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23 Maggio 2019Che cos’è un segno? Per il vocabolario, il segno, dal latino signum, è qualsiasi fatto, manifestazione, fenomeno da cui si possano trarre indizi, deduzioni, conoscenze e simili (Treccani). Nella cultura contemporanea, l’acuta (ma forse non adeguata) consapevolezza di quale importanza rivesta la comprensione del vero significato dei segni ha portato alla nascita di una nuova scienza moderna (perché, in se stessa, è molto antica), la semiologia, o semiotica, il cui padre nobile è considerato il linguista ginevrino Ferdinand De Saussure (1857-1913). La definizione che danno i semiologi è un po’ diversa da quella che vige nell’uso della lingua di tutti i giorni, e cioè: qualcosa che sta per qualcos’altro, a qualcuno, in qualche modo (Danesi-Perron, 1999). Proviamo a scomporre questa definizione nelle sue tre componenti:
1) qualcosa che sta per qualcos’altro. Si può ricorrere alla metafora (abusata, ma efficace) del dito e della luna: quel che va guadato non è il dito che indica la luna, bensì la luna stessa. Il segno è un rimando, non è la cosa. La siccità non è la cosa, o meglio non è tutta la cosa, ma il segno di un’altra cosa: la mancanza di precipitazioni. La febbre non è la cosa, ma è il segno della malattia. Noi non abbiamo a che fare direttamente con le cose, ma con le loro manifestazioni; il mondo che ci si apre davanti, è un mondo di segni, non è il mondo delle cose. Detto in termini filosofici: noi non sperimentiamo il Noumeno, la Cosa in sé, ma sempre e solo il Fenomeno; almeno nell’esperienza ordinaria, e nello stato di coscienza ordinario.
2) qualcosa che si rivela a qualcuno. Questa potrebbe sembrare una precisazione inutile, ma non lo è, se si riflette che il segno è un fatto non in se stesso, ma un fatto in quanto manifestazione: dunque, in un mondo disabitato, sarebbe come se segni non ce ne fossero. Altra importante conseguenza di questa affermazione, in apparenza banale: non esistono due "qualcuno" identici, pertanto nessun segno è univoco. Ciascun segno può essere interpretato in modo differente da soggetti diversi; non solo: ogni segno può essere interpretato in maniere differenti anche dallo stesso soggetto, in momenti o situazioni diversi.
3) qualcosa che si rivela in qualche modo. La manifestazione del segno è sempre qualcosa che avviene in un contesto preciso, in uno spazio e in un tempo determinati, cioè che avviene in una particolare maniera, la quale non è universale, ma specifica. L’ambiguità dell’interpretazione dei segni dipende spesso dal fatto che il medesimo segno si manifesta in maniera diversa a seconda delle circostanze, e quindi chi s’imbatte in essi non possiede automaticamente la chiave per comprenderli, anche se ne conosce il significato generale. Perciò se l’ontologia è la scienza dell’essere in quanto essere, la semiologia è la scienza dell’ente in quanto si manifesta e a seconda di come si manifesta. A rigore, è dubbio se la si possa considerare realmente una scienza: perché tutte le scienze, anche se operano nel concreto, partono da proposizioni di significato universale ed univoco; mentre una scienza che debba procedere a una nuova interpretazione di fronte a qualsiasi fatto, anche il più piccolo, e a qualsiasi situazione, anche la più contingente, cessa di essere una scienza (epistéme) e tende necessariamente ad avvicinarsi al concetto di doxa (opinione).
Il segno, pertanto, non è la cosa, ma è il modo in cui la cosa si rende manifesta. Un quadro, un trattato scientifico, un film, un brano musicale, sono manifestazioni di una idea o di un sentimento, o di un insieme di idee e sentimenti, che avvengono per mezzo di segni. Ma non solo le opere umane, anche la natura si manifesta a noi per mezzo di segni. La gemma è il segno della primavera incipiente; le orme sul terreno, sono il segno del passaggio di un certo animale; un nido, fatto in un certo modo, è il segno della presenza di una determinata specie di uccelli; le stelle cadenti il 10 agosto sono il segno che la Terra sta attraversando, in quel momento, grazie al suo moto di rivoluzione, la fascia di meteore dette Perseidi. I segni non solo solamente di carattere visivo: è evidente che ve ne sono per ogni organo di senso, e che una persona cieca, ad esempio, si trova a vivere non già in un mondo sprovvisto di segni, ma in un mondo fatto di segni uditivi, olfattivi, gustativi e tattili.
Ma, si potrebbe obiettare, quella che guardiamo in cielo, nelle notti limpide, è la luna, proprio la luna, e non il segno della luna. Certo, in apparenza parrebbe così; ma è vero? In effetti, ciò che vediamo è un disco giallo, o argentato, o talvolta vagamente arancione; un disco luminoso, ma di luce riflessa, sulla cui superficie possiamo scorgere, a occhio nudo, e assai meglio con un cannocchiale o un telescopio, delle irregolarità, nonché delle zone chiare o scure, disposte a macchia di leopardo. Questo è quel che vediamo. E cosa sono, rispettivamente, un disco, delle irregolarità, delle macchie chiare o scure? Segni e nient’altro che segni. Che l’insieme di quei segni formi un oggetto chiamato "luna", quella è la nostra interpretazione: ed è possibile, perfino probabile, che sia esatta. Ma sappiamo che è possibile creare delle illusioni ottiche con mezzi artificiali (e talvolta anche in seguito a fenomeni naturali); che si può creare, ad esempio, un ologramma, cioè l’immagine fantastica di un qualsiasi oggetto, talmente precisa e realistica da poter ingannare qualunque osservatore che sia ignaro del trucco. Dunque, quell’oggetto rotondo, splendente e familiare, potrebbe anche non essere la luna, ma un suo "fantasma", creato appositamente per ingannarci. In fondo, è la versione tecnologica del vecchio diavoletto di Cartesio: solo che ora un eventuale diavoletto potrebbe ingannarci, volendo, e disponendo delle risorse e dei mezzi adatti, non solo su un singolo oggetto o un singolo aspetto del reale, ma su tutto l’insieme del reale, su tutto ciò che noi consideriamo la nostra vita reale: vedi il film The Truman Show di Peter Weir, o Matrix di Andy e Larry Wachowski. Questo è l’aspetto inquietante dell’universo dei segni: che un segno è riproducibile, dunque è falsificabile, mentre le cose, in se stesse, non lo sono; e siccome noi percepiamo non le cose, ma i segni, siamo soggetti alla possibilità della contraffazione e dell’inganno. Qualcuno può manipolare la nostra percezione della realtà, quindi può manipolare tutto l’insieme del nostro pensiero: in altre parole, può renderci dei burattini nelle sue mani, senza che noi ce ne rendiamo minimamente conto.
D’altra parte, il mondo dei segni svolge un ruolo fondamentale nella dimensione estetica dell’uomo, oltre che in quella scientifica. L’algebra procede per segni, ma anche la musica, la poesia, la pittura. La parola, le note musicali, la linea e il colore sono segni che rappresentano la realtà sotto l’angolo visuale della elaborazione creativa; nelle mani di un artista, anche la macchina fotografica diventa uno strumento capace di produrre segni di valore estetico. Ma i segni, abbiamo detto, sono riproducibili: ed ecco la cosiddetta arte digitale, ecco i disegni e le pitture realizzati al computer, ecco la musica elettronica creata artificialmente. Dov’è la linea di confine tra i segni realizzati da un artista e quelli elaborati da un calcolatore elettronico?
Riportiamo una breve citazione del filosofo tedesco Max Bense (Strasburgo, 1910-Stoccarda, 1990), dalla sua opera Estetica (titolo originale: Aesthetica, Baden-Baden, Agis Verlag, 1965; traduzione di Giovanni Anceschi, Milano, Bompiani, 1974, p. 156):
La storia delle arti, della letteratura, della poesia, ecc. ci insegna che vi sono alcuni temi e alcune forme cui va una certa preferenza, temi e forme la cui origine resterebbe sociologicamente e psicologicamente inspiegabile se non vi fossero motivi estetici e quindi ontologici per la loro comparsa. Questa attrazione per particolari argomenti nell’ambito della creazione di opere d’arte e di letteratura, non si manifesta fra l’altro soltanto nella produzione stessa ma influenza anche il giudizio, orienta la critica. E proprio quest’ultima circostanza è un indizio del fatto che alla base di questa attrazione si trova un problema di percezione estetica.
La forza di attrazione esercitata in senso estetico da certi tipi di temi e di forme è connessa evidentemente coll’irriducibile carattere segnico del mondo e degli argomenti percepiti. Possiamo dare per dimostrato che ogni stato modale dell’essere, per esempio la realtà, non si manifesta come tale, come generalità o come universale, ma si fa percepire nei segni. Ci sono ambiti dell’essere e quindi anche della realtà dove l’intensità e la comunicazione provocano una densità ontica la quale rende manifesto in quale rilevante misura il mondo sia qui un mondo di segni.
Abbiamo accennato al fatto che la semiologia è molto più antica di De Saussure. Come tutte le altre scienze, teologia compresa, essa ha subito una svolta rivoluzionaria con l’avvento della modernità. Sia l’uomo antico, greco o romano, sia l’uomo medievale, consideravano perfettamente normale osservare il mondo alla ricerca di segni per capire come la realtà andasse letta: non si fermavano all’aspetto esteriore delle cose, ma ne cercavano il senso profondo. E non si limitavano a indagare la dimensione cosciente dell’esistenza, scrutavano anche quella inconscia, ad esempio il mondo onirico. Nella Bibbia si narra di come Giuseppe sapesse spiegare al faraone il significato profondo dei suoi sogni; e quando un altro faraone volle proibire agli ebrei la partenza dall’Egitto, le dieci piaghe che si abbatterono sul Paese del Nilo furono chiaramente interpretate dagli egiziani come il segno di un intervento divino a favore della richiesta di Mosè. Ma l’uomo moderno, che rifiuta ogni interpretazione mitica del mondo, si è scordato che il mondo ci parla per mezzo di segni: così ha "scoperto", o piuttosto riscoperto, la semiologia, ma, secondo il suo abito intellettuale, ne ha fatto una scienza "positiva", rigorosa, nettamente staccata dalle precedenti concezioni mitiche. È stato un grave errore, perché il mito è universale, ha a che fare con l’inconscio e si esprime, appunto, per mezzo di segni; mentre gli uomini moderni hanno preteso di poter interpretare i segni, dei quali è disseminata la realtà, esclusivamente con il loro approccio logico-razionale. Eppure sono ricorsi al mito a piene mani — si pensi, per fare solo un esempio, al mito di Edipo nella psicanalisi freudiana — però non hanno avuto l’onestà intellettuale di riconoscerlo, hanno voluto contrabbandare per "leggi" o per "costanti" quelle che erano semplici ipotesi e hanno voluto spiegarle in maniera del tutto indipendente dalla tradizione, la quale, invece, da tempi immemorabili custodisce l’universo del significato dei segni. Il risultato è stato che la moderna semiologia si è limitata alla spiegazione tecnica ed esteriore dei segni, perdendo di vista il loro significato profondo: come un linguista che sia riuscito a tradurre correttamente ogni parola di un’antica lingua morta, ma poi non sia capace di dar vita a quel linguaggio, non ne sappia vedere la portata complessiva e quindi rimanga estraneo al senso profondo di qualunque documento scritto per mezzo di essa, anche se il senso apparente lo sa stabilire con notevole precisione. Questo perché il senso dei segni non è qualcosa di meccanico e formale, ma scaturisce dalla relazione profonda che esiste fra i segni e il significato, e il significato non può essere compreso se non dall’interno dell’universo concettuale che lo ha generato. Ma come potrebbe fare questo l’uomo moderno, convinto com’è di possedere lui solo un universo concettuale degno di questo nome, mentre tutte le altre civiltà non hanno saputo elaborare, nel migliore dei casi, che degli universi concettuali primitivi, incompleti, viziati da un’insopprimibile tendenza alla magia e alla superstizione?
Né a questo solo si limita il danno provocato da una semiologia intesa come scienza puramente tecnica e precipuamente moderna, chiusa ai significati legati ad altri contesti culturali. Il moderno semiologo non solo è un tecnico, che si porta dietro ovunque vada la mentalità del tecnico; è anche un riduzionista per antonomasia. La sua stessa specializzazione lo porta a una visione frammenta, parcellizzata, atomizzata, del reale: vede le foglie, ma sovente gli sfugge la foresta. Ignaro di ciò, perché convinto, anzi, d’essere il solo a saper decifrare correttamente il mondo dei segni, tende a salire in cattedra, a guardar tutti dall’alto con un sorriso di compiacenza e a credersi un piccolo dio, forse anche meglio di Dio: perché Dio, dopotutto, ha creato il mondo (forse), ma lui solo conosce il modo per decifrarlo, e tutti gli altri, al suo cospetto, non sono che scolaretti ignoranti e sprovveduti. Il danno che un simile tipo umano può fare alla conoscenza umana è incalcolabile. E che si tratti di un tipo umano molto, ma molto mediocre, lo si vede considerando da vicino alcuni di questi piccoli dèi, la loro opera, i loro atteggiamenti: uno per tutti, Umberto Eco, il quale, considerandosi il massimo esperto in materia, ha passato la vita a pubblicare libri su libri nei quali masticava e rimasticava sempre lo stesso concetto, che le cose non sono così come appaiono e che lui solo, e pochi altri come lui, sanno cosa siano in realtà; il tutto condito con dosi industriali di presunzione, orgoglio e narcisismo. Suoi degni eredi sono quei teologi e quei biblisti i quali, forti della loro specializzazione, pretendono di rileggere e di riscrivere la Bibbia e il Vangelo, le preghiere come il Padre nostro, e da ultimo la stessa fede cristiana. Chi ne saprà più di loro, gli specialisti infallibili?
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