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Omaggio alle chiese natie: San Cromazio, villaggio del Sole

La chiesa di San Cromazio di Aquileia, l’unica chiesa al mondo che sia dedicata a questo santo, è la parrocchiale del Villaggio del Sole, un quartiere di edilizia popolare costruito sulla destra di via Martignacco, là dove da questa di diparte il viale Leonardo da Vinci, che taglia dritto fino al piazzale Cavedalis. Alla fine della Seconda guerra mondiale, su una popolazione di 85.000 abitanti, Udine contava più di 35.000 senza tetto, ai quali si aggiungevano altre migliaia di sfollati dai centri bombardati dai generosi "liberatori" lungo la linea ferroviaria, come Codroipo, Casarsa e Gemona. I quali liberatori furono talmente generosi che, nell’andarsene, lasciarono in regalo alla città un villaggio di baracche costruito per accantonare provvisoriamente le truppe britanniche, nei pressi di Paderno, soprannominato il "villaggio metallico". Lì, è in altre baracche di legno di via San Rocco, si arrangiavano a sopravvivere queste decine di migliaia di poveracci, in condizioni non poi tanto dissimili da quelle delle odierne favelas brasiliane. Diciamo la verità: dove lo trovi un nemico così gentile e sensibile, che prima distrugge centinaia e centinaia di case d’abitazione, senza alcuna necessità militare, ma così, per puro terrorismo, e senza nulla rischiare, in quanto è completamente padrone dei cieli; e poi, nell’andarsene, regala ai vinti le baracche di lamiera usate dai suoi soldati durante l’occupazione, affinché vi si possano rifugiare i disgraziati che hanno perduto le case, insieme ai familiari uccisi e sepolti dalle macerie, sotto le loro bombe?

All’inizio degli anni ’50 fu varato, a livello nazionale, il Piano INA-Casa, detto anche Piano Fanfani, un ampio programma di costruzioni per l’edilizia economica e popolare. Il Villaggio del Sole nacque allora e la sua progettazione fu affidata a Cesare Milani e altri architetti, e fu realizzato in soli quattro ani, fra il 1958 e il 1962, quando il vento del boom soffiava molto forte e la lira riprendeva velocemente quota, affermandosi come una delle monete più stabili e promettenti al mondo (consigliamo la lettura di Giuseppe Bergamini e Gianfranco Ellero, Udine e il Friuli, Udine, La Biblioteca del Messaggero Veneto, 2006, vol. 4, pp. 110-117; e il volume Il Piano Fanfani in Friuli, edito dalla Provincia di Udine, 2001). Anche se molti storici dell’architettura lo giudicano con una certa benevolenza, come anche altri quartieri simili, sorti in varie città dell’Italia centro-settentrionale nel quadro della medesima iniziativa, a noi riesce difficile essere d’accordo. Sì, i condomini hanno una loro dignità, non sono troppo alti, non sono troppo brutti; e, sì, gli urbanisti si sono preoccupati di lasciare un po’ di verde fra una strada e l’altra: sicché si può dire onestamente che, dato il budget a disposizione e i portafogli delle famiglie cui le case erano destinate, si è fatto meglio che si poteva, o, se si preferisce, il meno peggio: il che è già un’impresa notevole, considerato gli orrori che sono venuti alla luce in alte città d’Italia, con tutti i problemi sociali relativi, che hanno fatto di quei villaggi una sorta di ghetti e, allo stesso tempo, di cittadelle degli scontenti e dei serbatoi delle future proteste sociali sessantottesche: vedi l’Isolotto di Firenze, tanto per citarne uno. Ma insomma, c’è poco da fare: un quartiere di edilizia popolare è quello che è, dignitoso fin che si vuole, ordinato, pulito anche; ma bello, questo proprio non lo si può dire, nemmeno con la migliore buona volontà. E a ciò si aggiunga il rapido deterioramento delle costrizioni edificate in economia; sicché oggi, a poco più di mezzo secolo di distanza, già il villaggio mostra le crepe, gli abitanti protestano perché si sentono abbandonati, urgono interventi di manutenzione e di restauro. Bisogna però anche riconoscere, per amore di verità e completezza, che per quelle famiglie, costrette a vivere in maniera precaria per anni, dopo aver perso le loro case durante i crudeli bombardamenti del 1944-45, trovarsi con le chiavi in mano di un appartamento nuovo di zecca al Villaggio del Sole, dovette essere una esperienza emozionante, un momento felice della loro vita: dopo tanto partire, finalmente un raggio di speranza. Ma tutto il volto della città, nel frattempo, è cambiato, perché altre dinamiche, sociali ed economiche, si sono messe in moto, mutando profondamente sia l’aspetto urbanistico e architettonico, sia la composizione della popolazione e la struttura delle famiglie. Il centro storico, a partire dagli anni Ottanta, ha cominciato a svuotarsi e anche la periferia ha conosciuto difficoltà e disagi, mentre Udine diveniva una città post-industriale, ormai decisamente orientata verso il terziario; e delle vere e proprie cattedrali di archeologia industriale restavano allo scoperto, a testimonianza di un passato recente che pare già tanto lontano, come le ex Acciaierie Safau, fra via Milazzo e via Calatafimi, subito al di là della stazione ferroviaria e quindi a due assi dal centro storico.

La chiesa di san Cromazio, dunque. Iniziata nel 1960, è stata terminata e consacrata nel 1965, su progetto dell’architetto Luciano Ria, di Udine. Sorge poco addentro via Martignacco, dalla quale è visibile, in una piccola area verde e alberata fra via Raccolana e Via Val Pesarina (i nomi delle vie delle Villaggio del Sole sono tutti di vallate alpine o prealpine: uniformità e scarsa fantasia nella toponomastica, così come nel piano urbanistico del quartiere, con i suoi condomini disperatamente uguali, o simili, gli uni agli altri). È una tipica chiesa del periodo conciliare, e ne riflette l’ideologia del rinnovamento a ogni costo, specialmente nella brutta parte superiore, con il tetto a spioventi esageratamente espansi, sì da sembrare una enorme fisarmonica; eppure, bisogna ammetterlo, ancora al di qua di una linea ideale di separazione fra l’autentica tradizione cattolica e un neocattolicesimo sempre più velleitario, modernista e relativista, che trionferà nell’architettura "sacra" (fra virgolette) di qualche anno dopo, e che avrà i suoi dubbi modelli esemplari in chiese come quella dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, in via Cadore (e che neanche si riconosce dall’esterno come una chiesa, tant’è che mancano sia la croce, sia qualsiasi altro simbolo religioso, cosa che riempie di orgoglio quanti l’hanno così voluta, progettata e realizzata), e quella di San Domenico, in via Massaua. La chiesa di san Cromazio, a pianta ottagonale e a forte sviluppo verticale, incorniciata dagli alberi, solida, robusta, a suo modo proporzionata ed equilibrata, con l’ampia scalinata in pietra che la precede e, all’interno, una luminosità diffusa proveniente dai pochi e stretti, ma altissimi finestroni verticali, che attraversano l’intera superficie delle pareti, dal pavimento all’inizio del soffitto, anche se non è bella e anche se non trasmette un senso di calda spiritualità, nondimeno consente un certo raccoglimento ed è ancora pur sempre una chiesa, cioè un edificio sacro riconoscibile come tale, e identificabile come cattolico, con la sua croce in cima al tetto: il che, come si è detto, di questi tempi non è neppure una cosa scontata, per quanto incredibile ciò possa sembrare. Ma chi era codesto san Cromazio, che, fuori del Friuli — ma, sicuramente, anche al suo interno — risulta pressoché sconosciuto alla grande maggioranza dei fedeli? È stato un arcivescovo di Aquileia, vissuto fra il 340 e il 408 circa, quando la città, pur nella generale decadenza dell’Impero di Occidente (la caduta di Roma in mano ad Alarico è del 410) era ancora una delle più grandi città romane d’Italia, un importante nodo stradale e marittimo, e un notevolissimo centro religioso, tanto che vi si tenne un concilio, nel 381, che condannò definitivamente l’arianesimo. E alla lotta contro l’eresia ariana fu dedicata anche la maggior parte della vita e dell’impegno teologico e letterario di san Cromazio, del quale ci restano diversi scritti e alcune decine di sermoni a commento di brani, soprattutto del Nuovo Testamento. Ecco come riassume la sua vita Domenico Agasso, consultabile sul sito www.santiebeati.it:

Non l’ha canonizzato nessuno, che si sappia. Però il Martirologio romano lo ricorda come santo e «vero artefice di pace, pronto a elevare le menti verso le cose più amate», anche in mezzo alle rovine e ai lutti che colpivano il territorio friulano e la città. Aquileia, già colonia romana nel II secolo a.C. e sede di guarnigioni militari, è stata poi fortificata tra il 161 e il 180 dall’imperatore Marco Aurelio, che ne ha fatto un bastione contro le invasioni dall’Est. Secondo una tradizione, il cristianesimo vi sarebbe stato diffuso da san Marco evangelista. La cronologia dei vescovi è lacunosa nei primi tempi, e sicura dal 285 in avanti.

Cromazio nasce in una famiglia benestante. Sappiamo infatti che in casa sua (dove ci sono il fratello Eusebio e tre sorelle) s’incontrano sacerdoti e laici animati da lui: una sorta di gruppo ascetico culturale che verso il 370 accoglie anche un funzionario imperiale dimissionario: un dàlmata Girolamo. Questi arriva da Treviri, in Germania (sede stagionale degli imperatori), dove ha rinunciato alla sua carica. E in casa di Cromazio, tra letture, preghiere e discussioni, si prepara al cammino che lo condurrà in Oriente, e all’opera gigantesca di tradurre le Scritture in latino.
Il vescovo Valeriano di Aquileia ha ordinato sacerdote Cromazio, e si serve di lui per la difesa della dottrina cattolica contro l’arianesimo, che in Alta Italia ha ancora sostenitori, anche tra i vescovi. Proprio per giungere a un chiarimento generale in materia di dottrina, nel 381 si riunisce ad Aquileia un Concilio regionale; e Cromazio è uno dei più autorevoli ispiratori delle sue conclusioni.
Morto poi Valeriano, è lui a succedergli come vescovo di Aquileia, e riceve la consacrazione episcopale da sant’Ambrogio di Milano. Dall’Oriente, Girolamo lo definirà il vescovo «più santo e più dotto» del suo tempo. E sicuramente egli è pure uno dei più generosi verso il traduttore della Bibbia: gli manda lettere di incoraggiamento e anche aiuti in denaro; e Girolamo ricambia dedicandogli alcune delle sue versioni bibliche.

Ma nell’Impero, governato da due imperatori "colleghi" e spesso rivali a morte, per due volte in pochi anni la guerra arriva addosso al Friuli. Due battaglie e due vittorie di Teodosio (luglio 387 e settembre 394), con l’immediata uccisione dei rivali sconfitti e le solite devastazioni e rapine della truppa. Così Teodosio rimane imperatore unico, ma alla sua morte riecco un imperatore in Italia (Ravenna) e uno a Costantinopoli: Onorio e Arcadio, figli di Teodosio.

Nel 404, un avvenimento lontano sottolinea il prestigio di Aquileia e del suo vescovo. Il patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, è stato condannato un’altra volta all’esilio, e chiede aiuto a tre persone: papa Innocenzo I, Ambrogio di Milano e Cromazio di Aquileia. Il quale interviene presso Onorio, ma invano. Il patriarca morirà in esilio.

Le delusioni non fermano la sua operosità di promotore di cultura cristiana. Tra un’invasione e l’altra (anche i Visigoti, ora) aiuta e incoraggia studiosi; e uno se lo prende in casa, Rufino di Aquileia, per fargli continuare la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. E quando Rufino e Girolamo polemizzano tra loro, fa di tutto per riconciliarli e riportarli allo scrittoio. Anche lui, Cromazio, studia e scrive: conosciamo una raccolta di suoi sermoni e un commento parziale al Vangelo di Matteo.

La chiesa, dicevamo, non è bella, e tuttavia la si può guardare, ci si può entrare, vi si può pregare: non vi è nulla che urti frontalmente il sentimento religioso, anche se un po’ tutto parla un linguaggio umano, troppo umano, come direbbe il buon vecchio Nietzsche, con quello sforzo di modernità che oggi, a distanza di soli cinquant’anni, mostra quanto è sbagliata la smania dei cattolici progressisti di correre dietro alle mode del mondo, perché ciò che è oggi è moderno, domani sarà archeologico, e dunque la Chiesa bene ha fatto a non tenere in alcun conto, per millenovecento anni, le mode di questo mondo, per affermare sempre, con chiarezza e, se necessario, con intransigenza, il suo messaggio, che è ben distinto, per non dire opposto, al messaggio del mondo. Perché gira e rigira, la questione è sempre quella: cosa deve essere una chiesa, cosa deve essere la Chiesa; e quale deve essere la sua relazione con il mondo. Se una chiesa è la casa di Dio, e se la Chiesa è l’istituzione voluta e fondata da Gesù Cristo per la salvezza degli uomini, allora chi entra in una chiesa deve poter trovare Dio, sentirne la presenza, o, almeno, non trovar nulla che possa ostacolare un tale incontro; e deve poter udire dalla Chiesa quelle Parole di vita eterna che infiammavano il cuore agli Apostoli quando Gesù parlava, e li spinsero a dare tutto per predicare il suo Vangelo, affrontando fatiche, pericoli e il martirio. La Chiesa, dunque è lo strumento necessario per la salvezza degli uomini: ma per poterli salvare, bisogna che essa sia veramente se stessa, cioè che rimanga perfettamente fedele all’insegnamento di Gesù. Se lo modifica anche solo di poco, se lo adatta, se lo attenua, se lo confonde, se lo stempera, se lo edulcora, e fa queste cose per piacere al mondo, o per non dispiacergli, allora essa tradisce il Vangelo e tradisce se stessa: non è più la fedele Sposa di Gesù Cristo, ma una volgare sgualdrina, la quale, lungi dal poter salvare il mondo, non riuscirà a giustificare nemmeno se stessa, quando Dio le domanderà conto del suo tradimento. Voi siete il sale della terra, dice Gesù ai suoi Apostoli, ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini (Mt 5,13). È un’affermazione molto recisa e severa, che dovrebbe richiamare i cattolici al dovere di essere fedeli.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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