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Omaggio alle chiese natie: Pietro e Paolo a Colugna

Con la chiesa parrocchiale di Colugna usciamo, sia pure di poco, dal territorio comunale di Udine per passare in quello di Tavagnacco, attraversato dal torrente Cormor, verso Nord-est: in effetti, si trova in posizione pressoché equidistante dalla sede comunale di Tavaganacco, situata nella fazione di Feletto Umberto (perché si tratta di un comune sparso), e dal centro di Udine, quattro chilometri o poco più in entrambe le direzioni. A differenza della non lontana chiesa dei Rizzi, che ha solo cento anni, o di quella delle Beata Vergine di Fatima, lungo la via Colugna nel territorio del capoluogo, che ne ha circa sessanta, la chiesa di Colugna è di origine medievale, anche se sostanzialmente ristrutturata ne l 1700, come lo è tutto l’insediamento di cui fa parte: ne abbiano notizie certe già alla fine del XIII secolo.

Riportiamo dal sito www.comune.tavagnacco.ud.it:

Colugna prende origine dal latino "Colunia", che significa colonia nel senso di casa del contadino.
Un documento del 1258 cita 
"Silvis in Colunia", un secondo del 1294 "In Chulugna prope Utinum", ma certamente questo luogo era abitato da molti secoli, forse anche in periodo preromano.
Nel 1465 il 
" Liber Feudarum Forjulii", di "fogi e sottani" ci dice che"Cologna ha fogi 5".
Dal punto di vista religioso, Colugna, dipende dal Vicariato di Paderno, assieme a Cavalicco e Feletto. Valentino Lovaria acquista nel 1600 buona parte del territorio di Colugna e, nel 1715 la repubblica veneta la cede per 2500 ducati e il titolo di conte a Francesco Giovanni Beretta.
La situazione perdura sino al 1797, quando in virtù del codice napoleonico Colugna viene aggregata a Feletto.

La chiesa parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo venne eretta nel 1384, in dimensioni assai ridotte rispetto all’edificio odierno, che risulta da un ampliamento del XVIII secolo. La pianta è ad aula rettangolare; la facciata è molto semplice, a capanna, con un unico portale d’ingresso, una sola finestra rettangolare al di sopra di esso, il timpano triangolare rilevato, con cornici modanate e oculo centrale, e la torre campanaria inglobata nella struttura, a Nord, L’elemento forse più caratteristico, all’esterno, è un piccolo loggiato che precede l’ingresso secondario, a doppio spiovente, sorretto da quattro colonnine in pietra, appoggiato sulla sinistra al campanile che è direttamente incorporato nella fiancata della chiesa, e che le conferisce un’aria antica e, se si potesse parlare di fisionomia per gli edifici sacri, una fisionomia particolare, a suo modo unica. Per noi, arrivando qui dopo una veloce pedalata in qualche bella giornata estiva o primaverile, quel minuscolo loggiato aveva conservato l’atmosfera un po’ strana e vagamente esotica delle cose dei secoli passati, proprio come quello della chiesetta della Pietà in Piazzale Cella, della quale abbiamo già parlato. L’interno, invece, non ha quasi nulla di medievale: le sue forme sono quelle di un lindo, impeccabile stile settecentesco, sobrio e quasi privo di decorazioni; è a navata unica, con un presbiterio molto profondo e sopraelevato di due gradini, e una discreta luminosità che filtra dalle alte finestre rettangolari. Il soffitto è a volta a crociera decorata; sulla controfacciata, la balconata di legno della cantoria, sostenuta da due colonne, ma senza organo; il fonte battesimale in pietra è all’inizio della navata, nell’angolo di sinistra.

Riportiamo dal medesimo sito le seguenti notizie sulla chiesa dei santi Pietro e Paolo:

La Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Colugna sorge in piazza Giuseppe Garibaldi. Fu costruita nel 1368 e consacrata nel 1547. Originariamente era dipendente dalla Chiesa di Sant’Andrea Apostolo di Paderno. Un interessante documento risalente al 1593 conferma che Paderno era la sede del Vicariato superiore della pieve di Udine, e che a lei erano soggette sei filiali e una cappella campestre. Tra le filiali ritroviamo proprio la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Colugna. Oltre alle chiese di San Tomaso di Caprlys (l’odierna Chiavris), Sant’Antonio Abate a Feletto, San Leonardo a Cavalicco, San Giovanni Battista a Godia, San Giacomo Maggiore a Beivars e la cappella di San Pantaleone a Vat. Al tempo, i sacramenti venivano impartiti esclusivamente presso la chiesa madre di Paderno. Ma l’insistente richiesta dei fedeli della cappellaia di Colugna di poter celebrare le funzioni religiose presso le chiesa del paese, fece sì che Colugna venisse eletta vicaria.

Solo nel 1946 la chiesa di Colugna divenne parrocchia autonoma, separandosi da quella di Paderno. La costruzione iniziale, di dimensione piuttosto ridotte, fu ristrutturata ed ampliata tra il XVIII e XIX secolo. A fianco della chiesa spicca la struttura del campanile, che conserva tutt’oggi l’aspetto originario in sasso. L’interno si presenta ad un’unica navata a pianta rettangolare, rivestito di un candido intonaco bianco e pavimento in marmo. Al centro del presbiterio si trova l’altare maggiore in marmo, dietro il quale è posto il Cristo Crocifisso;  mentre sul lato sinistro si apre una piccola cappella laterale.

La chiesa parrocchiale sorge in uno spiazzo al centro della piccola frazione, dove la via Patrioti confluisce in piazza Garibaldi; davanti al portico un grande albero e alcune aiuole fiorite; ai lati e di fronte, case a due piani, non troppo moderne, che consentono all’antico edificio religioso di inserirsi senza strappi nel paesaggio circostante, quello di una località ridente e tranquilla. Di fatto, molti abitanti del capoluogo si sono trasferiti da queste parti, proprio per godere di una maggior serenità, a fronte di servizi pubblici di qualità non inferiore: dal 1961 a oggi i residenti del comune di Tavaganacco sono passati da meno di 7.000 a quasi 15.000, cioè sono più che raddoppiati, mentre quelli di Udine sono rimasti sostanzialmente stabili, attorno alle 100.000 unità, e questo nonostante l’istituzione, nel 1978, dell’Università cittadina. Non vi è stato un aumento delle nascite, ma semplicemente un trasferimento di residenti da Udine alla periferia nord-orientale, nel territorio del comune limitrofo. E anche questo è un fenomeno ormai generalizzato e caratteristico: la fuga dei residenti dai centri storici verso le zone residenziali circonvicine, e, viceversa, il progressivo abbandono dei centri stessi, nei quali subentra gradualmente una popolazione eterogenea, formata da immigrati delle più svariate provenienze.

Per noi, non solo la chiesa di Colugna, ma tutto il territorio di questo comune, fino a Tavagnacco, quattro chilometri più a Nord, rievoca numerosi ricordi, sia di corse in bicicletta, sia di serene domeniche familiari, che comprendevano il pranzo in uno dei simpatici e caratteristici ristoranti della zona, come Al Grop e Al parco. Questa era veramente una zona amena, negli anni ’60 del Novecento era già campagna, a quattro passi dalla città: un piccolo mondo tutto da scoprire e da esplorare: c’erano colline boscose, campi di granturco, vigneti e giardini, ma anche case coloniche, portoni e muri di pietre a secco coperti d’edera, roccoli per l’uccellagione e vecchi rustici, molti dei quali sono oggi in vendita, previa ristrutturazione. Perché le vecchie famiglie contadine non ci sono più, se ne sono andate, si sono dissolte, e ora ci sono soltanto minuscole famiglie di tre o quattro persone, anzi non poche sono formate da un’unica persona che vive da sola; e alle grandi case rurali di una volta si sono sostituiti gli appartamenti in condominio, con lo spazio misurato e le pareti sottili come fogli di cartone, o poco più. Per noi, bambini, il fascino più grande era quello esercitato dai roccoli, quei misteriosi giardini circolari, silenziosi, metà natura e metà architettura, cintati da foltissime siepi, che si nascondevano volutamente nelle pieghe della campagna, di solito in cima a una collina, tutti immersi nel verde, quasi palazzi arborescenti che prendevano vita da un libro di fiabe; avevano realmente qualcosa d’incantato, di magico, che non si poteva esprimere a parole. Vi si respirava un’atmosfera rarefatta, come se custodissero un segreto, una cosa non detta. Ma come si può trasmettere quelle sensazioni? È impossibile, perché il mondo dell’infanzia è un mondo parallelo a quello degli adulti, ma essi, per quanto vicini, non arrivano mai a toccarsi. Lo si vede quando un adulto torna nella sua casa d’infanzia, o quando prende in mano un giocattolo di tanti anni prima: lui stesso non riesce a rivivere, se non in parte e in forma assai sbiadita, le emozioni e i pensieri che allora erano tanto vivi, quasi incandescenti. Tanto più difficile, per non dire impossibile, comunicare il senso dei propri ricordi ad altri. In fondo, ogni bambino è simile a un artista, appunto perché non si limita a registrare le sue impressioni e a farsi un’idea delle cose, ma in un certo senso le ricrea, come se prendessero forma per la prima volta: il che è appunto ciò che fanno il poeta, il pittore, il musicista, eccetera. L’artista ha un mondo tutto suo, dentro di sé, al quale impresta, per così dire, le impressioni sensibili che gli vengono da questo mondo, che condivide con gli altri, ma solo esteriormente; e lo porta alla luce, lo partorisce, mescolando gli elementi dei due diversi piani di realtà; e il bambino fa esattamente la stessa cosa. I paesaggi dell’infanzia, perciò, esistono più che altro nella mente e nel cuore del bambino; quelli reali, o che per convenzione si considerano tali, ne sono solo il pretesto, l’occasione. Mano a mano che la forbice fra le due realtà si allarga — il che avviene, di solito, lungo gli anni dell’adolescenza — i loro destini si separano, finché si perderanno completamente di vista e rimarrà solo il mondo reale. Nel caso dell’artista, invece, l’altro mondo, quello creato dalla propria immaginazione, non cessa di esistere, anzi, torna alla superficie ogni volta che viene evocato; ma, per quanto egli si sforzi, non riuscirà mai ad esprimerlo interamente, splendente di fascino come l’aveva visto nello specchio della propria anima, bensì più freddo, più definito, più spento. L’artista riesce a comunicare solo una parte, una piccola pare, del suo mondo interiore, delle cose che ha visto, udito, odorato dentro di sé; così’ come l’adulto, per quanto legato alla propria infanzia, non riuscirà mai a riportarla al suo splendore originario, neanche nel ricordo, e meno ancora nel tentativo di raccontarla e di condividerla con gli altri.

Questo discorso vale soprattutto per i romanzieri, e in particolar modo per quei romanzieri che, in maniera più o meno velatamente autobiografica, costruiscono i loro libri sui ricordi dell’infanzia, e soprattutto sui luoghi ove hanno ricevuto le prime, memorabili impressioni della realtà. I più consapevoli di loro rinunciano a rappresentare quei luoghi in maniera obiettiva, e creano dei luoghi "paralleli", con altri nomi e altri particolari, pur se, nella sostanza, sono proprio quelli: i luoghi dell’infanzia felice (o magari infelice), i luoghi nei quali lui, per la prima volta, ci si accorge che un mondo esiste, là fuori, e che incominciare a scoprirlo dipende da noi, non per via dell’età che abbiamo e delle cose che facciamo, ma da come le facciamo, e da come viviamo la nostra età. Per esempio, la famosa scrittrice inglese Norah Lofts ha ambientato gran parte dei suoi libri nella immaginaria cittadina di Baildon, nell’East Anglia, che era, in realtà, la città di Bury St. Edmunds; Thomas Hardy ha creato un "suo" particolare Wessex, popolato di luoghi e città reali, ma con nomi diversi, per esempio la città natale dello scrittore, Dorchester, diventa Casterbridge; Joseph Sheridan Le Fanu ambienta alcune delle sue storie del mistero e del terrore nel paese di Golden Friars, nell’Inghilterra settentrionale; William Faulkner ha creato l’immaginaria contea di Yorknapatawpha, ispirata alla contea di Lafayette, nel Mississippi, e ne ha perfino disegnato la mappa, con molta precisione e pignoleria; e H. P. Lovecraft proietta la sua città natale, Providence, in una città immaginaria della Nuova Inghilterra, Arkham, con le città vicine di Dunwich e Innsmouth; e si potrebbe continuare a lungo. La ragione di tanta immaginativa è che, come ha osservato Giovanni Papini nelle memorie di Un uomo finito, precisamente nel racconto San Martin la Palma, quando un luogo viene amato troppo a lungo, ma in maniera solitaria, con gli occhi del ricordo, la sua proiezione mentale diventa così superiore al luogo reale, da risultare del tutto indipendente da esso. Non c’è via d’uscita da questa contraddizione, per quanto si possa tentare, come Proust, di ritrovare il tempo perduto. Il tempo perduto non ritorna, e meno ancora lo si può mostrare ad altri. Quel che si può fare è semmai, come ha visto e mostrato Kierkegaard, procedere ricordando: un movimento in avanti accompagnato dal passato e non sciolto da esso e immemore di esso. Procedere senza ricordare è la barbarie; ricordare senza procedere è la morte. Sarebbe una bella cosa se questa filosofia venisse adottata non solo dagli artisti e dagli scrittori, ma anche dagli amministratori pubblici, dagli urbanisti, dagli architetti e da tutti coloro i quali hanno a che fare con la strutturazione degli spazi, naturali e artificiali, che fanno da cornice alla nostra esistenza. Le città e i paesaggi sono a misura d’uomo se hanno in se stessi questa doppia dimensione e se sanno esprimere questo doppio movimento: il procedere verso il futuro, ma portando con sé il ricordo del passato. L’uomo senza passato è un albero senza radici e una società che disprezza la tradizione corre nel vuoto, diretta verso il nulla. E ciò vale anche per quella particolare società che è la Chiesa.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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