
Militia est vita hominis super terram (Gb 7,1)
6 Marzo 2019
Se sparisce la fede cristiana, regredisce la persona
11 Marzo 2019Una definizione abbastanza calzante della malinconia potrebbe essere questa: la malinconia è lo stato d’animo dello spirito finito che aspira all’infinito. Potrebbe sembrare una sindrome specificamente romantica, e in effetti è uno dei tratti caratteristici della psicologia, oltre che della poetica, del romanticismo; eppure, una breve riflessione permette di concludere che essa non è affatto un prodotto storico di quella stagione culturale, ma è l’espressione di un aspetto essenziale della condizione umana in quanto tale. L’uomo non è veramente uomo senza la relazione con Dio; se essa si allenta o viene rifiutata, egli si abbassa al di sotto della propria natura; tuttavia, se viene accettata e sviluppata, essa lo porta oltre se stesso, e questo essere proiettato aldilà del suo essere genera, necessariamente, la malinconia. Che altro è, infatti, la malinconia, se non la nostalgia di qualcosa che non è raggiungibile, e che nondimeno viene avvertita come essenziale per la propria felicità? È come camminare nel vuoto: si ha nostalgia del terreno solido, su cui posare i piedi; però, nello stesso tempo, si sente che così deve essere: che il luogo cui si è destinati non è quaggiù, e quindi non ci si può arrivare camminando, non è questione di tempo o di spazio, ma di un altrove assoluto, che certamente esiste, ma che non è segnato su nessuna carta geografica, perché nessun uomo vivente lo ha mai visto o, se pure lo ha visto, nessuno è stato capace di riferirne esattamente l’ubicazione. Chi c’è stato, non ha poi le parole per dirlo.
Per capire la malinconia dello spirito finito che si protende verso l’Assoluto, è utile leggere il Diario del più grande pensatore cristiano dell’epoca moderna, Søren Kierkegaard, e inoltre il suo Punto di vista della mia attività letteraria: scritti nei quali egli si guarda allo specchio e si scruta con spietata, inesorabile sincerità, sino in fondo all’anima, non per una forma di compiacimento e quasi di narcisismo morboso, ma con la forza e il coraggio di un uomo che vuol fare i conti con se stesso, una volta per sempre, al cospetto di Dio, perciò senza nulla fingere, senza nulla omettere e senza nulla aggiungere a quanto è necessario per mettere a nudo la verità, tutta intera, senza veli o falsi pudori.
Abbiamo scelto tre distinte annotazioni, fra le moltissime che avremmo potuto scegliere, di questo straordinario osservatore della realtà, che fu anche uno straordinario osservatore di se stesso (cit. in Romano Guardini, Ritratto della malinconia; traduzione dal tedesco di Romana Guarnieri, Brescia, Morcelliana, 1954, pp. 15-16; 20-22; 24-26):
Io non sono stato mai uomo: questa, sin dalla nascita, la mia sventura; la quale divenne completa a causa della mia educazione. Quando si è fanciulli, e gli altri fanciulli giocano, scherzano, fanno quant’altro usano fare; e, ahimè, quando si è adolescenti, e gli altri adolescenti amano, ballano, fanno quant’alto usano fare: allora, essere spirito, pur essendo fanciullo e adolescente, che tremenda tortura — più tremenda, se, con l’aiuto della fantasia, si conosce l’arte di apparire addirittura il più giovane di tutti! Simile sventura, peraltro, sulla quarantina è già minore; nell’eternità non esiste più affatto. A me non è stata donata l’immediatezza, e perciò, in un senso tutto umano, non ho vissuto; ho cominciato direttamente dalla riflessione, in luogo di raccogliere solo più tardi un po’ di riflessione; in certo qual modo, io sono tutto riflessione dal principio alla fine. Nei due periodi della immediatezza, la fanciullezza e l’adolescenza, io abilmente, come del resto è sempre abile la riflessione, mi sono aiutato o avrei voluto aiutarmi con una giovanilità tutta d’imitazione, e, senza ancora rendermi conto del dono a me concesso, ho patito sino in fondo il dolore di non essere io come sono gli altri. […]
Senonchè anche sotto un altro rispetto, durante tutta la mia attività di scrittore, ho avuto bisogno della assistenza di Dio, giorno dietro giorno, nel corso degli anni; è stato lui il mio solo confidente; unicamente fidando nella Sua consapevolezza m’è stato dato di osare quel che ho osato, e sostenere quel che ho sostenuto, e ho potuto trovare la beatitudine mentre immane mondo io ero solo, letteralmente solo. Dovunque io fossi, sugli occhi di tutti o a quattr’occhi col più fidato degli amici, sempre sono staro come avviluppato in un inganno, e dunque solo; nella solitudine della notte non avrei potuto essere più solo. Ero solo, non già in una foresta d’America con i suoi terrori e pericoli, bensì solo in compagnia delle più terrificanti possibilità, di fronte alle quali anche la REALTÀ più spaventosa è di refrigerio e sollievo; solo in compagnia delle POSSIBILITÀ più terrificanti; solo, quasi in dissidio con la lingua umana; solo, in torture le quali m’hanno insegnato assai più che una nuova glossa a quel tale testo dello "stimolo conficcato nella carne"; solo, di fronte a decisioni nelle quali un uomo avrebbe bisogno del sostegno di amici, possibilmente dell’intero genere umano; solo, in tensioni dialettiche che (senza Dio) avrebbero fatto impazzire chiunque altro fornito della mia fantasia; solo, in angosce mortali; solo, senza potermi far intendere (quand’anche lo avessi desiderato) anche soltanto da una persona sola. Ma che dico "una persona sola"? ho conosciuto tempi in cui non mi mancava più neanche quello, di modo che non potevo dire neanche: "non ci mancava altro"; tempi in cui non mi riusciva più di rendermi intelligibile neanche a me stesso. Se penso ora che a questa maniera ho passato degli anni, mi sento rabbrividire; basta che io traveda uj solo attimo, perché mi senta crollare. Se però vedo gusto, se faccio in modo da trovare nella fede la pace, fidando nella consapevolezza di Dio, subito la beatitudine ritorna. […]
Strano come l’amore di Dio mi violenta. Ahimè, non conosco infine preghiera più vera, che tornar sempre da capo a pregare Iddio che voglia intanto concedermi di non adirarsi con me, perché io lo ringrazio ininterrottamente di aver fatto Lui e fare — sì, fare tuttora — tanto di più, indescrivibilmente di più, di quanto io mi attendessi. Cinto di scherni, giorno dopo giorno tormentato dalla gente, dalla piccineria persino dei familiari più intimi, non so che altro fare, qui in casa come nel mio intimo, se non ringraziare Dio. Un uomo — e che cosa è un uomo, innanzi a Dio? nulla, meno di nulla; – per giunta un pover’uomo, precipitato, bambino ancora, nella più miserevole malinconia, oggetto di paura anche a se stesso; ed ecco che Iddio mi aiuta a questo modo, e mi concede quel che mi ha concesso! Una vita che m’era di peso (nonostante che, di tempo in tempo, ne percepissi anche tutte quelle felici disposizioni) e che, al pari di tutto il resto, mi veniva amareggiata dal punto nero che guastava tutto (…) di una vita simile Iddio si occupa. Egli mi lascia in quieta solitudine piangere innanzi a Lui; mi lascia piangere sino in fondo tutto il mio dolore, consolato dalla consapevolezza che Lui si occupa di me — e intanto conferisce Lui a questa vita di dolori un significato, che per poco non mi soggioga; e mi dona felicità e forza e saggezza per tutte le mie prestazioni, acciocché io faccia, di tutta intera la mia esistenza, una pura espressione di idee; per lo meno, tale Egli la faccia.
Perché così ora vedo con estrema chiarezza (e ciò rinnova un’altra volta la mia gioia verso Dio, e la mia gratitudine) che è stata disposta la mia vita. La mia vita ha cominciato senza immediatezza, con una spaventosa malinconia, già sconvolta sin dalla prima fanciullezza nel suo fondo più profondo; una malinconia, che per un certo periodo mi spinse a peccati e ad eccessi, con tutto che, da un punto di vista umano, io fossi da dire più un folle che un colpevole. Ciò che in ultimo mi arrestò, fu la morte di mio padre. Che quella miseria fondamentale della mia vita potesse venir tolta dimezzo, non osavo crederlo; e così mi attaccai all’eterno, nella beata certezza che Dio è amore, quand’anche io dovessi per tutta la vita soffrire a quel modo. Sì, beata certezza. Guardai, dunque, in faccia alla mia vita.
Tuttavia non abbiamo provato a spiegare perché la malinconia, se è un tratto costante dell’anima umana che si proietta oltre se stessa, verso Dio, appare più evidente nel romanticismo, come se ne fosse una caratteristica specifica; e anche Kierkegaard, del resto, per il contesto storico in cui si svolge la sua vita, all’incirca la prima metà del XIX secolo, si può accomunare alla temperie psicologia e culturale di quel grande movimento. In realtà, a noi pare che non solo il romanticismo, ma tutte le epoche di trapasso abbiano la tendenza a far emergere, con più forza e consapevolezza, quel fondo di malinconia che è sempre presente nell’anima umana, e ciò per la buona ragione che, nelle epoche di trapasso, pare che Dio si occulti, svanisca insieme ai vecchi valori e punti di riferimento, e ciò genera smarrimento, angoscia e nostalgia. All’alba dell’umanesimo, quando l’Europa esce dal paradigma cristiano medievale, ecco la malinconia di Petrarca, unita al senso di sdoppiamento della propria personalità e di alienazione rispetto a se stesso; in pieno rinascimento, ecco la Melencolia di Albrecht Dürer, che sembra meditare sulla rottura incombente dell’anima europea, e par contemplare desolata le macerie di un mondo in rovina (siamo nel 1514: mancano appena tre anni alla ribellione di Lutero contro la Chiesa cattolica, che aprirà una ferita mai rimarginata); e tre secoli e mezzo dopo, nel 1857, nei Fiori del male di Baudelaire, ecco Spleen, la poesia-manifesto della malinconia che si trasforma in taedium vitae, cioè in quella che i tedeschi chiamano Sehnsucht. Si potrebbero fare molti altri esempi; e se ne potrebbero fare anche numerosi a contrario. In Dante non c’è malinconia, perché il mondo di Dante è ancora ben saldo nelle sue certezze teologiche, filosofiche e morali (il suo, non quello dei suoi contemporanei: come tutti i grandi, Dante risente l’influsso della propria epoca, ma non lo subisce passivamente), così come non ce n’è nei poemi di Omero. Viceversa, essa è evidente in Enea, il pius eroe che tanto piace ai moderni perché scisso e travagliato fra il senso del dovere e i suoi personali, umanissimi desideri. Ed è malinconico, per definizione, don Chisciotte della Mancia, il cavaliere errante che non ha più un mondo cavalleresco in cui agire, e perciò si muove come nel vuoto; e sono malinconici Amleto, Re Lear, Prospero, Romeo e perfino i personaggi del Sogno d’una notte di mezza estate, perché al di là del sorriso sulla mutevolezza dei sentimenti umani, essi sfiorano, pur senza volerlo, il grande segreto della malinconia, così come accade ai personaggi dell’Orlando furioso di Ariosto: ossia che per sfuggirla, bisognerebbe cessar d’essere uomini.
E tuttavia, tutto questo non ci basta. Vogliamo capire meglio perché la malinconia appartenga allo statuto ontologico dell’uomo e quale uso si debba fare, o non fare, di essa. La maggior parte degli uomini, infatti, la considera un male; l’accoglie malvolentieri, la combatte per quanto può e, se non può, la sopporta malvolentieri; non vede l’ora che se ne vada e lo lasci in pace. In effetti, dobbiamo distinguere due generi di malinconia, uno buono e uno cattivo. La cattiva malinconia è quella che provoca le vertigini per l’intuizione dell’Assoluto in uno spirito finito che sa guardare solo verso la terra: per un tale spirito, essa è semplicemente troppo; è più di quanto possa sopportare. La buona malinconia è quella che si desta nello spirito finito che è capace di levare lo sguardo verso le altezze e comprende che lassù è la sua vera patria: essa è buona, perché lo abitua a disprezzare ciò che è secondario e a concentrarsi su ciò che è essenziale nel cammino della vita. Come il buon alpinista, l’homo viator deve sbarazzarsi del peso superfluo e procedere recando con sé soltanto le cose strettamente indispensabili, beninteso se vuol sperare di giungere sulla vetta. Le vette sono fatte per coloro i quali sanno sacrificare tutto ciò che è secondario; chi non lo sa fare, deve accontentarsi di vivere nelle bassure. Il richiamo dell’Assoluto, in un certo senso, è più di quel che la natura umana riesca a portare: ed è per questo che il vero pellegrino conosce il segreto per giungere alla meta: quello di riconoscere la propria insufficienza e di rivolgersi a Colui che lo attende al termine del viaggio. Nessuno può farcela da solo. Tale è la natura umana: deve essere per forza qualcosa di meno o qualcosa di più di ciò che essa è in quanto creatura terrestre. Mentre, però, chiunque può abbassarsi al disotto, perché è sufficiente lasciarsi trasportare dai propri istinti più bassi, per innalzarsi al disopra è indispensabile chiedere la grazia di Dio. E questo richiede un atto d’umiltà, di cui solo i più forti sono capaci: perché solo i più forti e i più leali sono disposti a riconoscere la loro debolezza e la loro fragilità. E questa è la differenza essenziale fra un Voltaire e un Kierkegaard, o fra un Machiavelli e un Dante. Voltaire e Machiavelli appartengono al tipo umano che si ubriaca di orgoglio per le proprie possibilità, e che perfino quando parla dei limiti dell’uomo, come fa Voltaire nel Candido, o come fa Machiavelli quando tratta, nel Principe, il tema della Fortuna, lo fa sempre gonfiando il petto d’orgoglio: come l’imperatore Costanzo II, che — narra Ammiano Marcellino — quando passò col suo cocchio sotto l’arco di trionfo in Roma, abbassò lievemente il capo: pur essendo di bassa statura, in quanto imperatore si riteneva troppo grande per passare tranquillamente come un uomo qualsiasi. Ma gli uomini davvero grandi non esitano a riconoscere la loro piccolezza e l’assoluto bisogno che qualunque essere umano ha della grazia divina. Senza di essa, l’uomo è destinato a precipitare nel fango; con essa, può levarsi fino a l’amor che move il sole e l’altre stelle.
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