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E dopo l’anima, via la coscienza: che cosa resta?

Già da parecchi secoli la filosofia si è giocata il concetto di anima: l’ha relegato in soffitta, poi ha gettato via la chiave, timorosa che qualcuno lo andasse a riesumare, o piuttosto timorosa che il suo ricordo gettasse una luce derisoria su di lei, dopo che si era emancipata dalle superstiziose credenze nella dimensione soprannaturale. La filosofia, infatti, ha smesso di parlare dell’anima a partire dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo, ma già dal Rinascimento cominciava a parlarne in un senso nuovo e diverso. La cesura si colloca all’epoca di Bernardino Telesio; con Bruno e Campanella, ormai si parla di anima quasi solo per indicare l’anima sensitiva, nel senso averroistico, e non più l’anima come dimensione immortale dell’uomo, in senso platonico e agostiniano, e neppure in senso tomista. Ha continuato a parlarne solo la teologia: ma dal XVII secolo la teologia ha perso la corona di regina delle scienze ed è stata sostituita dalla matematica; mentre la filosofia ha incominciato quella deriva materialista, sensista e immanentista, che l’avrebbe portata alla presente desolazione, cioè a ritenersi degna tutt’al più di far sue le conclusioni della chimica, della biologia, della fisica, e in parte delle cosiddette scienze umane, o di esercitarsi nell’analisi del linguaggio, ma non più autorizzata a dire una sua parola, avendo perso il terreno specifico sul quale esercitare la sua riflessione: la totalità.

A partire da Hume e da Kant la filosofia ha deciso di sbarazzarsi della metafisica, ragion per cui non è più stata in grado di pensare la cosa in sé: a quel punto non le restava che una lunga agonia, accompagnata da un’altrettanto lunga eutanasia. Auto-inibitasi il pensiero dell’anima; auto-inibitasi il pensiero della metafisica; auto-inibitasi il pensiero della cosa in sé, e quindi dell’ontologia, che cosa le restava da fare, se non la valletta delle scienze fisiche? E così è stato. L’abbandono del concetto di anima è stato il preludio all’abbandono del concetto di coscienza. Non è necessario, dicono i filosofi del tardo XX secolo e quelli del XXI, che ci sia una coscienza: basta che ci sia un sistema nervoso, che ci sia un cervello e che ci siano le funzioni cerebrali; basta che ci siano le funzioni neurochimiche. Lo spirito? Una fantasia dei greci e dei filosofi medievali. La coscienza? Un’ipotesi indimostrabile e, in ogni caso, una inutile appendice. Non c’è bisogno che ci sia una coscienza (dopotutto, il rasoio di Ockham è sempre utile!), basta che ci sia un flusso di sensazioni, di pensieri, di funzioni cerebrali. In fin dei conti, aveva ragione Pirandello: non c’è un io, ci sono solo delle maschere; non c’è una coscienza, ma solo uno scorrere di stati d’animo, di aggregazioni mentali temporanee. Tutto parte dal cervello e tutto termina col cervello: il mondo spirituale, o cosiddetto tale, non è che un epifenomeno del mondo fisico. Datemi dei circuiti cerebrali e vi darò il Simposio, la Divina Commedia e le tragedie di Shakespeare; vi darò la musica di Bach, Fidia e la cattedrali, Raffaello e Van Gogh. Che cosa siamo noi? Un prodotto del nostro sistema cerebrale. Possiamo dire qualcos’altro, possiamo azzardarci su un terreno diverso? Certo che no: sarebbe voler fare della metafisica. E l’uomo moderno ha impiegato sei secoli per emanciparsi dalla metafisica; non si deve tornare indietro, sarebbe come confessare la sconfitta della ragione. Lo diceva già Hume: bruciate tutti i libri che parlano della metafisica! E così è stato: non li hanno bruciati, però li hanno chiusi in soffitta e han gettato via la chiave.

Ora, il pensiero moderno ha fondato tutto il suo programma e tutte le sue promesse sul libero esercizio della ragione; ma la ragione, a un certo punto, gli ha imposto di sbarazzarsi, come fossero zavorra, dell’anima, dell’immortalità, di Dio, del soprannaturale, dell’invisibile; poi, per ultimo, anche della coscienza, l’ultima trincea che alcuni filosofi post-moderni hanno cercato di difendere, come David Chalmers, con la sua teoria degli zombi. Ma no, gi hanno risposto i vari Churchland (Paul e Patricia: marito e moglie; più la figlia, come in una premiata ditta universitaria): se c’è l’elemento fisico, vi può essere il pensiero; ma nessun pensiero è possibile senza una origine fisica. Non ci si gratta la testa perché si ha prurito, questo sarebbe un atto volontario dettato dalla coscienza; ci si gratta la testa perché la testa prude (già, ma a chi?), e il braccio si muove per rispondere a uno stimolo fisico-chimico. Così si fa filosofia, ai nostri giorni. Del resto, i teorici del pensiero debole l’hanno detto e ridetto: è finito il tempo delle grandi narrazioni, è finito il tempo dei fondamenti. Bisogna adattarsi a far filosofia senza più fondamenti certi e universali: vale a dire che bisogna correre anche se non si hanno più le gambe. Come, non è ben chiaro. Ma una cosa è certa: non gliene importa molto, a costoro, del pensiero; quel che li preoccupa è la praxis, l’agire umano. In fondo, sono quasi tutti dei post-marxisti o dei neo-marxisti, cioè degli hegeliani di sinistra travestiti da post-moderni; come Vattimo, che nel 2015 scopre… il comunismo.

Scrive Maurizio Ferraris nel manuale Il gusto di pensare (Torino, Paravia, 2019, vol. 3, La filosofia da Schopenahher ai dibattiti contemporanei, pp. 793-794):

A filosofi come Nagel, Crane, Lowe, e Chalmers, per i quali la coscienza è un tratto essenziale dell’attività mentale non riducibile alle entità e alle leggi su cui vertono le scienze naturali, si oppongono filosofi come Daniel Dennett, Paul Churchland e Patricia Churchland, per i quali lo studio neurologico del cervello è tutto quel che occorre per spiegare l’attività mentale, senza bisogno di postular stati mentali muniti di coscienza. 

Paul e Patricia Churchland (nati rispettivamente nel 1942 e nel 1943) difendono una concezione ELIMINATIVISTA, secondo cui la nozione di "coscienza" risulta scientificamente vuota, e pertanto destinata ad esser "eliminata" con il progredire delle neuroscienze, e rimpiazzata da nozioni scientifiche appropriate.

Analogamente, per Daniel Dennett (nato nel 1942), l’evidenza intuitiva di essere un soggetto capace di stati coscienti (soggettivi, prospettici, in prima persona) è un effetto illusorio, che deriva dal funzionamento del cervello:

"Nel nostro cervello c’è un’aggregazione un po’ abborracciata di circuiti cerebrali specializzati, che grazie a svariate abitudini indotte in parte dalla cultura in parte dall’auto-esplorazione individuale, lavorano insieme alla produzione più o meno ordinata, più o meno efficiente, più o meno ben progettata di una macchina virtuale, la "macchina joyciana" ("Coscienza").

Il soggetto è per Dennett una "macchina virtuale", in quanto non corrisponde a un circuito cerebrale specializzato, bensì sorge dalle interazioni transitorie fra vari circuiti cerebrali; ed è una "macchina joyciana", in quanto si presenta in forma di un flusso di coscienza. Così inteso, il soggetto è illusorio, perché si presenta come il "comandante" dell’equipaggio cerebrale, mentre di fatto è al massimo il "portavoce" della coalizione di circuiti specializzati che in un certo momento risulta al comando dell’equipaggio. Al cambiare della coalizione  cambia anche il portavoce. L’idea di un soggetto unitario di coscienza è, in quest’ottica, soltanto un effetto ingannevole, derivante dal rapido susseguirsi dei vari portavoce.

È chiaro che la premiata ditta Churchland & Churchland si è spinta assai oltre il pensiero debole, dato che il pensiero, per essa, non è che un lusso che la materia si concede quando ha raggiunto un sufficiente grado di complessità chimica e fisica; ma è altrettanto chiaro che il pensiero debole è la sua base teorica, la sua premessa logica, come un trampolino, l’ultimo, dal quale ha spiccato il (folle) volo. Abbiamo detto che il pensiero debole sostiene la liceità, anzi, la necessità di fare filosofia in assenza dei fondamenti. Come? Sostituendo al pensiero logico e assertivo un pensiero fluido, dialogante, aperto e sempre disponibile a modificarsi secondo le circostanze. Un sapere inclusivo, in buona sostanza. Che meravigliosa parola: inclusione! C’è da chiedersi se le svolte decisive della seconda metà del XX secolo, in particolare il Concilio Vaticano II e il ’68, non siano state il prolungamento del pensiero debole sul terreno della praxis. Il Concilio soprattutto, con la sua smania di dialogare anche con chi rifiuta il dialogo, di gettare ponti, di scardinare porte e finestre, di accogliere tutti, di cercare per forza una sintesi. Alla faccia della Verità e di duemila anni di storia del pensiero — oltre che di duemila anni di storia della Chiesa. Eppure è così: se si vuol trovare una mediazione ad ogni costo, si rinuncia alla verità, perché la verità è una, non è negoziabile, non è dialogante, è quella e non altro. Uno dei padri nobili del pensiero debole, Gianni Vattimo, ha teorizzato un cristianesimo senza la dimensione religiosa, un cristianesimo desacralizzato, laico e immanente, fatto di azione, non di dogmi e tanto meno di strutture ecclesiali specifiche. Potrebbe sembrare una balordaggine senza alcun legane con la realtà, invece è quel che sta accadendo nella sedicente chiesa del signor Bergoglio. Vuoi vedere che Bergoglio, Paglia, Galantino e Sosa Abascal sono andati a lezione da Gianni Vattimo, oltre che da Karl Rahner? Di fatto, la chiesa di Bergoglio è precisamente questo: un vangelo con la minuscola, uno fra i tanti, una proposta, una proposta laica e fatta a mezza voce, sussurrata così piano che a stento la si può udire, perché non vuole essere invasiva, non vuol essere arrogante, anzi deve farsi perdonare duemila anni di arroganza, quindi è disposta, dispostissima a farsi piccola fra le altre verità, qui il luteranismo, là il giudaismo, e poi l’islamismo, il buddismo, l’ateismo, tutte le religioni e anche il rifiuto della religione. Pensiero debole, religione debole; pensiero debole, niente dogmi; pensiero debole, niente dottrina. Bergoglio è l’alunno più coerente, più consequenziale di Gianni Vattimo: meriterebbe un dieci e lode. Dio? Abbiamo tutti lo stesso Dio; è solo questione di nomi, di forme, di convenzioni. Tutti chi? Tutti, proprio tutti. Anche gli islamici che negano la divinità di Cristo; anche i protestanti che rifiutano il culto a Maria Vergine; anche gli ebrei che continuano a ritenere Gesù un falso profeta, un impostore e un bestemmiatore, altro che Figlio di Dio. Eppure Dio, nella sua saggezza, ha voluto tutta questa bella varietà (si vede che suo Figlio si è fatto carne a scopo di turismo, per farsi un giretto sulla terra e sgranchirsi un po’ le gambe: era stufo di stare in Cielo, presso il Padre); e, dopo averlo messo nero su bianco, ad Abu Dhabi, nell’incontro con le massime autorità islamiche del Medio Oriente, ora il signor Bergoglio pretende che in tutta la Chiesa, mediante le conferenze episcopali, sia diffusa questa nuovissima interpretazione del cattolicesimo: cioè che sono vere, belle e buone tutte le strade che portano a Dio. E anche quelle che non portano affatto a Dio, perché Lo rifiutano e non ne vogliono sapere di Lui.

Che dire di tutto questo? L’uomo è, in gran parte, quel che pensa di essere, quel che desidera essere. A forza di sentirsi ripetere, negli ultimi due secoli, che è solo un organismo biologico, evoluto a caso e destinato al nulla, ha finito per crederci. A forza di sentirsi dire che cercare la verità, e affermare che la verità è una, equivale a un atto di arroganza ed è la fonte di tutte le intolleranze, le ingiustizie e le violenze di questo mondo, ha finito per crederci. A forza di sentirsi dire che il pensiero serve solo a reggere lo strascico della scienza e della tecnica, a far da cameriere a chi ne sa più di lui, anche perché non c’è una coscienza cui rivolgesi per avere approvazione, e meno ancora un’anima, ha finito per credere anche a queste cose. Ora si trova a questo punto: non sa più chi è; non sa più che ci sta a fare al mondo; non sa verso cosa è diretto; non sa che uso fare della sua vita, della sua intelligenza, della sua volontà — a parte costruire macchine, macchine e ancora macchine, sempre più potenti, sempre più veloci, sempre più sofisticate. Fra poco non avrà più alcun bisogno di muoversi da casa, anzi, di uscire dalla sua stanza o di alzarsi dalla poltrona: non solo le macchine faranno ogni servizio al posto suo, ma soddisferanno ogni suo desiderio di qualunque genere, gli creeranno una dimensione parallela nella quale troverà tutto quel che desidera, le emozioni, i sentimenti, i pensieri, perfino il sesso. Non avrà più bisogno di nulla: avrà trovato la pace e sarà felice, realizzato, irraggiungibile dalle miserie di questo mondo. Un microchip nel cervello eviterà al potere il fastidio di impartirgli ordini: li eseguirà da se stesso, senza discutere: sarà programmato per questo. Del resto, è logico: se l’uomo è solo un essere biologico, perché non domandare aiuto alla tecno-scienza, e dotarlo di tutte le apparecchiature che possono rendere più efficienti le sue prestazioni, e, al tempo stesso, per rendergli l’esistenza più gratificante, anche a costo di sostituire alla realtà vera una realtà fittizia? Dopotutto questo non è un problema, dato che la verità non esiste. E se la verità non esiste, chi può dire che il signor X, beatamente sprofondato nei suoi sogni virtuali grazie a un computer sofisticatissimo, non si trovi in una realtà altrettanto vera, se non più vera, di questa qui, aleatoria, elusiva, sfuggente, fatta di tempo reale e spazio reale, ma, ahimè, terribilmente imperfetta, e qualche volta perfino dolorosa? Non sia mai: a che altro serve la scienza, se non ad alleviare e, se possibile, a rimuovere la sofferenza? Quello che stiamo vivendo è l’atto di morte della filosofia. Nessuna meraviglia: è l’uomo in quanto uomo, che sta morendo. Da quando ha volto le spalle a Dio è divenuto di peso a se stesso: che ci sta a fare sulla terra? Non lo sa più neanche lui…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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