
I paladini di Cesare Battisti
15 Gennaio 2019
Occorre schiodare vassalli, valvassori e valvassini
16 Gennaio 2019Sono ormai più di ventidue anni che Rai 3 ci affligge con la soap opera serale Un posto al sole: iniziata nell’ottobre del 1996, è giunta vicina al traguardo delle 5.200 puntate. Per venticinque minuti al giorno, al netto (o al lordo?) della pubblicità, all’inizio alle 18,30, poi alle 20,30, cioè a ora di cena, davanti a un pubblico che ha toccato punte di 3 milioni di telespettatori, ma che si è stabilizzato sulla media di un milione e 700.000, tutti i santi giorni, dal lunedì al venerdì, cinque giorni alla settimana, per cinquemiladuecento volte, la trasmissione è entrata nelle case degli italiani, li ha intrattenuti, li ha catechizzati. Sì, perché questa soap opera non si limita a raccontare le vicende di alcune famiglie, più o meno amiche fra loro, che abitano in un improbabile palazzo di Posillipo, simile a un castello, con vista da cartolina sul Golfo di Napoli; né a mostrarci l’ospedale partenopeo, in cui lavora uno dei personaggi — la dottoressa Bruni, sempre presente e sempre operante per qualsiasi emergenza, da un’unghia incarnita a un moribondo crivellato di proiettili — più o meno come un ospedale di Stoccolma o di Copenaghen, solo camere singole lucidate a specchio, senza un mozzicone di sigaretta fuori posto, e perfino senza eserciti di formiche in marcia fra gli avanzi di cibo e d’immondizia; in cui non si parla mai di camorra, così come nei romanzi del commissario Montalbano non si parla mai di mafia, solo di delinquenza comune, per carità, non generalizziamo e non cadiamo nei soliti luoghi comuni sull’Italia meridionale; no: si vuole anche educare gli italiani. Sissignore, educarli; insegnar loro cos’è il mondo, quali sono i valori, specialmente i diritti civili, e come si deve vivere, rispettando la legge ma anche cercando di dare una risposta ai problemi sociali; e mostrando come i bravi genitori devono regolarsi coi figli e i figli coi genitori. Insomma un quadro educativo completo e collaudato, che non si dimentica di nulla, non tralascia nulla, non contempla zone franche: vale a dire, zone in cui alle persone sia consentito di regolarsi da sé, secondo la propria coscienza. No: il politicamente corretto regna ed impera ovunque, dall’inizio alla fine, senza mai andare in ferie, senza mai abbassare la guardia, perché anche il nemico è sempre in agguato: e il nemico è il populismo, il razzismo, l’egoismo, il cinismo, il menefreghismo. Insomma tutti allievi di don Milani, I care, me ne importa, mi faccio carico di questo e di quest’altro; e dalli all’untore: tutti quegli esseri umani di serie B che pensano solo a se stessi, che non hanno sensibilità, che non si preoccupano, che non si fanno carico di nulla e di nessuno. In altre parole: con le montagne di spazzatura per la strada (che non si sono mai viste una sola volta in oltre 5.000 puntate), ma con un cuore grande così; con il degrado e la disoccupazione alle stelle, ma con tanta, tanta buona volontà di fare del bene a tutti, di accogliere tutti, di capire tutti, di scusare tutti, includere tutti e di non escludere alcuno. Perché, come ha detto Bergoglio, questo è il tempo di abbattere muri e di gettar ponti. Anche se del cristianesimo, in 5.200 puntate, non si è visto praticamente nulla: nessuno che dica di voler andare Messa, nessuno che si ricordi di santificare la domenica, nessuno che preghi, nessuno che parli di Dio. Solo all’inizio si è visto, fra i personaggi secondari, un giovane prete, ovviamente coinvolto negli inghippi sentimentali che sono d’obbligo in una soap dei nostri giorni; e una delle protagoniste, Viola, figlia della suddetta dottoressa, che per un momento pensava di farsi suora, ma poi le è passata la mattana e nessuno l’ha mai più udita pronunciare una sillaba a questo riguardo, da quando, passando per varie esperienze sentimentali, si è felicemente sposata con un valoroso magistrato. A parte ciò, della religione ci si ricorda solo per il Presepio, sotto le feste natalizie: ma essendo il palazzo abitato esclusivamente da indigeni e quindi, più o meno, da cattolici, non si pongono problemi di autocensura, tanto più che il tema è trattato solo in chiave scherzosa e macchiettista, col portinaio, Raffaele, e un paio d’inquilini, Otello e il dottor Poggi, che battibeccano per stabilire dove porre questa o quella statuina. La tematica religiosa non va oltre queste pie e inoffensive banalità: non sia mai che si voglia suggerire che l’Italia è un Paese cristiano, con una tradizione cattolica, e che la sua arte, la sua cultura, la sua civiltà sono state fatte dal cattolicesimo. Eh, no, sarebbe una forma di interferenza, se non una violenza ideologica bella e buona; sarebbe arroganza, prevaricazione da bacchettoni: siamo su Rai 3, ragazzi, lo volete capire? Qui i preti sono graditi e bene accetti solo se passano dal salotto del dottor Augias, solo se sono preti ribelli, vescovi massoni o teologi eretici; quelli, per intenderci, che fino al 2013 sparavano a zero contro Benedetto XVI, il "pastore tedesco", il papa reazionario, rigido e ultraconservatore; se sono veri cattolici, non sono più tanto graditi, anzi, è meglio che non si facciano proprio vedere. La Repubblica italiana è uno Stato laico, in fin dei conti; perciò non parliamo del cristianesimo (a meno di parlarne male); sarebbe un’offesa verso le altre fedi, specie verso l’islam, che, come dice Leoluca Orlando, è la luce del mondo.
In cosa consiste, dunque, la volontà educativa del programma? Oltre che nel tacere completamente alcuni temi — la camorra e la religione, ne abbiamo ricordati due –, nel predicare continuamente sui temi del politically correct: migranti e omosessuali in prima fila. Ci sono delle puntate intere che ruotano intorno a questi temi: si parla dei poveri profughi africani, della loro difficoltà ad inserirsi, ovviamente tutte bravissime persone, sensibili, gentili, piene di delicatezza e di ottime intenzioni, versione aggiornata e partenopeo-televisiva del buon selvaggio d’illuministica memoria; ma non si sono mai visti i poveri italiani, quei famosi cinque milioni di poveri certificati dalle cifre ufficiali del ministero, dei quali nessuno, neanche i produttori di questa soap – scritta, si badi, da un australiano: tale Wayne Doyle, e calata alla meno peggio nel cielo di Posillipo. Ma è sul tema dell’ideologia gender che la soap ha dato, e continua a dare, il suo meglio, o il suo peggio, secondo i puti di vista. Nei primi anni il tema compariva già, ma con una certa discrezione; ogni tanto compariva un personaggio del tutto secondario, che magari s’innamorava di uno dei personaggi principali, come quel giovane che si allena nella palestra del protagonista Franco Boschi, e facendo boxe s’innamora perdutamente del suo coach, il quale, però, felicemente sposato con una bella bruna, declina garbatamente l’offerta. Poi, un poco alla volta, questo tema ha preso sempre più spazio, ha guadagnato le posizioni centrali nelle trame, peraltro ossessivamente ripetitive, come si può intuire per una telenovela che dura già da più di vent’anni e che ha tutta l’aria di voler andare avanti all’infinito, sostituendo ogni tanto i vecchi attori paralitici o defunti, ma senza mai la benché minima idea di sbaraccare, arrivando a una qualche forma di conclusione, sia pure provvisoria. Ed ecco una protagonista, l’imprenditrice Marina Giordano, che, a un certo punto, ha una love story con una donna, anche se la cosa non va troppo per le lunghe e lei torna alle preferenze maschili, dalle quali si era distaccata con una certa fatica; e poi si arriva al figlio dell’imprenditore Roberto Ferri, che scopre di essere gay, pur fidanzato con una ragazza carina, e un giorno bacia sulla bocca il suo innamorato, e da quel momento decide di far outing e di non vivere più nell’ombra la rivelazione che ha avuti del suo vero io. Naturalmente il padre prende la cosa malissimo, è il classico borghese avido e spietato, la caricatura dei personaggi sfruttatori e insensibili di certi romanzi di Charles Dickens, o magari di Theodore Dreiser; non accetta che suo figlio sia un invertito, le prova tute, ma alla fine deve arrendersi, anche perché il ragazzo è spalleggiato da tutti, dal suo fratello maggiore, dagli amici, dai vicini, e perfino dalla sua ex fidanzata, la quale, resasi conto che lui la tradisce con un ragazzo, capisce, se ne fa una ragione, lo riavvicina come amica, e mantiene con lui uno splendido rapporto di cameratismo. Tutti quanti mostrano di trovare normalissima la rivelazione che il giovane è gay, anche se prima nessuno se n’era mai accorto; nessuno cerca di parlare con lui per capire quel che gli sta succedendo, se si tratta di una vera inclinazione o di una suggestione transitoria, dovuta a un vissuto piuttosto difficoltoso, e reso tale soprattutto dall’autoritarismo del padre-aguzzino. Insomma, nessuno pone minimamente in discussione il dogma bergogliano (ante litteram) del: Chi sono io per giudicare?; nessuno avanza il dubbio che forse si tratta di una deviazione, un errore, una sbandata, un momento di confusione; il solo che vorrebbe ricorrere all’aiuto di uno psicologo, il padre, viene presentato come il solito tiranno, che dopo aver reso infelice l’adolescenza di suo figlio, pretende anche di invadere la sfera privata della sua vita da adulto. Peccato che il ragazzo continui a vivere senza far nulla, coi soldi di papà; disprezza il papà per i suoi soldi, però ci mette anni a decidere di staccarsi dal comodissimo nido protettore: e quando lo fa, è appunto per seguire l’amore, cioè il ragazzo che gli ha fatto scoprire la sua vera natura (?) e contemporaneamente le meraviglie dell’erotismo omofilo. Ma senza rinunciare alla sua fetta di utili nella ricchissima azienda paterna; quella no: perché sputarci sopra? Insomma, per gli sceneggiatori della soap si tratta di rimarcare un diritto sacrosanto, ogni persona ha il diritto di realizzarsi, ciascuno come si sente: ma cosa sia la vera realizzazione dell’uomo, questo nessuno se lo chiede; si dà per scontato che la cosa più importante è rimarcare un diritto, nessuno può discutere le mie scelte, fine del discorso. Ma coi soldi di papà.
Oltre al capitalista cattivo, c’è il militare cattivo, un colonnello che prende a schiaffi la moglie e l’opprime col suo autoritarismo; e c’è — poteva mancare? — il poliziotto cattivo, quello che ammazza di botte uno spacciatore, e poi mente e combina un sacco di cose brutte per coprire il suo misfatto. Chiarito, così, chi siano i cattivi, secondo lo schema sessantottino più vieto, e, quel che è peggio, servito in tavola con cinquant’anni di ritardo, resta da vedere chi sono i buoni. In cima alla lista ci sono la signora Giulia (ex) Poggi, insopportabile ficcanaso, piena e strapiena di buone intenzioni, una che come sente odore d’ingiustizia, cioè di razzismo o di maschilismo — e lo sente subito perché possiede il radar — parte all’attacco con le sue crociate buoniste; e infatti le prime vittime della sua debordante militanza progressista sono i familiari, a cominciare dal figlio, che a trent’anni suonati continua ad esser succube di questa madre castratrice e onnipresente, intenta a spiare ogni sbatter di ciglia e ogni sospiro di tutti quanti, per individuare il cancro da combattere. Poi c’è il giornalista Michele Saviani — che bel nome — il quale lavora presso una radio privata, e intrattiene ogni giorno gli ascoltatori coi suoi sermoni radical-chic, predicando ogni sorta di Buoni Sentimenti, sempre politicamente corretti, ed è il tipico reduce del ’68 tutt’altro che pentito, anzi, più che mai convinto, benché nel ’68 non doveva essere neanche nato, o, se lo era, portava di sicuro i calzoni corti. Anche lui è pronto a correre in soccorso di tutti i discriminati, di tutte le donne maltrattate e violentate, di tutti i profughi non accolti e non inclusi, insomma di tutte le categorie protette di questo mondo, ma non mostra altrettanta solerzia per quanti non ne fanno parte. Di lui recentemente s’è invaghito un vigile urbano che lo marca stretto, e qui la storia vira sul comico anziché sul serio, forse per non compromettersi troppo — adelante, Pedro, con juicio — dato che si tratta di uno dei personaggi storici e quindi bisogna andarci coi piedi di piombo quando si parla di omosex o bisex. Comunque il Saviani è molto rispettoso e molto democratico, e sua moglie Silvia ancora più di lui, dato che lo incoraggia a non voltar le spalle a questo spasimante, allorché lo vede giù di corda (in realtà per altre faccende). C’è pure il tema delle adozioni di bambini da parte dei gay, sia pur trattato con abile minimalismo: il suddetto vigile, infatti, si prende in casa la ex del suo comandante rimasta incinta, a insaputa del padre, e finge di essere lui il padre, per soddisfare una sua improvvisa e incontenibile voglia di paternità, sia pur surrogata. Bisogna poi aggiungere che tutta la soap è contraddistinta da un familismo incontenibile, quasi delirante, e, in particolare, da una iperprotettività compulsiva, che non si ferma mai e che spinge padri e madri a spiare come chiocce gelose ogni starnuto e ogni sbadiglio dei loro pargoletti, anche quando sono diventati così cresciutelli che si stenta a vederli nel ruolo di eterni adolescenti. Comunque, da Silvia che prodiga i suoi consigli, richiesti e non richiesti, alla figlia Rossella, che passa da un errore sentimentale all’altro; al signor Poggi che martirizza il figlio Nico con le sue raccomandazioni soffocanti; al portinaio Raffaele, che interpreta il perfetto ruolo di padre-chioccia nei confronti dei suoi due ragazzi: è tutto un accavallarsi di invadenza, indiscrezione, curiosità malsana, pretesa di dirigere i figli ormai grandi e vaccinati, ma sempre in nome del sentimento genitoriale, perché, si sa, i figli so’ piezzi ‘e core. Roba che se andasse in onda in Olanda o in Danimarca, dove i genitori considerano anormale che un figlio diciottenne non abbia levato le tende, farebbe semplicemente ridere, o forse piangere. Ma noi italiani siamo più dolci, più protettivi, più affettuosi verso i figli; questo si sa. I genitori napoletani, poi, possono dar lezione a tutti: con buona pace dei settentrionali, che non solo per questo, anche per molte altre cose, stentano alquanto a riconoscersi in figure come quelle proposte dalla soap che paiono uscite da un altro pianeta. Ed è proprio così: gli sceneggiatori non descrivono una vera famiglia, ma una famiglia come la vorrebbero: progressista, aperta, antipopulista ma anche calda, accogliente, mammista. Che bel cocktail, mammismo e progressismo! Ecco, qui si vede e si capisce perché il Pd ha perso la testa e il contatto con la realtà (e con gli elettori): per l’arroganza di credersi moralmente migliore di tutti.
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