
Il Sacrificio della santa Messa, perché?
3 Aprile 2019
Dilaga la filosofia del rancore e della rivalsa
4 Aprile 2019Confrontando la santa Messa dei nostri giorni con quella di prima della cosiddetta riforma liturgica; paragonando il catechismo di oggi — non tanto quello scritto, ma quello praticamente insegnato, con le parole e anche con i silenzi — a quello di prima del Concilio; cercando una corrispondenza e una effettiva continuità fra le parole del clero odierno, dall’omelia domenicale del singolo sacerdote a documenti ufficiali che dovrebbero essere del Magistero, come Dignitiatis humanae o Amoris laetitia, si giunge facilmente alla scoraggiante conclusione che una rivoluzione è avvenuta nella Chiesa, senza che ce ne siamo praticamente accorti, tranne, forse — e comunque solo una minoranza — quando ormai era troppo tardi, se non per denunciare l’inganno, il tradimento e l’apostasia — per quello non è mai troppo tardi – per opporsi validamente ed efficacemente a una simile, disastrosa deriva lontano dalla Verità divina. È tristissimo, ma innegabile, e chiunque abbia una sessantina d’anni lo può testimoniare di persona: fra quel che insegnava la Chiesa fino al 1969 circa, e quel che sta insegnando oggi, ci sono ben pochi punti in comune. Si assiste in molti casi a strani silenzi, a inspiegabili reticenze, a imbarazzanti tortuosità verbali: si veda quel che hanno detto i vertici della Chiesa a proposito dell’appena concluso Congresso mondiale della Famiglia, e perfino quel che hanno detto in conclusione i relatori stessi, che pure erano portatori di una visione sinceramente cattolica, ma che hanno ceduto anch’essi al relativismo imperante. In altri casi si odono esponenti del clero, anche di spicco, per non parlare dei teologi, lanciarsi in affermazioni arrischiate, sconcertanti, non di rado francamente eretiche, senza che vengano richiamati o ripresi in alcun modo, anzi, con l’evidente incoraggiamento e la palese approvazione proprio di chi dovrebbe far rispettare l’unica verità della Parola di Dio. Quando si ode il "teologo" Enzo Bianchi parlare di Gesù come di un semplice profeta; e quando si ode il signore vestito da papa affermare che Bianchi è il suo teologo preferito, che cosa potrà mai pensare un buon cattolico che ha ricevuto i fondamenti della dottrina così come la Chiesa li ha insegnati per millenovecento anni, e poi ha cominciato a non insegnarli più, o ad insegnarne degli altri, totalmente diversi, a partire dalla "stagione" del Concilio? Evidentemente, potrà pensare solo due cose: o che si è sbagliato lui, e si è sbagliata la Chiesa per millenovecento anni; oppure che quella di oggi, quanto meno quella che fa simili discorsi e compie simili gesti, non è più la vera Chiesa di Cristo, non è più la sua fedele Sposa, ma una prostituta imbellettata e priva di ogni senso del pudore. Una terza spiegazione non è possibile su ciò che emerge dal confronto fra l’ieri e l’oggi.
Osservava monsignor Giacomo Biffi (Milano, 13 giugno 1928-Bologna, 11 luglio 2015) – arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003, cardinale nel 1985 – nel corso delle sue Riflessioni introduttive al 23° Congresso Eucaristico Nazionale di Bologna del 20-28 settembre 1997 (in: Atti del 23° C. E. N., Bologna, Editrice Compositori, 2006, vol. 1, pp. 189-90; 192-93; ):
In questo settant’anni [dal 13° Congresso Eucaristico Nazionale, sempre a Bologna] tutto è cambiato. Ben diverse le condizioni economiche e sociali del nostro popolo. Altro il modo di pensare, di lavorare, di vivere; altre le ideologie dominanti, altre le potenze, altre le prepotenze, altri e non meno seri i guai che ci affliggono. Tutto è cambiato. Resta uguale a sé — nel suo Credo, nelle sue persuasioni fondamentali, nei suoi mezzi di santificazione, nel suo anelito a proporre la legge evangelica della carità — la Chiesa di Cristo, sempre fedele al suo Sposo, sempre lieta di elevargli il suo canto d’amore. La Chiesa è sempre uguale a sé, perché sempre vivo nella sua identità è il Salvatore che abita e opera in lei, come sta scritto nel libro di Dio: "Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!" (Eb 13,8). E già qui possiamo misurare la nostra fortuna di credenti. In un tempo che vede il traballare di tutto, e niente dà garanzia di durare; in una cultura che sembra derubata di ogni certezza ideale e di ogni norma riconosciuta di comportamento, la saldezza di Cristo e della sua Chiesa è una grande misericordia di Dio e ci rasserena. Senza punti di riferimento non si può andare né avanti né indietro. Senza qualche principio sicuro non si può né ragionare né agire. Senza qualcosa di stabile a cui aggrapparsi, all’uomo, naufrago sballottato nel mare dell’esistenza, non è data speranza. A noi, proprio dal permanere di Cristo e della Chiesa entro l’universale mobilità delle cose e la fuggevolezza delle mode e delle opinioni, la speranza è data, e con la speranza la possibilità di una vita davvero umana. (…)
"Se tu conoscessi il dono di Dio!" (Gv 4,10). La parola di Gesù alla Samaritana è rivolta anche a noi. Non è solo un sospiro accorato per la nostra fede torpida e stentata: ci propone anche uno dei traguardi spirituali da conseguire nell’anno di preparazione che oggi comincia. Dobbiamo primariamente recuperare la consapevolezza del "dono": di tutto il dono esuberante e vario che ci viene dal "Padre della luce" (cfr Gc 1,17). (…)
Attenzione perciò: tutto quello che incautamente "tende a equiparare o anche solo ad assimilare l’Eucaristia a una solita mensa, rimuove dalla Eucaristia Gesù Cristo, riducendolo al massimo a un invitato tra gli altri, sia pure il più degno… In realtà non è lui che è invitato da noi alla nostra festa, non è lui che riceve senso dalla nostra amicizia: è lui che crea la festa, che porta alla luce la convivialità in quel significato e in quella dimensione impensabile che è la convivialità della croce" (Inos Biffi, "Meditazione eucaristica", Milano, 1982, p. 56).
Riprendere consapevolezza del ‘dono’ vuol dire re imparare a dire "grazie". Se ci si percepisce destinatari della liberalità di chi ci vuol bene, ci si apre naturalmente al dovere della riconoscenza. E dal momento che nella creatura tutto è stato ricevuto — perché è stata tratta totalmente dal niente a opera dell’amore onnipotente di Dio — la gratitudine è in essa un atteggiamento fondamentale, quasi una dimensione intrinseca del suo essere. La creatura che non ringrazia esce dalla sua "verità". Il mistero del "Corpo dato" e del "Sangue versato" non è solo ‘dono’, è anche azione di grazie: "Eucaristia", come ci dice il nome che l’ha da sempre indicato. Vale a dire: è un gesto con cui noi — come singoli, come Chiesa e a nome dell’umanità intera — cantiamo con cuore lieto e commosso al Creatore, che sorprendentemente ha voluto effondere la sua bontà oltre la sua stessa infinità, fino a chiamare all’esistenza coloro che non sono; fino a fare di noi, che eravamo "non-popolo", il popolo di Dio; fino a farci ottenere — a noi che eravamo "esclusi dalla misericordia" — una misericordia inaspettata (cfr. 1 Pt 2,9-10). L’Eucaristia, che è il sommo della magnanimità di Dio, è dunque anche la più alta, la più intensa, la più adeguata risposta a Dio del nostro animo grato. Tale è la fantasia dell’affetto divino per noi che, regalandoci tutto, ci regala anche il modo di sdebitarci con lui. Perfino l’atto con cui ringraziamo il Padre è un puro favore del Padre.
Queste parole, piene di fede e di cristiana saggezza, suonano tuttavia terribilmente malinconiche oggi, pensando che ancora nel 1997, poco più di venti ani fa, un uomo del valore e della lucidità di monsignor Giacomo Biffi poteva osservare che, sebbene nella società civile sia cambiato tutto, compresi i modi di pensare e d’intendere la vita, la Chiesa, resta uguale a sé — nel suo Credo, nelle sue persuasioni fondamentali, nei suoi mezzi di santificazione, nel suo anelito a proporre la legge evangelica della carità — la Chiesa di Cristo, sempre fedele al suo Sposo, sempre lieta di elevargli il suo canto d’amore. Come vorremmo poter dire la stessa cosa, adoperare le stesse espressioni per descrivere la Chiesa dei nostri giorni! Oppure anche il cardinale Biffi s’ingannava, certamente in buona fede, e non si rendeva conto che già nel 1997 la Chiesa era effettivamente cambiata, e cambiata in modo radicale, allontanandosi da se stessa e dalla fedeltà al suo divino Sposo? Sia pure con sofferenza, noi propendiamo per questa alternativa: quando egli faceva la sua diagnosi della malattia chiamata modernità, e proponeva l’eterno rimedio del Vangelo, descrivendo la Chiesa come sempre uguale a sé e fedele a Cristo, probabilmente si sbagliava: neppure lui si era accorto che il cambiamento c’era già stato, anche se graduale e dissimulato con una certa abilità, perlomeno considerando il ridottissimo livello di consapevolezza dei sedicenti cristiani. Non vogliamo fissare una data, né un evento preciso, anche se il triennio del Concilio, 1962-65, con la pubblicazione di documenti difformi dal Magistero perenne, come Nostra aetate e Dignitatis humanae, e l’imposizione — non è possibile adoperare un’atra parola – del Novus Ordo Missae nel 1969, nello spazio di pochi mesi appena, rappresentano senza dubbio delle tappe decisive; ma è tutto l’insieme dello stile ecclesiale che è cambiato, dalla liturgia alla pastorale, dal modo di parlare e di scrivere al modo di ragionare e di sentire, e soprattutto è cambiato l’atteggiamento di fondo: non più abbandono incondizionato in Dio, ma affermazione orgogliosa di una "fede" che appare molto, troppo umana e ben poco orientata verso la trascendenza. Prendiamo il caso della Messa e di ciò che è il cuore della Messa, il Sacrificio Eucaristico: non si tratta solo dei cambiamenti negli atti liturgici e nelle parole del sacro rito; e non è nemmeno l’espunzione di una preghiera, come quella rivolta a San Michele Arcangelo, contro le insidie di Satana, che da Leone XIII in poi faceva parte integrante della santa Messa (e che quel papa aveva voluto per una ragione precisa e molto seria).
Che i fedeli si accostino alla Comunione in piedi, e prendano la particola con le mani; che recitino il Padre nostro tenendo gli avambracci rivolti all’esterno, in un gesto tipico della religione islamica; che ci si scambino delle strette di mano, anche aggirandosi per la chiesa e facendo la spola fra un banco e l’altro, come amici che si salutano all’osteria; che nella liturgia del Venerdì Santo, ricordando la Passione del Signore, non si reciti più la preghiera di conversione per gli ebrei (oremus et pro perfidis Judaeis), non tanto per non "offenderli", quanto perché non avrebbero più bisogno di conversione, essendo già salvi grazie all’Antica Alleanza, e ciò in aperto contrasto con la Rivelazione e il Magistero perenne: tutte queste cose sono certo sconcertanti, anche se nessuna di esse, forse, indica, di per sé, che c’è stata una rivoluzione e uno stravolgimento. Ma è dall’insieme di tutte queste cose, dalla loro azione coordinata e convergente, e dall’atmosfera complessiva che si respira in chiesa, che appare in tutta evidenza quel che realmente è accaduto, davanti ai nostri occhi e, come si dice, sotto il nostro naso: che la massoneria ha preso il controllo dei vertici della chiesa ed è riuscita a travisarne l’orientamento complessivo. Tutto il resto, le singole azioni, le singole parole, i singoli documenti, non sono che l’inevitabile conseguenza di questo fatto decisivo. Il nemico è entrato nella Chiesa ed è riuscito ad occuparne le posizioni chiave, agendo praticamente indisturbato; solo pochi, e troppo tardi, si sono accorti dell’infame manovra, e hanno cercato di dare l’allarme. Tuttavia la massa dei cattolici, clero compreso, non si è accorta di nulla, o addirittura ha salutato con favore i cambiamenti che, un passo dopo l’altro, hanno condotto alla situazione presente: quella dell’apostasia generalizzata. Si è passati dal non condannare il peccatore, al non condannare più neanche il peccato; dal non voler imporre la fede cristiana, all’accettare tutte le fedi come ugualmente legittime e intrinsecamente buone; dal domandare scusa a destra e a sinistra per le presunte colpe del passato, al mortificare e umiliare la propria identità: in breve, si è attuata una strategia di auto-demolizione sistematica, capillare, che la gran parte dei cosiddetti credenti ha visto, ha approvato, ha condiviso. Perciò siamo tutti responsabili di questa situazione: è troppo comodo scagliarsi sempre e solo contro Karl Rahner, o contro il cardinale Danneels, o contro il signor Bergoglio. Il male è molto più profondo e parte da molto più lontano; e, soprattutto, coinvolge noi tutti, se non altro perché non abbiamo vigilato e abbiamo lasciato che si spegnesse la fiammella della nostra fede. Se quella fiammella fosse rimasta viva, certamente ci saremmo resi conto dell’infame tradimento che veniva consumato contro Gesù Cristo e contro i fedeli; e allora ci saremmo riscossi, avremmo reagito, avremmo domandato ai pastori infedeli di rendere conto del loro operato. E questo vale anche per i laici, anzi soprattutto per i laici. Tornando all’esempio della Messa: la Messa è un atto di culto fondamentale che si rivolge a Dio e che deve piacere a Dio, non agli uomini. Pure, è evidente che, a un certo momento, si è voluta introdurre una serie di novità che erano state concepite per strappare il plauso degli uomini, per gratificare il "popolo", non in quanto popolo pellegrinante verso la verità soprannaturale di Cristo, ma in quanto assemblea terrena, orgogliosa di sé, e decisa a far risuonare la propria voce nel tempio di Dio. Ecco, il male era già evidente in quei cambiamenti, in quello stile. La Messa non deve piacere agli uomini, ma a Dio; i fedeli non devono andarci come se fosse una cerimonia mondana, o quasi, ma con profonda compunzione, armati di spiritualità, e con l’anima colma di umiltà. Non a testa alta, ma con la coscienza di essere peccatori bisognosi di redenzione; e che solo Gesù è il Redentore dell’umanità. Non ce ne sono altri. Che tristezza, sentire questo clero infedele che starnazza: Francesco ha detto questo; Francesco ha detto quest’altro. E di ciò che dice Gesù Cristo, importa ancora a qualcuno?…
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