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Quali sono le sorgenti dell’eresia gesuita

Abbiamo visto, nel precedente articolo I gesuiti e il Tao: è sempre lo stesso schema (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/02/19) come i gesuiti, nella Cina del XVII secolo, si siano avvantaggiati della loro predizione di una eclissi di sole, non annunciata da alcun astronomo cinese, per affermare la loro superiorità, e quindi il loro prestigio, alla corte del Celeste Impero. Le loro conoscenze scientifiche si erano mostrate assai superiori a quelle degli studiosi locali; l’intero calendario astronomico, sul quale si reggeva la vita di quell’immenso Paese e che accordava le attività umane con la legge del Tao, si era dimostrato errato e inattendibile. Era stata una vittoria clamorosa sulla cultura locale; ma i gesuiti come se ne avvantaggiarono? Non per portare il discorso sulla religione cattolica, né per presentarsi essenzialmente come missionari del Vangelo di Gesù Cristo; no: preferirono continuare a vestire in primo luogo i panni degli scienziati, sfruttando sino in fondo il prestigio acquisto con la predizione dell’eclissi. In altre parole, la vittoria riportata venne spesa a nome della scienza europea e, in secondo luogo, a nome della Compagnia di Gesù: ma rimase sostanzialmente confinata all’ambito scientifico. Peggio ancora: grazie alla loro dimostrata superiorità scientifica, essi avevamo inferto un colpo durissimo al sistema di credenze fondato sul Tao e sulla casta sacerdotale che ne era la depositaria: ma quel colpo non venne portato in ambito religioso, bensì rimase confinato in ambito scientifico. I gesuiti si erano affermati come scienziati, prima che come missionari; anzi, la loro qualità di missionari, agli occhi dei funzionari e delle persone colte della corte imperiale, restava in seconda linea. Era stata la vittoria di un principio pericolosissimo, che avrebbe rivelato tutte le sue potenzialità negative rivolgendosi contro lo stesso cattolicesimo, cinque secoli dopo, cioè al nostri giorni. In pratica, era stata affermata la superiorità del sapere scientifico rispetto a qualsiasi altra forma di sapere. I gesuiti non avevano detto ai cinesi: veniamo a portarvi la Rivelazione del vero Dio, Gesù Cristo, Dio fatto uomo, morto e risorto per amore degli uomini; ma sfruttarono il successo riportato in ambito scientifico per smontare le credenze cinesi nel sistema culturale locale. In base allo stesso principio, a partire dai primi anni del XX secolo alcuni gesuiti, George Tyrrell (poi espulso dall’ordine e scomunicato), indi Teilhard de Chardin, poi Henri de Lubac, Karl Rahner e Hans Urs von Balthasar, arrivarono a convincersi, sulla scia degli studi esegetici più recenti, ma subendo fortemente l’influsso della scuola teologica del protestantesimo liberale, che una buona parte della Tradizione non poggia su basi sicure. e che perfino la Scrittura deve esser radicalmente reinterpretata, ponendo Gesù "in situazione", come dice il generale dei gesuiti odierno, Sosa Abascal, vale a dire calando sempre le sue parole e le sue azioni in un contesto preciso, e in relazione a degli interlocutori precisi. Il risultato di questo metodo di approccio è una radicale storicizzazione della Rivelazione: non è più Dio che si rivela agli uomini, perché questi non possono giungere alla comprensione diretta di Dio (è la lezione del criticismo kantiano, con la sua esclusione della cosa in sé dall’ambito della ricerca filosofica: lezione che sarà pienamente accolta dai gesuiti e specialmente dal loro capofila al Concilio Vaticano II, Karl Rahner). È, del resto, la linea già imboccata dalla scuola teologica di Lovanio, sotto gli auspici del cardinale Mercier: coniugare il tomismo alla luce di Kant. Conclusione: i Vangeli vanno considerati esattamente come qualsiasi altro documento storico; nessuno sconto, nessun trattamento di favore: bisogna sottoporli alla stessa critica storica e filologica cui si sottopone qualsiasi altro libro. E questo proprio perché i gesuiti, dai tempi di Matteo Ricci, sono rimasti, al fondo, sempre gli stessi: innanzitutto degli studiosi e degli scienziati; poi, membri dell’ordine di Sant’Ignazio di Loyola, consapevoli di rappresentare l’élite della Chiesa cattolica, sia in senso intellettuale che in senso "politico" e organizzativo, e disposti a prendere ordini solo dal papa (ma che sarebbe successo se uno di essi fosse stato eletto papa, contro la loro stessa regola?); infine, e solo da ultimo, sacerdoti cattolici senz’altra qualifica, cioè operai al lavoro nella vigna del Signore Gesù Cristo.

L’errore di questa impostazione che i gesuiti, pomposamente, hanno chiamato svolta antropologica, è duplice. In primo luogo, essa disgiunge la fede dalla ragione, annullando secoli e secoli di riflessione teologica, e specialmente le mirabili sintesi di Sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino. In secondo luogo, essi mettono la fede alla mercé dei risultati delle ricerche scientifiche, come se la fede avesse per oggetto una realtà puramente naturale, mentre è vero il contrario, che ha per oggetto la dimensione soprannaturale. E, una volta presa questa direzione, diviene inevitabile tutta una serie di altri errori: primo fra tutti, applicare alla fede le categorie dell’indagine scientifica e cioè presupporre in anticipo che può essere vero solo ciò che si può provare scientificamente, vale a dire che la fede cristiana può essere accettata solo se essa, a sua volta, accetta per prima cosa di sottoporsi agli "esami di controllo" come qualsiasi altro ambito del reale. Ma se a fare tali esami è una scienza immanentista, meccanicista e antifinalista, come lo è la scienza occidentale moderna dopo Galilei, non esiste il minimo dubbio che questa finirà per trovare solo ciò che presuppone come esperibile, e non altro. Si cade così in un procedimento tautologico: la ragione scientifica moderna non ammette altra verità se non quella che essa stessa può certificare; ma essa non è disposta a certificare nulla che non soggiaccia ai suoi parametri conoscitivi, immanentisti, meccanicisti e antifinalisti: dunque, posto che la fede cattolica possa superare un simile esame, è evidente che ne uscirà conformata ai parametri anzidetti, cioè rivista e corretta in chiave immanentista, meccanicista e antifinalista. A quel punto, però, non sarà più quel che era al principio; non sarà più la Rivelazione soprannaturale di Dio agli uomini, per rischiarare le tenebre della loro ignoranza; sarà, al contrario, una "fede" cucita sulla misura della scienza materialista, cioè non più una vera fede, se fede è credere in ciò che è invisibile e inesperibile, ma che si è rivelato per mezzo di segni soprannaturali.

Facciamo un esempio. Quando il signor Bergoglio, tipico prodotto di questa deriva gesuita verso l’irreligiosità, afferma pubblicamente che la Morte sulla Croce di Gesù è un fatto storico, mentre la sua Risurrezione è un fatto di fede, è come se dicesse che alla Morte di Gesù tutti sono tenuti a prestar fede, credenti e non credenti; mentre alla Resurrezione possono prestare fede solo i credenti. Ma cos’è che rende credente il credente, se non il fatto di lasciarsi illuminare dalla fede, che è lo sguardo di Dio sopra di lui, e non dalla scienza, che è lo strumento elaborato dagli uomini per indagare le cose del mondo naturale? Una frase come quella di Bergoglio è un’aperta dichiarazione di miscredenza: equivale a dire che le verità della scienza (e della storia) sono certe e inconfutabili, e s’impongono alla ragione di tutti, mentre quelle della religione hanno valore solo all’interno di un certo sistema di credenze religiose. Pertanto, non solo le verità della fede sono intrinsecamente inferiori alle verità della scienza, ma la loro attendibilità e la loro veritatività sono ammissibili solo all’interno del loro rispettivo sistema culturale e spirituale. In altre parole: è vero quel che dice la Torah, ma per gli ebrei; è vero quel che dice il Corano, per gli islamici; ed è vero quel che dicono i Vangeli, ma solo per i cattolici. Non è vero perché è vero, ma è vero se c’è qualcuno disposto a crederci: mentre il sapere oggettivo, scientifico e storico, se ne lava le mani, perché non è affar suo. Sulla stessa linea di pensiero si era mosso il signor Bergoglio allorché aveva dichiarato che l’aborto non è una questione di fede, ma sociologica, e che bisogna considerarla in termini sociologici. E per rafforzare ulteriormente il concetto, aveva anche detto di non voler sentir parlare dell’aborto, né del giudizio da dare su di esso, secondo un approccio di tipo religioso, perché si tratta di una realtà che può essere compresa e giudicata soltanto sociologicamente. È pazzesco, ma è così: lo ha detto, e lo ha detto con molta convinzione. Che un papa dica simili cose, indica chiaramente fino a che punto la strategia gesuita di rovesciamento della fede sta avendo successo: ormai siamo giunti al punto che un pontefice romano (gesuita, quindi illegittimo) può permettersi di dire apertamente quel che, se fosse stato detto da un qualsiasi parroco, gli sarebbe costato certamente, fino a qualche anno fa, la scomunica. A George Tyrrell, ex gesuita, venne negato il funerale religioso, e un sacerdote che si recò sulla sua tomba, facendosi il segno della croce, venne sospeso a divinis dal suo vescovo. Oggi il modernismo si è preso la sua piena rivincita: i due papi del Concilio sono stati canonizzati, e perfino per il generale dei gesuiti, Pedro Arrupe, massimo responsabile della deriva eretica dell’ordine, è stata aperta la causa di beatificazione.

La logica conseguenza, o forse il necessario presupposto, di questo approccio alla "fede", è una antropologica fondamentalmente biologistica. Proprio perché non può giungere direttamente Dio, e neppure Dio può rivelarsi direttamente a lui, ma solo mediatamente, l’uomo è visto anzitutto come un essere biologico; il che significa che gli aspetti e le necessità materiali hanno, in lui, un peso fondamentale. Ciò aiuta a capire anche la deriva populista e classista dei gesuiti, contratta specialmente in America Latina, teorizzata nella cosiddetta teologia della liberazione (formalmente condannata da Giovanni Paolo II) e ora esportata in tutto il mondo, e specialmente in Europa. I gesuiti odierni, infatti, così come peccano di superbia intellettuale, ponendosi come i massimi "esperti" nella interpretazione della Rivelazione, peccano anche di superbia morale, atteggiandosi a massimi rappresentanti dello spirito di "carità", di accoglienza, d’inclusione e di solidarietà di cui parla sempre la neochiesa del signor Bergoglio. Insomma, si considerano i primi nel soccorrere i poveri, i più vicini alla loro voce, o meglio a raccogliere il loro grido; i più sensibili ai temi sociali, e anche a quelli ambientali (una enciclica addirittura sui temi dell’ecologia: Laudato si’!; ma che c’entra con il Vangelo di Gesù Cristo?); i più titolati a parlare, a loro volta, a nome degli ultimi. Ed ecco le loro unilaterali prese di posizione a favore dell’immigrazione selvaggia, perché i poveri hanno sempre ragione, e se un miliardo di africani vogliono venire in Europa, ebbene hanno ogni diritto di farlo, in nome della fratellanza universale (massonica) prima ancora che in nome di una indimostrabile benedizione evangelica (quando mai nel Vangelo è sancito un simile "diritto"?). I colti gesuiti, nel corso del XX secolo, avevano fatto, in ritardo, una scorpacciata di Marx, Darwin e Freud: li avevano "attraversati", per usare un’espressione cara al teologo ultraprogressista Schillebeeckx, ma, attraversandoli, ne erano rimasti conquistati. Non erano stati loro a imporre la visione cristiana alla cultura moderna, ma avevano introiettato le categorie della cultura moderna nel loro universo concettuale e spirituale. A partire da quel momento — siamo intorno alla metà del Novecento, o poco dopo — i gesuiti hanno incominciato a "leggere" il Vangelo con le lenti del materialismo storico, dell’evoluzionismo biologico e della psicanalisi freudiana: pessime lenti e del tutto incompatibili con la vera visione cristiana, ma loro non se ne sono accorti. Al contrario: hanno sempre coltivato l’orgogliosa convinzione di essere più avanti di tutti; di essere i soli, fra i cattolici, a non essere rimasti indietro rispetto ai "progressi" nella concezione religiosa compiuti dalla teologia protestante, nei confronti della quale avevano un forte complesso d’inferiorità. Il risultato è stato che i gesuiti, oltre che imbevuti di marxismo, darwinismo e freudismo, si sono imbevuti anche di protestantesimo, e hanno mutuato da Lutero soprattutto l’idea che la Chiesa deve andare nel mondo, deve "farsi modo", per calarsi pienamente nelle situazioni concrete. Le basiliche trasformate in dormitori e in refettori per i poveri e hanno origine da questa sopravvalutazione della dimensione biologica rispetto a quella soprannaturale della grazia. Si sono scordati, benché possa sembrare incredibile, che il pane offerto ai poveri non spegnerà per sempre la loro fame, e che in chiesa c’è già un Pane di vita eterna: il Corpo di Cristo, offerto per la salvezza degli uomini nel Sacrificio eucaristico. Ma se qualcuno lo dicesse loro non ci crederebbero; al contrario, si vanterebbero di essere quelli che hanno capito meglio di tutti la necessitò di stare vicino alla gente, di sovvenire ai suoi bisogni materiali. Quante volte non abbiamo udito che, per essere credibile, il cristiano deve aiutare il povero a riempirsi lo stomaco, e solo dopo potrà parlargli di Gesù Cristo? Ma il cristiano, a quel punto, non sarà più un cristiano; tanto meno sarà un cattolico: ma un attivista sociale, un sindacalista, un promotore dei diritti umani. L’eresia gesuita è, in sostanza, una triplice eresia. Sul piano intellettuale, essa nasce dalla pretesa di porsi di fronte alla Rivelazione con un atteggiamento critico, simile a quello adottato da Kant nei confronti della realtà fenomenica (di quella noumenica, infatti, cioè della cosa in sé, non si può avere una vera conoscenza), invertendo la giusta relazione fra l’uomo e Dio, come se fosse l’uomo che stabilisce i tempi e i modi per decifrare la Rivelazione, e non la grazia che illumina l’anima quando Dio lo vuole e l’uomo lo permette. Sul piano sociale, i gesuiti rivendicano una serie di diritti umani di ascendenza rivoluzionaria e massonica e sostituiscono al concetto della pace di Gesù Cristo quello della pace intesa come conquista umana e accordo fra le nazioni. Infine, sul piano morale fanno propria la separazione giuridica del reato dal peccato, e considerano peccato solo ciò che contrasta con le leggi dello Stato.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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