
Mussolini Speaks
21 Novembre 2018
I danni dell’evoluzionismo nella storia delle religioni
22 Novembre 2018Caro viaggiatore che sei abituato a muoverti lungo gli itinerari più battuti, che ti affidi interamente alle guide turistiche e che non fai, giunto in una città nuova, o magari anche passeggiando nella tua città, neanche un passo se non vedi musei, né monumenti, e neppure negozi o locali accoglienti: è quasi certo che, a Udine, non ti capiterà mai di fare una capatina dalle parti di via Cisis. Infatti è la classica contrada dimenticata e, ora, semi-abbandonata: è un pezzo di città vecchia sopravvissuto in mezzo allo sviluppo e alla modernizzazione degli altri quartieri; quasi una reliquia della Udine di sessanta o settanta anni fa. Tuttavia, se non l’hai vista, se non la conosci, ti sei perso l’anima della città: perché ogni città ha un’anima, e quell’anima resta viva finché sono vive le famiglie, case, le botteghe, le relazioni sociali; comincia a morire quando restano solo le case, vuote e abbandonate; e se ne va via per sempre quando vengono demolite anche quelle, e al loro posto sorgono nuovi edifici, i cui abitanti ignorano completamente quale fosse l’aspetto dei luoghi e il tipo di vita che vi si faceva. Perciò una società intelligente non passa con le ruspe sulle vecchie case, senza preservare qualcosa, senza lasciare in piedi almeno una testimonianza: non tratta le vestigia del mondo di ieri come si fa con una città nemica, dopo averla presa e messa a sacco, ma ricorda che quello fu il mondo dei padri e dei nonni e già solo per questo merita rispetto.
Ci sono due modi per arrivare in via Cisis. Uno, il più semplice, è entrarci dall’estremità sud, dal Viale delle Ferriere, ed è il più comodo per chi arriva in automobile dalla stazione ferroviaria, anche perché la via è a senso unico ed è solo da lì che ci può entrare in auto. Noi però lo sconsigliamo, perché è come arrivare in un teatro dalle quinte dietro il palcoscenico, invece che dall’ingresso. L’altro modo è da via Grazzano, all’altezza di un piccolo slargo, dove c’è una delle osterie più caratteristiche della città vecchia, che è anche pizzeria: Al marinaio, preceduta da un piccolo porticato. Le case basse, tutte a due piani, molto simili a livello edilizio, piuttosto modeste, non recenti ma nemmeno antiche, dipinte a vivaci colori; i cubetti di porfido del selciato e la scarsità del passaggio di automobili; i portoni ampi e bassi, che, quantunque rimodernati, ricordano l’aspetto rustico e quasi campagnolo che dovevano avere un secolo fa; i muri in pietra, coperti di rampicanti, dietro i quali si scorgono o s’intuiscono inaspettati orti e giardini privati, dove il tempo pare essersi fermato (ricordate foliis ac frondibus nella casa di via Plumet, dove Jean Valjean si è rifugiato con Cosette nel cuore della vecchia Parigi, e che diventerà il luogo del segreto idillio della fanciulla con Marius?); qualche balcone di legno, coi gerani alle finestre, e i fiori dell’oleandro che ingentiliscono qua e là la via solitaria; le lunghe, uguali superfici dei muri di un edificio dall’aspetto severo, l’asilo Paulini delle suore Rosarie; le finestre con le imposte di legno che, al piano terra, si aprono direttamente sulla strada, ad altezza d’uomo; i vecchi lampioni e i piccoli camini che sorgono sopra i coppi dei tetti; il sole che scende obliquamente da sinistra e illumina per poche ore, quasi giocando a nascondino, questa via stretta, abituata alla penombra e al silenzio; poi, verso la fine, circondato da un prato incolto e dominato da un alto e stretto condominio di sei piani che si affaccia sul viale delle Ferriere, una grande casa invasa dalle erbacce e completamente cadente, che pare uscita dalla trama di un romanzo gotico: tutto questo conferisce alla via un’aria romantica, quasi trasognata, molto pittoresca, e, se si vuole, anche lievemente soffusa di malinconia. A chi piacciono il traffico e il movimento, le belle vetrine e la gente elegante che va per negozi, in cerca dell’ultimo modello di borsetta o di orologio, non venga qui; e a quanti apprezzano solo le cose moderne, le case funzionali, con l’ascensore e il videocitofono, le finestre grandi e luminose e tutte le comodità della tecnologia edilizia, non si sogni di cercar casa da queste parti, anzi, giri al largo addirittura. Chi viene qui, deve venirci in punta di piedi, con uno stato d’animo di umiltà e stupore: qui si viene per respirare l’atmosfera di una volta, per strappare qualche ricordo della vita udinese di due o tre generazioni fa, quelle dei nostri nonni e bisnonni, prima che noi nascessimo.
Già la prima metà di via Grazzano, per chi ci arriva dalla piazza Garibaldi, si rivela subito come un rione popolare; tuttavia è abbastanza animata, ci sono negozi, bar e trattorie; c’è una bellissima chiesa parrocchiale, la chiesa di San Giorgio; ci sono alcuni palazzi signorili, come il Palazzo Giacomelli, del XVII secolo; ci sono parecchi vicoli e traverse abbelliti da balconi di legno e, un tempo, da icone religiose; anche se non c’è più l’elemento caratteristico del vecchio borgo, quello che segnava la vita degli abitanti: la roggia, coperta negli anni ’50 per allargare la sede stradale, benché la strada sia rimasta a senso unico e quindi ci si chiede se ne valesse la pena. La seconda metà di via Grazzano, dal Marinaio fino alla porta della cinta muraria esterna che si affaccia al piazzale Cella, da molto tempo demolita, è più stretta, più povera, totalmente priva di negozi o di locali: e scompaiono del tutto i palazzi di un certo prestigio, ci sono solo casette modestissime, in parte trasandate, che danno una stretta al cuore, perché si capisce che stanno per essere abbandonate e che un giorno verranno le ruspe a demolirle, se pure qualcuno non investirà dei grossi capitali per ristrutturarle e riportarle a nuova vita. Via Cisis è un prolungamento, un’estensione di borgo Grazzano e ha le caratteristiche edilizie del suo secondo tratto: qui viveva la povera gente, i lavoratori più umili, quelli che si alzavano all’alba per andare a fare i mestieri meno remunerativi, in fabbrica o in qualche bottega di terz’ordine; le donne andavano al lavatoio e poi stendevano i panni ad asciugare nei cortili interni. Chi voglia farsi un’idea di come doveva essere il quartiere allora, entri Al Marinaio e potrà vedere delle belle foto d’epoca appese ai muri del locale.
Ad ogni modo, ci siamo riproposti di parlare delle chiese di Udine e in via Cisis chiese non ce ne sono, né ce ne sono state in passato, anche se le Suore della Beata Vergine Maria del Rosario son venute qui fin dal 1709 e inizialmente avevano un convento, ora trasformato in scuola per l’infanzia. E allora, perché questa escursione in via Cisis? La ragione c’è; ma prima dobbiamo raccontare una breve storia che ha un po’ il sapore di una moderna fiaba. Alla fine di giugno del 2014 una serie di violenti temporali estivi si è abbattuta sulla città e qualcuno ha temuto il peggio per un vecchio edificio, abbandonati e pericolanti, situato quasi in fondo a via Cisis, verso lo sbocco sul viale delle Ferriere, dal cui cornicione si erano staccati alcuni calcinacci, cadendo sulla via. Il fatiscente palazzo, ridotto poco più che allo scheletro dei muri esterni, pure quelli semi-diroccati, è stato messo in sicurezza, per proteggere i passanti da possibili incidenti, in attesa di decidere la sorte dei miseri avanzi di quella che fu una casa simile a tante altre del vecchio borgo, piena di famiglie, di vita, di bambini e di sani rumori, e che adesso pare un fantasma sopravvissuto alla fine della sua epoca, sullo sfondo stridente dei moderni condomini. Allora, proprio sulla facciata, è emerso un affresco che dalla strada si può ammirare benissimo: un dipinto devozionale in stile popolaresco, ma in brutto, anzi, garbato e con le figure ben proporzionate, che reca la data del 1707, dunque antico di più di tre secoli, raffigurante la Madonna, Sant’Antonio col Bambino in braccio, e un altro personaggio di più difficile identificazione, che potrebbe anche essere San Giuseppe, ma la cosa non appare del tutto certa.
Un tempo i vecchi borghi erano pieni di affreschi votivi e di edicole religiose, frutto della devozione popolare, e sulla mensola che spesso li ornava non mancava mai un vaso di fiori freschi. Era normale, quando si costruiva una casa, prevedere uno spazio e destinare un po’ di soldi allo scopo di far dipingere un ritratto della Vergine Maria, o di Sant’Antonio, o del santo sotto la cui protezione il quartiere si era posto, e al quale era intitolata una confraternita: Santa Lucia, san Giorgio, san Giuseppe, san Tommaso, santa Barbara, eccetera. Questa gentile costumanza si è persa rapidamente con l’avvento della secolarizzazione e della cultura laica, e le pitture delle edicole sono state lasciate andare in rovina, o sono scomparsa insieme alle vecchie case che la ospitavano. Oggi non ne restano molte, anzi sono ormai piuttosto poche; fra esse, ricordiamo un paio di affreschi in via Anton Lazzaro Moro, la notevole Crocifissione di Giovanni Battista Grassi al civico n. 22 e l’edicola con la Madonna al primo piano del numero 6; la pittura di Santa Lucia al numero 6 di via Francesco Mantica; la bella edicola con l’affresco della Madonna e il Bambino sul muro del vecchio Palazzo Torriani, al civico n. 2A di via dei Torriani, sull’angolo con il largo Carlo Melzi; l’edicola dedicata a San Filippo Neri al civico 46 di via Tomadini, sull’angolo con via Pracchiuso; il bellissimo bassorilievo novecentesco, ma in stile quattrocentesco, della Madonna col Bambino e un Angelo, sulla facciata di Casa Spezzotti, al civico n. 15 di via della Prefettura, del quale abbiamo già parlato a suo tempo; l’edicola con l’affresco della Natività, sulla facciata dell’edificio d’angolo fra piazzale Chiavris e via Forni di Sotto, dove ora c’è il bar Al Tram; e pochi altri. Non ci risulta che qualcuno abbia dedicato una ricerca specifica a questa espressione della devozione popolare, e già questo è altamente significativo: in una città di 100.000 abitanti, capoluogo di una regione storica che ne conta quasi 1 milione (fra le ex provincie di Udine, Pordenone e Gorizia), non si trova dunque nessuno che abbia il tempo e il desiderio di far conoscere ai propri concittadini, prima che il tempo se le porti via, le pitture, le sculture e le piccole edicole religiose che gli udinesi hanno posto sulle facciate delle loro case, a protezione dalle calamità e quale segno della loro fede nella religione dei padri?
Tornando all’affresco emerso all’altezza del primo piano del numero 33 di via Cisis, ci si è chiesti, naturalmente, chi e perché lo abbia fatto dipingere. La vicinanza con il convento delle poverelle di Santa Caterina da Siena o suore Rosarie sembra essere casuale, tanto più che la data dell’affresco è di due anni anteriore al loro arrivo in questa contrada. Il professor Alberto Travain, studioso e promotore della storia locale, presidente del Movimento Civico Culturale Alpino-Adriatico Fogolâr Civic e del Circolo Universitario Friulano Academie dal Friûl, invitato a condurre una ricognizione sul posto, ha osservato che il dipinto, per le sue caratteristiche, sembra riconducibile alla devozione di una antica famiglia friulana, quella dei Menossi, però non esistono prove che essa si fosse insediata, al principio del XVIII secolo, nel borgo di Grazzano. Un piccolo mistero, dunque, la cui chiave probabilmente risiede nella figura non ancora identificata, presente in un angolo dell’affresco. Se la figura non facilmente riconoscibile, appoggiata a un bastone, dovesse per caso essere quella di San Giuseppe, allora davvero ci troveremmo di fronte ai santi prediletti dalla storica comunità borghigiana, oltre notoriamente a San Giorgio, santi ai quali la stessa aveva allora già dedicato gli altari della cappella rionale della Pietà, ha osservato il professor Travain (vedi http://www.udinetoday.it/ del 14/08/2014). La chiesetta settecentesca della Pietà, infatti, come abbiamo visto a suo tempo, sorge nell’odierno piazzale G. B. Cella, a poche decine di metri dalla Porta di Grazzano. Fino all’epoca dei nostri nonni, peraltro, cioè fino alla metà del Novecento, anche quella parte della città presentava un aspetto completamente diverso da quello odierno: ed ecco l’importanza della memoria, e perciò della conservazione dei ricordi del mondo di ieri. Piazzale Osoppo era ancora una landa deserta, con in mezzo il suo tram bianco; piazzale Cella, al contrario, era pieno di verde e di acque. Sorgevano allora i primi grossi condomini, si eliminavano i binari dei tram e si coprivano tratti di rogge per allargare le strade (così Mario Blasoni nel rievocare la figura del fotografo Costantino Procaccioli, Tino da Udine, tra cronaca e storia, sul Messaggero Veneto, edizione online di Udine del 28/04/2008). Si resta stupiti e quasi increduli, conoscendo l’aspetto odierno del luogo, fortemente urbanizzato, nel leggere una simile frase: piazzale Cella era pieno di verde e di acque. Eppure, è proprio così; e basta osservare alcune fotografie degli anni ’50 per sincerarsene. Siano dunque così tanto cambiati? Sì, lo siamo; ma come potremmo averne adeguata consapevolezza, se ignorassimo il nostro passato e disprezzassimo tutto ciò che ne rende testimonianza?
Questo interrogativo ci riconduce al concetto di identità, e a quelli, non dissimili, di radici, di coscienza storica e di senso nazionale. Nel caso specifico, ci si chiede: i friulani sono una nazione, sono un popolo? Ci piace rispondere con le parole del professor Travain, pronunciate nel corso di una apprezzata conferenza il cui titolo era I Furlans sono une nazion? tenuta presso il Palazzo Polcenigo-Garzolini, ex Istituto Di Toppo-Wasermann, in via Gemona, l’11 luglio 2018 (da: http://www.udinetoday.it/ del 12/07/18): Che i Furlans a sedin une nazion, un alc par lôr cont, e je convinzion viere, ma la cussience di un tant e je rivade in particolâr dal rapuart cu la Mittel-Europe [con particolare riferimento al censimento austriaco del 1857, nel quale i Friulani furono recensiti come una comunità nazionale distinta]. Il Friûl al è ancje talian, ancje austriac, ancje sloven. Al è Friûl, mighe dome un toc di Italie o ben di Austrie o pûr di Slovenie! Al è un toc di dut! Ve che e torne atuâl, alore, chê embleme de ‘Patrie’ furlane di une volte, chê femine vistude di tancj colôrs par dî che il Friûl al è composizion e federazion di tancj elements. Par chel che al è unic!"