
L’intellettuale? Un fighetto che non ha capito un c
25 Febbraio 2019
Cosa non deve fare un consacrato se perde la fede
26 Febbraio 2019L’angoscia è la nostra compagna inseparabile; ne faremmo volentieri a meno, ma essa ci segue come un’ombra, ostinata, inesorabile. Ma poi, è proprio vero che ne faremmo volentieri a meno? Non è forse vero che, in qualche strano modo, al fondo della nostra anima, noi la desideriamo, o quanto meno la evochiamo, sentendo che essa gioca un ruolo insostituibile nella nostra vita? Che cosa saremmo noi, che faremmo, come daremmo una direzione a noi stessi, se non fossimo pungolati, tormentati, tribolati dall’angoscia? Ma che cos’è poi, l’angoscia? Siamo sicuri di saperlo, di saperlo veramente? Non accade che noi ci accorgiamo di lei e ci occupiamo di lei per esclusione, cioè quando essa allenta la sua stretta di ferro e talvolta pare quasi essere svanita, ed è allora, sentendo le membra intorpidite che si rinfrancano, assaporando lo strano silenzio che restituisce la sua vera sonorità alla nostra esistenza, che ci rendiamo conto di quanto fosse presente, sino ad averci fatto l’abitudine, non però al punto da abituarci completamente a lei, tanto è vero che una sua interruzione ci colpisce come un fulmine a ciel sereno?
Dunque, partiamo dalla domanda fondamentale: cos’è? È un malessere interiore che si diffonde nella nostra coscienza come un sottile veleno, come una nebbia al termine di una giornata di sole, che stende il suo lugubre mantello su di noi, sprofondandoci in un’atmosfera cupa, tetra, disperata. Ma da dove viene? Viene dal senso di una profonda, irriducibile disarmonia che lacera e divide il nostro essere, e che c’impedisce di godere sino in fondo della nostra vita, perfino nei momenti più belli: simile a un debito ereditato dai nostri genitori, ma non sappiamo perché, contratto a nostra insaputa, e che ora qualcuno si presenta a riscuotere. Ma in che cosa consiste questo debito? Esso consiste nella consapevolezza dell’enorme divario che constatiamo fra il nostro essere così com’è e il nostro essere come dovrebbe essere, come sentiamo che dovrebbe essere e che potrebbe essere, se qualche ostacolo non bene identificato non s’interponesse fra noi e la pienezza di vita cui aspiriamo profondamente. Ma come possiamo avere consapevolezza di questo divario? Perché mai non siamo soddisfatti dell’equilibrio che, bene o male, si è stabilito nella nostra vita, ma anche tutto intorno a noi, fra ciò che è e ciò che potrebbe o dovrebbe essere? Semplice: perché vediamo deluse e frustrate ogni giorno, da noi stessi o dalla realtà a noi esterna, le nostre migliori inclinazioni, i nostri più generosi orientamenti. Ogni giorno andiamo a sbattere contro un limite, contro un ostacolo il quale, ne abbiamo una vaga eppur certa consapevolezza, non dovrebbe esistere, non dovrebbe essere lì, e tuttavia c’è, e vanifica le aspettative più pure che albergano in noi: e non solamente per noi stessi, ma per ogni cosa esistente. Quando vediamo qualcuno che ha duramente lavorato per qualcosa, non riuscire a raccogliere praticamente nulla; quando vediamo qualcuno che ha ben meritato, ricevere come tutta ricompensa invidie, gelosie e calunnie; quando vediamo un nobile sentimento gettato al vento, regalato a qualcuno che non lo meritava, che non lo sa apprezzare, che sembra non vederlo neppure: ogni volta che assistiamo a simili scene e a simili situazioni — e ciò accade continuamente, se solo vi prestiamo attenzione – sentiamo che la nostra coscienza riceve una ferita e che qualcosa, nel nostro essere, si ribella, o vorrebbe ribellarsi, e vorrebbe gridare: No, così no! Non è giusto! Proviamo un moto d’indignazione, di sdegno. E qualcosa di simile proviamo quando una gelata improvvisa uccide i fiori che stavano iniziando a sbocciare, o quando un falco rapace piomba sui piccoli indifesi di un nido, o quando una malattia improvvisa, o un incidente, si portano via una persona buona, che aveva una moglie e dei figli ancora piccoli, o che stava per coronare con il matrimonio un lungo e gioioso fidanzamento, e ciò mentre persone profondamente cattive e nocive alla società, godono di ottima salute, di prosperi affari e di eccellente reputazione, così da ricevere onori e riconoscimenti, ma solo perché sono abili a nascondere i loro vizi ed estremamente spregiudicate nel creare una propria immagine fasulla, fondata sulla menzogna e sulla testimonianza interessata di altre persone spregevoli e servili.
Tutto questo e mille altre cose, grandi e piccole, dello stesso tenore, generano in noi, anche quando non vi pensiamo, ma come una specie di rumore di fondo, un amaro, invincibile sentimento di angoscia, che ci avviluppa nella sua rete opaca e velenosa. Tuttavia non si tratta di una percezione, e meno ancora di una riflessione, sul disordine esistente nel mondo, specie sotto forma di disordine morale; semmai, di una certa quale intuizione che, in questo disordine, noi c’entriamo per qualcosa; non "noi" in senso astratto, non "noi" nel senso dell’umanità, ma proprio noi individualmente presi, ciascuno di noi, per la sua pare. Ecco: non sapremmo dire come, eppure proviamo vergogna e rimorso per il fatto che a questo disordine noi non ci sentiamo estranei; siamo, anzi, decisamente coinvolti: diamo ad esso un contributo non indifferente, e la somma dei nostri comportamenti disordinati genera l’enorme massa di disordine che affligge l’universo intero. Né si tratta solo di comportamenti, ossia di azioni e stili di vita, ma di qualcosa di ancor più profondo: si tratta di una compartecipazione del nostro essere alla disarmonia esistente nel mondo. In altre parole, noi abbiamo il sentimento fondamentale che qualcosa, in noi, è orientato verso il disordine, anche se potrebbe dirigersi verso l’ordine; e ciò pur sapendo, o sentendo, che il disordine è male, ingiustizia e infelicità, mentre l’ordine è bene, giustizia e felicità.
Ma un’altra domanda urge, imperiosa: l’angoscia è un elemento strutturale della nostra natura, fa parte del’uomo, è tutt’uno con la sua condizione ontologica; oppure è un frutto della modernità? Infatti dagli autori antichi, così come da quelli medievali, non emerge la figura dell’uomo angosciato; o meglio, l’uomo è angosciato quando si è posto, da se stesso, al di fuori delle leggi umane e divine: allora, e solo allora, vediamo l’uomo o la donna attanagliati dal sentimento dell’angoscia. Oreste è angosciato per una ragione circoscritta e specifica: aver ucciso la madre Clitemnestra, e sia pure per vendicare l’assassinio del padre, Agamennone: la sua angoscia è soprattutto sentimento della colpa commessa, e, insieme ad essa, la coscienza di aver fatto qualcosa che doveva fare, un imperativo al quale non poteva sottrarsi. Dal cozzo fra questi due doveri, la vendetta del padre e il rispetto della madre, nasce l’angoscia: non è un sentimento universale, ma una condizione legata a quel certo individuo, in quella tale, ed eccezionale, situazione. Ma Penelope, che attende invano il marito da tanti anni e che, pressata da importuni pretendenti al matrimonio, è lacerata fra l’amore e la fedeltà verso Ulisse, e il timore di non potersi opporre indefinitamente a quei pretendenti sgradevoli e arroganti: il suo conflitto non genera angoscia, ma preoccupazione, tristezza, sofferenza. L’angoscia non è una sofferenza generica, ma una sofferenza caratterizzata dal taedium vitae: colui che ne è vittima non scorge più la bellezza del mondo, tutto è divenuto, per lui, molesto e grigio, come un fardello che non riesce più a sopportare. Ebbene, a noi sembra che l’angoscia sia un sentimento tipicamente moderno: prodotto, cioè, dalle particolari condizioni morali e spirituali che caratterizzano la vita moderna. L’uomo pre-moderno conosce un altro sentimento, che esteriormente le somiglia, sia pure alla lontana: l’inquietudine Ma l’inquietudine è sostanzialmente diversa dall’angoscia, perché stimola l’anima alla ricerca di ciò che può dare sollievo, anche se tale ricerca non appare facile e anche se molti non si rendono neppure conto di questa funzione, essenzialmente positiva, dell’inquietudine. L’angoscia, invece, è solamente distruttiva: non genera forze positive, né innesca un circuito virtuoso. L’uomo angosciato è prigioniero di se stesso, odia la vita e non sa che fare, che strada prendere, che direzione darle; l’uomo inquieto è tormentato da un pungolo, ma quel pungolo può divenire la sua salvezza, perché può spingerlo a portarsi su di un piano assai più elevato di esistenza. Di fatto, tutti i grandi uomini, gli artisti, i pensatori, gli esploratori, i condottieri, i mistici, e specialmente i santi, sono stati pungolati a sangue dall’inquietudine, come mirabilmente esprime sant’Agostino: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, Domine: il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in te, o Signore. Mentre l’angoscia non conduce da nessuna parte, tanto meno verso Dio; semmai il contrario, verso il diavolo, perché essa è l’anticamera della disperazione, ed è nella disperazione che il diavolo ci attende per farci schiavi Aiace Telamonio, infatti, è spinto dalla disperazione a suicidarsi, per aver massacrato un gregge di pecore in stato di follia, credendo di vendicarsi degli Atridi. Ma il suicidio di Giuda è frutto d’un altro tipo di disperazione, quella malefica che scaturisce dall’angoscia: a schiacciarlo è l’enormità del male compiuto consapevolmente.
Lo stile di vita moderno, fondato sui disvalori della libertà assoluta, del progresso illimitato e dei diritti sempre più ampi da rivendicare, nonché sulla strapotenza della tecno-scienza e sul disprezzo e l’odio per la tradizione, quindi anche verso la famiglia e particolarmente verso la figura paterna, è tale da generare e alimentare continuamente uno stato di angoscia. E l’angoscia dell’uomo moderno è accresciuta da una serie di comportamenti individuali che i singoli uomini potrebbero risparmiarsi, ma che invece perseguono per il fatto di aver perso il controllo di se stessi e di aver completamente obliato il significato dell’esistenza e, con ciò, lo stesso istinto d conservazione. La maggior parte degli uomini moderni diventano, così, i volontari seviziatori di se stessi: si nutrono di cose brutte, materialmente, intellettualmente e spiritualmente, abitano in case brutte, si dedicano a passatempi brutti, leggono brutti libri e guardano brutti film, ammazzano la noia inseguendo cose brutte e persone brutte, nel cui possesso credono di trovare la felicità, e non fanno che aggravare il loro stato di angoscia cronica. Sono, alla lettera, degli invasati: ormai li possiedono forze malefiche, alle quali loro stessi hanno aperto, incoscientemente, le porte della loro anima. D’altra parte, nessuno dei comportamenti sopra descritti è, di per sé, fonte di angoscia; essi sono piuttosto gli effetti dell’angoscia, come se gli uomini, torturati da essa, cercassero di stordirsi e di non pensare al male che li divora interiormente. Si tratta di un conflitto che si svolge, quasi sempre, al disotto del livello della coscienza, per cui la maggior parte delle persone ne ignora le vere cause, o piuttosto preferisce ignorarle, e con ciò stesso si priva, con le sue mani, di ogni possibilità di redenzione.
Eppure l’angoscia che ci attanaglia, e che in se stessa è una forza puramente negativa, può diventare una "sorella", nel senso francescano del termine, se riusciamo a strapparle il pungiglione velenoso della disperazione e a riportarla entro i limiti dell’inquietudine, forza potenzialmente sana e positiva, che scaturisce dalla nostra condizione creaturale e dal nostro doppio statuto ontologico: immersi con il corpo, gli istinti, le emozioni nel finito, ma proiettati con l’anima verso l’infinito e l’assoluto, cioè verso Dio. Questo è possibile a due condizioni. La prima, e la più importante, è l’abbandono a Dio, mediante un atto di fede: credere in ciò che non si vede, ma sulla Parola di un Dio che si è rivelato, si è fatto conoscere perché si è fatto carne — prodigio di un amore infinito -, ci ha mostrato la via da seguire con il suo stesso esempio e la sua stessa vita. Noi, da soli, con le nostre forze, non possiamo vincere l’angoscia, né trasformarla e sublimarla in inquietudine, così come Dante, da solo, con le sue forze, non può uscire dalla selva oscura e non può oltrepassare il minaccioso impedimento rappresentato dalle tre fiere; ma ciò che è impossibile agli uomini non è impossibile a Dio, perché a Dio tutto è possibile. La seconda condizione riguarda ciò che, effettivamente, dipende da noi ed è in nostro potere, e si tratta in sostanza di questo: una presa di consapevolezza della reale natura della civiltà moderna, nella quale ci troviamo a vivere, ma come in esilio o come in prigione, e una decisa e coerente emancipazione dalle sue cento e cento forme di schiavitù volontaria, di rinuncia alla verità e di abdicazione alla nostra vera dignità. La nostra dignità non consiste ne rivendicare una serie di diritti escogitati dai philosophes e codificati dalle legislazioni moderne, ma nel prenderci cura di noi stessi, coltivando e incoraggiando la nostra parte migliore, quella spirituale, quella desiderosa d’innalzarsi, e disciplinando e incanalando la parte più selvaggia e istintiva, che vorrebbe strapparci di mano le redini, per correre dietro a sempre nuove brame, desideri e capricci. Anche una ragione cinica e spregiudicata, che viene usata per realizzare una libertà di segno puramente negativo, cioè per distruggere senza costruire, è frutto della nostra natura inferiore; e anch’essa deve sottostare al comando della nostra volontà, anch’essa deve piegare le ginocchia davanti a quel che noi le ordiniamo di fare. Sia la passionalità disordinata sia l’arbitrio di una regione sena freni né vincoli morali, rappresentano per noi un gravissimo pericolo e diventano fonte di angoscia, perché c’impediscono di esercitare la piena signoria sopra noi stessi. E come possiamo anche solo immaginare di veder sorgere un mondo migliore di questo, inseguendo mille ricette politiche, economiche, sociali e culturali, se non siamo capaci di ottenere neppure la disciplina da parte di noi stessi? Incominciamo col disintossicarci dagli stili di vita della modernità, partendo dal diabolico consumismo, ed ecco che l’angoscia verrà ricacciata in un angolo, ove non riuscirà a spaventarci né a paralizzarci. Perché abbiamo tanta strada da fare sulla via della vera realizzazione di noi stessi, che è la via del ritorno a Dio: e perder tempo a chi più sa, più spiace…
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