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Perché Dio ha creato il mondo?

Il non credente si chiede: «Perché esiste il mondo?».

Il credente formula così la domanda: «Perché Dio ha creato il mondo?».

Notiamo, di passaggio, che questa è una situazione decisamente moderna, frutto, in gran parte, proprio della filosofia cristiana, anche se in maniera discreta e quasi inavvertita. La quasi totalità degli antichi, credenti o non credenti, non aveva dubbi sul fatto che il mondo esiste da sempre, e che quindi non ha molto senso interrogarsi sul perché mai si prenda la briga di esistere. Esso è eterno, nessun Dio l’ha creato.

Tutt’al più, alcuni filosofi greci arrivavano a immaginare, nelle loro teogonie e cosmogonie, che vi siano state diverse creazioni, ossia che diverse volte qualche Demiurgo divino, non soddisfatto della propria opera o per altre ragioni, ripetutamente abbia posto mano, per così dire, all’ordine universale, senza peraltro creare nulla nel senso proprio del termine, vale a dire ex nihilo. Nella cultura moderna, che non a caso ha ripreso molti spunti del paganesimo antico, e specialmente l’antichissima tentazione della gnosi (mista, a un certo punto, con elementi della cabala spuria, rabbinica e talmudica), questo tema sembra tornare d’attualità: non è più considerato assurdo, o quantomeno perfettamente inutile, il fatto di porselo.

Questo parziale ritorno si è verificato soprattutto verso la fine del XIX secolo, con il diffondersi del movimento teosofico: nella sua dottrina segreta, Helena Petrovna Blavatsky sosteneva di aver saputo dai suoi maestri sconosciuti dell’Himalaia (forse esseri viventi a lei sola visibili, forse antichi esseri disincarnati) e dall’ancor più sconosciuto — e inquietante – Libro di Dzyan che sulla Terra avrebbero dovuto succedersi ben sette razze umane (l’attuale non è che la quinta), via via sempre più perfezionate. In ogni caso, sembra probabile che debba essere posto in relazione con la più ampia, e più drammatica, domanda di significato che sembra aver investito l’umanità negli ultimi decenni, mano a mano che la Grande Promessa – dell’economia, dello sviluppo, della felicità – mancava clamorosamente, uno dopo l’altro, tutti i suoi obiettivi, anche i più modesti e familiari, come quello di assicurare un minimo di stabilità e sicurezza, se non proprio un lungo periodo di pace e benessere alla maggior parte dei suoi membri.

Ora, è proprio della natura umana porsi sempre delle domande, cercare di risolvere degli interrogativi; e l’esistenza effettiva del mondo è probabilmente la prima e più significativa esperienza che l’essere umano fa sin da piccolo, al punto che sono relativamente pochi i filosofi che si sono spinti a negare, direttamente o indirettamente, l’esistenza di un mondo esterno a noi, e del quale noi siamo parte. La disputa, semmai, è su quanto di esso possiamo conoscere (il noumeno o solo il fenomeno?); se tale conoscenza è immediata e diretta, o mediata e indiretta; e infine quanta parte di noi, dei nostri schemi mentali, delle nostre aspettative emozionali, entra a far parte del quadro.

La mente umana è così piccola che non afferra pienamente la differenza ontologica: le sembra che, se Dio è creatore soltanto a metà, allora egli stesso non è poi tanto minuscolo dinanzi a Lui. E in effetti, poste così le cose, il ragionamento ha una qualche plausibilità. Il fatto è che Dio non crea il mondo a metà; non lo crea e poi lo disfa: lo crea o non lo crea. Potrebbe anche non crearlo, perché egli è infinitamente libero e nulla potrebbe obbligarvelo; lo crea per un atto di pienezza d’amore assolutamente libero, e dopo averlo creato, non è qualcosa di meno né qualcosa di più di ciò che era prima; inoltre lo sostiene, lo preserva, e fa ogni cosa possibile per suscitare in esso, nella sua parte senziente e razionale, il desiderio o l’istinto di rispondere a quell’atto d’infinito amore e di cooperare alla creazione stessa, sia rispettando le leggi di natura e il giusto ordine delle cose, sia, nel caso degli uomini, accogliendo integralmente e incondizionatamente la sua offerta/sacrificio, inginocchiandosi ai piedi della croce e lasciandosi irrorare dalla grazia divina che scende abbondante dal sangue effuso da Gesù Cristo.

È abbastanza facile capire perché l’uomo, e specialmente l’uomo moderno, nutra una così profonda e radicata diffidenza, per non dire antipatia, nei confronti dell’idea di una Creazione ex nihilo: perché, ai suoi poveri occhi, accresce a dismisura la distanza che lo separa dal Creatore e perciò, in un certo senso, accentua e sottolinea la sua piccolezza, la sua fragilità, la sua impotenza, infliggendo una ferita insanabile al suo ego ipertrofico.

C’è una bella pagina di Maurice Blodel (un autore che per altri aspetti abbiamo criticato), che pone in maniera chiara e, umanamente parlando, soddisfacente, questa abissale, incommensurabile domanda (Blondel, La filosofia e lo spirito cristiano, trad. it. Brescia, La Scuola Editrice, vol. 1, pp. 43-44):

Se l’idea di creazione è rimasta pressoché ignorata al di fuori della tradizione ebreo-cristiana, e se ancora essa rimane quasi inassimilabile per una filosofia razionalistica, ciò è accaduto di fatto perché resta enigmatica per chiunque non vada al di là di un semplice problema di potenza e di causalità, senza considerare le segrete intenzioni di una Provvidenza, non solo intelligente ed organizzatrice di una natura ben ordinata in se stessa, ma infinitamente caritatevole verso la sue creature. Quando S. Giovanni dichiarava, per riassumere tutta la Buona Novella, di gran lunga superiore a tutte le altre concezioni: resta enigmatica per chiunque non vada al di là di un semplice problema di potenza e di causalità: NOS CREDIDIMUS CARITATI, significava con ciò che il privilegio incomparabile del cristianesimo è la rivelazione e l’attuazione di quell’ordine superiore che l’apostolo chiama la filantropia divina. Dio ha tanto amato il mondo che gli ha dato il suo unico Figlio, affinché, essendosi il Verbo eterno fatto uomo, l’uomo potesse venire realmente adottato, divinizzato da questo Mediatore. Si sono talvolta contrapposte due interpretazioni della tradizione cristiana e del suo centro di equilibrio: teocentrismo, che riporta tutto al principio divino; antropocentrismo, che riporta tutto, e Dio stesso, all’elevazione di graziane moltiplica in qualche modo la vita divina. Queste due prospettiva non devono punto essere contrapposte, perché, se la prima è assoluta in sé e perfettamente sovrana, la seconda, che del resto la presuppone, è essa stessa essenzialmente inerente a tutto il disegno creatore.

L’enigma della creazione non trova dunque il suo significato che in un nuovo mistero, quello del destino delle creature spirituali, legate esse stesse a tutte le preparazioni dell’ordine universale, che formano i ripiani graduali di tutte queste ascensioni dei viventi e degli spiriti. Questo organa mento progressivo, COMPAGES RERUM, serve di condizione e di appoggio all’avvento di un Regno, che la Rivelazione chiama il Regno di Dio, il Regno del Padre celeste attraverso la storia totale che compongono insieme il piano provvidenziale e le peripezie prodotte dalla libertà degli spiriti creati, partecipanti colle loro opinioni al proprio destino. Ora tutto questo piano, in cui si dispiegano l’iniziativa creatrice e la partecipazione delle volontà create, procede inizialmente da una sola intenzione, che dobbiamo ormai prendere come luce per tutto il nostro cammino, come forza motrice e direttrice di tutte le nostre tappe, come il segreto supremo insieme di a Dio e del mondo nelle loro mute relazioni. Rammentiamoci dunque costantemente che l’universo è stato creato per attuare un libero e supremo disegno di amore; poiché, se abbiamo affermato nella Trinità che essa è, nella sua immutabilità feconda, il mistero dei misteri, possiamo ora dire che anche quello della creazione racchiude il suo mistero dei misteri, quello della supernaturalizzazione delle creature: mistero di adozione, che solo dà un senso adeguato a tutto ciò che si prepara nel tempo e si consuma nell’eternità.

Del resto, come ha egregiamente mostrato Giuseppe Zamboni, se si formula l’ipotesi che debba esistere un essere assolutamente libero e indipendente, cioè autosufficiente, sia quanto all’essenza, sia quanto all’esistenza, è impossibile, volendo evitare una regressio ad infinitum, non arrivare all’Essere assoluto, cioè a Dio. Tutti gli altri esseri che cadono sotto la nostra esperienza e che sono da noi pensabili devono ricevere da qualcun altro la loro essenza o la loro esistenza; nessuno è capace di darsele da se stesso. Questo significa che l’universo non è soltanto il più grande mistero d’amore e di perfezione che la mente umana possa mai considerare, ma anche che esso dimostra per sé stesso, per il solo fatto di esistere, l’esistenza del Dio Creatore, dato che evidentemente è stato creato. Nessuno degli elementi dei quali è costituito può crearsi da solo; sono tutti dipendenti da una sorgente esterna che dia loro l’essenza ed, eventualmente, l’esistenza. Infatti nell’ambito del contingente viene prima l’essenza dell’esistenza (io posso pensare un bellissimo cavallo, che è sempre qualcosa di più di un cavallo del tutto inesistente, e dunque neanche pensato), ma nell’ambito del necessario una cosa deve innanzitutto esistere, e con la sua esistenza porterà seco anche le caratteristiche che compongono la sua essenza.

Inoltre, nessuno potrebbe pensare il mondo, e neppure percepirlo, se il mondo non fosse fatto secondo una misura capace sia di percepirlo che di pensarlo. Noi non potremmo dire: «questo è un albero», oppure: «questa è una statua», se la percezione sensoriale non ci permettesse di riconoscere un albero o una statua, formulandone il concetto (essenza) e permettendoci di riconoscere quella tale specie di albero o di imitare, immaginare, ricordare, la statua che abbiamo visto, o comunque una simile ed essa e svolgente la stessa funzione (esistenza). Dunque c’è una mente, una mente infinita e perfetta, non una mente limitata da mille lati come la nostra, che è in grado di rendere il mondo percepibile e pensabile da parte nostra. Se così non fosse, o non ci accorgeremmo dell’esistenza del mondo, nel senso che non saremmo in grado di percepirla, oppure esso sarebbe per noi qualcosa di molto peggio di un mistero: sarebbe un assurdo. E a che servirebbe l’esistenza di un mondo infinitamente ricco e affascinante, in tutto il dispiegarsi della sua magnificenza, se noi non arrivassimo neppure a comprendere il senso e la natura della più piccola delle sua parti, per non dire dell’insieme?

C’è infine un’ultima considerazione da fare su tutto ciò. Una mentre infinitamente sapiente e organizzata ha voluto che noi, la parte pensante della creazione, potessimo non solo percepire, come un bambino percepisce il prato, il cielo e il pallone dietro al quale sta correndo, sa che potessimo anche comprendere, almeno fino ad un certo punto, l’immensa complessità e l’impareggiabile armonia di cui è intessuto l’universo. Noi vediamo un albero e comprendiamo, oltre alla sua intrinseca bellezza, il suo significato nell’economia degli esseri viventi; siamo in grado di afferrare che è grazie al suo fogliame, e a tutta la vegetazione della terra, che si deve la possibilità dell’esistenza di tutti i viventi, grazie al miracolo quotidiano della fotosintesi clorofilliana: la trasformazione di materiali di scarto della vita (anidride carbonica) in ossigeno puro e quindi in una sempre rinnovata possibilità di vita, di riproduzione, di propagazione. La nostra mente è in grado di capirlo e, per conseguenza, il nostro cuore è il grado di stupirsi, di commuoversi, di ringraziare. Senza questo impercettibile processo chimico, assolutamente spontaneo, gratuito e silenzioso, regnerebbe ovunque la morte. E senza gli alberi, le piante, i fiori, il singolo filo d’erba, noi non vi saremmo. Questo ci è chiaro: la nostra mente è fatta in guisa da capirlo e da apprezzarlo. Essa è pure consapevole che non potrebbe mai, neppure con la sua tecnologia più sofisticata, riprodurre un fiore, né trarre ossigeno dall’anidride carbonica senza l’aiuto della natura. Dunque la mente che ha fatto tutto questo, e lo ha reso intelligibile a noi esseri mortali, è una mente di una potenza, di una creatività, di una forza espansiva assolutamente senza pari e senza rivali. E questo era solamente un piccolo saggio della sua sapienza e della nostra piccolezza. Che si deve pensare di una mente di tale onnipotenza, che sa chinarsi delicatamente su tutte le sue creature, illuminare il fiore, proteggere la tana dal freddo, fornire all’ingegnosità umana tutto quanto le può occorrere per condurre una vita operosa e ben ordinata? Si tratta di cose assolutamente gratuite: ci sono, ma avrebbero potuto non esserci. Quella mente prodigiosa avrebbe potuto concepirne l’essenza, ma non dar loro l’esistenza (actus essendi): mentre è per il fatto di esistere che noi riceviamo ogni sorta di beni, come da una cornucopia inesauribile.

Di quale natura sarà una tal mente, dunque, se non, incommensurabilmente buona, pietosa, compassionevole, e sollecita al massimo grado del bene di tutte le cose create, sicché ciascuna possa realizzare il massimo della propria (relativa) perfezione? Sarà di una perfezione che noi non arriveremmo neanche a immaginare, se il Verbo non ce lo avesse rivelato, incarnandosi per amore.

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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