
Ecco perché non ci arrenderemo mai
6 Gennaio 2019
Inutile lamentarsi ora: bisognava svegliarsi prima
6 Gennaio 2019I miracoli accadono; siamo noi che abbiamo perso la facoltà di vederli, perché abbiamo perso la fede in Dio: quella vera, quella che salva. Ci siamo dimenticati che cos’è la Provvidenza; ci siamo scordati che essa opera sempre, perché Dio veglia sempre su di noi; ma ci siamo scordati anche che Egli non pensa come noi, non fa i nostri ragionamenti, non asseconda i nostri desideri, nemmeno quelli giusti e legittimi, se non nella maniera che corrisponde al nostro vero bene, che noi sovente ignoriamo. Invece, non appena le cose non vanno come noi desideriamo; non appena lo spettacolo del male e dell’ingiustizia ci scandalizza; non appena la dura realtà della vita manda in frantumi le nostre speranze e le nostre aspettative, tutto quel che sappiamo fare è stringere i pugni e agitarli contro il Cielo, pensando: Dio non c’è, altrimenti non avrebbe permesso che accadesse questa cosa! Oppure, se c’è, non è un Dio buono: impossibile conciliare la sua bontà con le cose tremende che così spesso accadono. Ma le vie del Signore non sono le vie degli uomini, i suoi pensieri non somigliano ai nostri pensieri. Certo, Dio avrebbe potuto salvare il suo Figlio, che lo pregava nell’orto degli olivi: Padre, se e è possibile, passi da me questo calice; ma non lo fece, perché il Figlio era venuto nel mondo per amare gli uomini di un amore totale e salvifico, sino al dono totale di sé, e quindi era necessario che morisse per riscattare i peccati dell’umanità. Del resto, il Figlio aveva soggiunto: Tuttavia, sia fatta non la mia, ma la Tua volontà. Ecco: questa è la preghiera del cristiano. Essa deve partire dalla piena accettazione della volontà del Padre celeste: dopo di che, è legittimo, è umano, chiedere che il calice della sofferenza sia allontanato dal nostro cammino, però non sta a noi sapere e giudicare se ciò sia possibile, o no. Forse quella sofferenza, che ci fa tanta paura, è necessaria per realizzare un bene più grande, per noi stessi o per qualcun altro: in tal caso, il Padre non allontanerà da noi quel calice, ma lascerà che noi lo beviamo sino alla feccia, non perché si è scordato di noi, non perché non ha ascoltato le nostre preghiere e le nostre suppliche, ma perché Lui, e Lui solo, nella sua onniscienza, sa che ciò è necessario, e non sta a noi giudicare, criticare o sindacare la sua santa volontà.
Del resto, se Egli ha deciso di fare di noi e della nostra vita uno strumento di bene, certamente verrà in nostro aiuto, quando ci troveremo nei pericoli. Perché Dio chiami a Sé certe anime ancora nel fiore degli anni, o perfino quelle dei fanciulli, e perché conceda una vita lunga anche a uomini o donne che non hanno mai fatto niente di buono, o non hanno ancora avuto modo di farlo, pur avendone il desiderio e le potenzialità, tutto questo è racchiuso nel mistero della sua suprema sapienza. San Paolo, da giovane, odiava i cristiani e li perseguitava: Dio avrebbe potuto farlo morire, ma aveva grandi piani in serbo per lui: voleva non solo convertirlo, ma farne strumento di salvezza per tanti altri; voleva renderlo suo collaboratore. Il punto centrale, che non dobbiamo mai perdere di vista, è questo: nessuno viene al mondo per caso; ciascuno ha una sua chiamata, una sua vocazione, un suo compito da svolgere, per il bene del mondo intero, e prima ancora per il proprio bene, sia che si tratti di una persona qualsiasi, sia che si tratti di uno che può esercitare un’influenza su milioni di persone. Tutti tendono a un fine, tutti sono al servizio di Dio, che lo sappiano o meno: da loro dipende solo il segno della risposta, positivo o negativo, perché Dio non vuole dei servi, ma degli amici, come disse anche Gesù ai suoi discepoli, durante l’Ultima Cena: degli amici che dicono sì in perfetta libertà del volere.
Ebbene, vogliamo illustrare questo concetto con una storia vera: una fra le tantissime, anzi, fra le innumerevoli che sarebbe possibile citare. La figura di don Carlo Gnocchi (1902-1956), fondatore, nel 1948, della Fondazione Pro Infanzia Mutilata, divenuta, nel 1951, Fondazione Pro Juventute, beatificato nel 2009, è troppo nota perché sia il caso di ricordarne, qui, anche solo i tratti salienti. Desideriamo invece rievocare un episodio assai significativo, ma anche pochissimo conosciuto, della sua vita: quando, cappellano militare sul fronte russo, con il grado di tenente, fu dato per disperso durante la battaglia di Nikolaevka, che si svolse in condizioni climatiche proibitive, il 26 gennaio 1943, quando i resti della divisione alpina Tridentina, dopo lo sfondamento sovietico sul Don, riuscirono a eludere la manovra avvolgente nemica e a ripiegare a Shebekino, sfuggendo all’accerchiamento e alla totale distruzione, sia pure lasciando sul terreno coperto di neve 3.000 uomini fra morti, feriti, dispersi e prigionieri. La notizia che il tenente Gnocchi non aveva mantenuto il contatto con la colonna in ritirata e probabilmente era morto congelato, o era rimasto ucciso sotto il fuoco nemico, aveva gettato nello sconforto e nell’angoscia tutti i suoi commilitoni, che lo amavano e lo stimavano enormemente, anzi lo ritenevano in concetto di santità. Furono organizzate ricerche, ma ogni sforzo per ritrovarlo, o per ritrovare almeno il suo corpo, risultò vano, e ormai tutti gli uomini della Tridentina erano certi che non lo avrebbero mai più rivisto: le scene di dolore che si verificarono allora furono veramente toccanti e mostrarono quale segno di profonda umanità avesse lasciato nell’animo di tutti, soldati e ufficiali, come e più di un fratello carissimo, o di un padre spirituale. La cosa era tanto più notevole considerando che quegli alpini, veterani di cento marce e battaglie, erano uomini duri, rotti a infiniti sacrifici e fatiche, tutt’altro che inclini alla facile emotività, abituati a stringere i denti e sopportare ogni colpo della sorte senza mai cedere, né scoraggiarsi. Ma ecco che un giorno, quando ormai definitivamente lo piangono per morto, misteriosamente, miracolosamente, accade l’insperato: don Carlo ritorna. Non si sa da dove venga, né come abbia fatto a ricongiungersi ai suoi compagni. Tutto è strano, al limite dell’incredibile: un alone soprannaturale pare quasi avvolgere la scena del suo ritorno, la cui notizia subito si sparge fra le truppe e suscita un immenso sollievo e una indescrivibile consolazione. Ma lasciamo che a narrare i fatti sia un testimone oculare.
Così racconta questo misterioso episodio Carlo Giulio Cesare Mioni, emiliano di Correggio (Reggio Emilia), classe 1921, combattente in Russia nel battaglione Verona del 6° Alpini, nel suo libro di memorie Luci ed ombre in Russia (cit. nella rivista L’Alpino, della Associazione Nazionale Alpini, Milano, nov. 2018, pp. 22-23):
Una sera durante una sosta in un villaggio per trascorrervi la notte che si stava approssimando, gli ufficiali del Comando della Tridentina si accorsero che il tenente Gnocchi non era tra loro e pensarono che si fosse rifugiato presso un’altra isba. Sorto in seguito qualche dubbio, decisero di effettuare un controllo, ma don Gnocchi non fu trovato e tutte le ricerche risultarono vane, nessuno lo aveva visto, nessuno sapeva niente di lui, era letteralmente scomparso senza lasciare traccia.
La notizia si sparse fra le isbe fulmineamente e gli alpini, pur stremati dalla fatica e indeboliti dalla fame, spontaneamente formarono pattuglie di sciatori che uscirono immediatamente a perlustrare tutta la zona attorno al villaggio, gradatamente spingendo le ricerche sempre più lontano, ripercorrendo a ritroso il cammino coperto nella giornata, ispezionando attentamente vallate, colline, anfratti dove una persona poteva essere accidentalmente caduta e correndo là dove, nel chiarore della luna, si scorgeva una macchia scura sul candore della neve.
Non fu trovato, forse anche lui era sparito nel calderone rovente della battaglia che tutto inesorabilmente inghiottiva, forse lo avevano abbandonato le forze ed era rimasto vittima del gelo.
Una alla volta le pattuglie rientravano e si leggeva sul volto degli uomini sofferenza e rabbia, più di uno bestemmiava senza ritegno e si chiedeva cosa ci stesse a fare Dio, lassù nei cieli, se non si preoccupava nemmeno di uno dei suoi.
L’alpino è proprio una "bestia", una bella ed ineguagliabile "bestia", lo è in tutti i sensi della parola; se è colpito da calamità naturali trova la forza di reagire in ogni più sfavorevole circostanza con una esuberanza ed un ardore che non hanno confronto, se occorre un intervento per aiutare chi ha bisogno si presta con generosità senza limiti, disinteressata ed anche sacrificando il proprio tornaconto, se si arrabbia è capace di inventare delle maledizioni che fanno paura a sentirle e così pittoresche che se uno non le ha mai sentite non le immagina nemmeno. E questo è quello che accadde quella notte: chi era ammutolito, chi piangeva, chi pregava e chi per contro stramalediva senza ritegno sostenendo che, se Dio fosse stato giusto, si sarebbe dovuto accontentare di chiamare a sé una decina di loro, ma mai don Carlo. Qualcuno anche pregava in modo strano: "Dio, se davvero lassù ci sei, pensaci Tu!".
Una sera, alcuni giorni dopo, in una isba dove già altri si erano rifugiati, la porta si spalancò ed entrarono due sciatori ricoperti della tuta bianca, sostenendo per le braccia, in mezzo a loro, don Carlo. Lo accompagnarono ad una sedia, senza dire una parola, ed uscirono richiudendo la porta dietro di loro. Nessuno li conosceva, nessuno li aveva mai visti, non risultò che appartenessero ai nostri reparti e furono invano cercati perché erano letteralmente scomparsi. Non si è mai saputo chi fossero, da dove venivano, né si è mai saputo dove fosse stato don Carlo in quei giorni e cosa avesse fatto.
In un baleno la notizia si sparse e raggiunse anche le isbe più lontane creando un indescrivibile entusiasmo; si alzarono voci di soddisfazione e di sorpresa, le bestemmie che fino a quel momento avevano imperato cessarono di colpo e furono sostituite da parole di ringraziamento a Dio e ai Santi e incominciarono a volare manate sulla schiena del vicino in segno di giubilo e di festa e per giorni gli alpini si raccontarono tra loro, come se fossero a casa dentro alla baita, attorno al fuoco, che due angeli avevano salvato don Carlo.
Di fatti così, è letteralmente intessuta la storia degli uomini, grandi e piccoli; è probabile che a moltissimi di noi, anzi, forse a tutti, sia capitato di essere protagonisti, o di assistere, o di venire a conoscenza di una vicenda simile a questa. La Provvidenza esiste; gli Angeli custodi esistono; la preghiera non è mai vana, anche se, ripetiamo, non bisogna aspettarsi che Dio la esaudisca nella maniera che vorremmo noi. La cosa più importante è il fatto di essere in grazia di Dio; e il modo più sicuro per esserlo, e per esserlo anche quando un grave pericolo, improvvisamente, incombe su di noi, è cercare di vivere sempre in grazia di Dio. Non è impossibile; anche se nessuno raggiunge la perfezione, tutti possono conformare la loro vita alla legge divina. L’importante è il serio impegno della volontà; il resto lo fa Dio, non lo fanno gli uomini. Non sono gli uomini che vivono la vita cristiana con le loro forze, ma è la forza di Cristo, cioè la Grazia, che opera in loro; tuttavia lo può fare solo se, e nella misura in cui, essi si abbandonano a Lui. Un uomo che non sa nuotare, e che sta affogando, è facilmente portato ad aggrapparsi in maniera convulsa al suo soccorritore; in questo modo, però, è probabile che finisca per annegare lui, e per trascinare sott’acqua anche l’altro. Per essere sostenuti, consigliati, fortificati da Dio, bisogna rendersi docili e umili strumenti nelle sue mani; allora si diventa forti, saggi, coraggiosi: non con le proprie forze umane, ma con la Grazia divina, che può tutto in ciascuno di noi. Ciò vale anche per il soccorso soprannaturale degli Angeli, dei Santi e della Vergine Maria: essi desiderano proteggere, sostenere, consigliare gli uomini; ma non possono farlo se questi si tengono lontani dalla Grazia, cioè se vivono in maniera tale da mostrare di rifiutarla e disprezzarla.
Naturalmente, l’incredulo e lo scettico possono sempre cercare, e trovare, delle spiegazioni del tutto naturali per un episodio come quello del salvataggio di don Gnocchi. Dopotutto, non avevano mica le ali, quei due sciatori con la tuta bianca! Nessuno li conosceva, né li aveva mai visti: ebbene, che vuol dire questo? Potevano essere sconosciuti agli alpini che, in quel momento, si trovavano dentro l’isba: stiamo parlando di un’unità militare che all’inizio della battaglia contava ancora quasi 10.000 uomini. E poi, assieme agli alpini, c’erano anche soldati tedeschi e ungheresi. Non potevano essere due sciatori tedeschi, con le loro uniformi mimetiche, bianche come la neve? Non potevano essere magiari? Ciò spiegherebbe il loro mutismo: quanti tedeschi e quanti ungheresi sarebbero stati in gradi di esprimersi in italiano? Infine, è persino possibile che fossero due sciatori sovietici: hanno visto un prete semi-assiderato, lo hanno riconosciuto frugandolo e scoprendogli un crocifisso, un Messale nella tasca: alcuni soldati sovietici erano cristiani e, talvolta, accadevano commoventi episodi di fratellanza, che oltrepassavano la linea del fronte. Benché molto improbabile, la cosa è possibile. Tutto è possibile, se non si vuol credere. Il bello della maggior parte dei miracoli, e ciò vale anche per quelli di Cristo, è che la ragione umana non viene schiacciata, non subisce violenza: rimane libera di credere o no. Quel margine di dubbio che resta nel cuore in ogni caso, è il pungolo che Dio ci mette nell’anima per spingerci a cercarlo. Beati quelli che crederanno senza aver visto…
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