschi erano tutti fanatici dell’arte nazista e persecutori implacabili dell’arte degenerata, né i francesi erano tutti favorevoli alle avanguardie più spericolate e fautori, nell’arte come nella vita, di uno stile come quello di Cocteau. Di conseguenza, è storicamente errato presentare la posta in gioco di quegli anni come il risultato di uno scontro fra un’idea dell’arte fondata sulla libertà, quella dei resistenti e degli antifascisti, e una fondata sulla coercizione totalitaria. Le cose erano molto più complesse, articolate e, talvolta, ambigue, di una tale contrapposizione manichea. I fautori di un’arte libera, e, più in generale, di una cultura libera, erano su entrambi i versanti della lotta per il potere mondiale, così come i loro nemici. A parte il caso, fin troppo eloquente, dell’Unione Sovietica, ove la libertà dell’arte era di fatto negata o resa impossibile (si pensi solo ai casi di Bulgakov e, poi, di Pasternàk), un esame spassionato di quel che accadde nell’Europa occidentale dopo il 1944-45 indica che la tanto decanta libertà degli artisti e degli intellettuali non andava al di là dei limiti ideologici del politicamente corretto. E mentre in Italia, durante il fascismo, Giovanni Gentile aveva chiamato a collaborare a quel monumento della intelligenza e della cultura italiana che è l’Enciclopedia Treccani i migliori studiosi, sia fascisti che antifascisti, dopo il 1945 una simile tolleranza divenne impossibile: solo gli scrittori e gli artisti antifascisti, e preferibilmente progressisti se non apertamente di sinistra, potevano godere della massima visibilità; a quelli di destra non era riconosciuto neppure lo statuto di scrittori e di artisti, erano considerati degli incidenti, degli errori del programma. E lo stesso in Francia e nel resto d’Europa. Solo che quasi tutti, imbevuti dell’ideologia dei vincitori, non se ne sono neanche accorti.

Strano, vero? Come ancor oggi sono in tanti a non voler capire chi ha vino davvero l’ultima guerra…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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