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Omaggio alle chiese natie: Santa Maria della Pietà

Il massiccio ed elegante palazzo che è tutti conoscono come la sede della Casa di Risparmio del Friuli Venezia Giulia, sul lato sinistro della via Mercatovecchio, è in effetti tale solo dal 1882, ma è vecchio di tre secoli e mezzo, perché venne costruito assai velocemente, fra il 1566 e il 1569, su progetto dell’architetto Francesco Floreani, per essere poi ampliato e perfezionato da Bartolomeo Rava e Giuseppe Benoni, e ultimato nel 1690; la cappella, fu terminata quattro anni più tardi. Qui siamo veramente nel cuore pulsante della città: basti dire che, in origine, il palazzo ospitava al piano terra ben trentasei botteghe, di merceria, spezieria, oreficeria, eccetera. La facciata, al di sopra dei poderosi portici in bugnato, è liscia, con due enormi trifore dotate di balaustra e sormontate da un timpano spezzato; ai quattro angoli dell’edificio svettano, assai sporgenti, quattro gruppi marmorei che rappresentano tutti lo stesso soggetto, la Pietà, il più antico dei quali è quello che si affaccia sul Mercato Nuovo. All’intero del palazzo, sotto i portici e sul lato principale, quello del Mercato Vecchio, è stata ricavata la cappella di Maria, bellissimo ambiente barocco pieno di stucchi e di affreschi che non creano, tuttavia, alcun senso di pesantezza, ma al contrario trasmettono una lievità quasi vaporosa, e inoltre, grazie ai colori brillanti e alle forme svelte, e armoniose ingentiliscono e in qualche modo sdrammatizzano l’atmosfera. A renderla seria e a ricordarci che si tratta di una chiesa, e di una chiesa dedicata alla Pietà, ci pensa il capolavoro scultoreo collocato sopra l’altare, opera di un artista tedesco, ma qualcuno lo vuole olandese o fiammingo, di notevoli capacità: la Pietà di Enrico Meyring (Heinrich Meyring, nato a Rheine, in Renania, ma vicino al confine olandese, verso il 1638 e morto a Venezia l’11 febbraio 1723, italianizzato talvolta in Enrico Merengo). Lo si può considerare senz’altro come uno dei maggiori capolavori del barocco in Friuli, per la squisitezza della fattura e l’acuta sensibilità cromatica, dovuta all’effetto straordinario della continuità di linee curve formate dai volti e dalle braccia di Cristo, della Madonna e degli Angeli adoranti, e il sapientissimo gioco di chiaroscuri, specialmente nel panneggio delle vesti, i quali spezzano i raggi luminosi e diffondono una luce opalescente che pare sciogliersi sulla lucida superficie del marmo. È impossibile sostare davanti a quest’opera senza sentirsi profondamente commossi; benché il movimento dei corpi, lo svolazzare delle vesti e la mimica dei volti risenta di una certa tendenza alla teatralità che è tipica della civiltà barocca, la stessa — del resto – che si nota nel teatro, nella poesia, nella musica e, naturalmente, nell’architettura e nella pittura, nondimeno si percepisce, oltre a una straordinaria bravura tecnica, una certa innegabile sincerità di sentimento, che si trasmette all’osservatore e che fa di questo piccolo locale, le cui pareti paiono dilatarsi a dismisura, anche per merito degli affreschi con la Passione di Cristo e le storie della Madonna, dipinti da Giulio Quaglio, e dei luminosi stucchi di Lorenzo Retti e Giovanni Battista Bareglio (entrambi provenienti dalla Val d’Intelvi, in provincia di Como) un luogo affascinante e quasi indefinibile, ove si provano emozioni talmente grandi da eccedere di molto le sue dimensioni, misurate soltanto con il metro.

Oggi una bussola di vetro permette di vedere l’interno, anche se la cappella è chiusa, e ciò fa sì che non ci sia un solo abitante di questa città che possa dire di non sapere che questa cappella esiste, o ignorare i suoi affreschi, i suoi stucchi e soprattutto il suo altare seicentesco con il bassorilievo del Cristo che cade sotto il peso della croce, e soprattutto con la Pietà, un’opera che riesce a rendere aggraziata, senza divenir leziosa, perfino la scena in assoluto più drammatica di tutta l’iconografia cristiana, il compianto di Maria Vergine sul corpo del suo divino Figlio morto. Questo capolavoro è stato realizzato nel 1695 e benché abbia più di trecento anni, si sprigionano da esso una forza, una freschezza, una potenza di pathos che lo rendono perennemente giovane, o meglio che lo sottraggono alle leggi del tempo, per cui ciò che trasmette ai fedeli non cessa mai di essere attuale, di stupire, di commuovere; mentre con le opere che si sforzano di essere giovani a ogni costo, di essere moderne, di apparire al passo con la sensibilità dei contemporanei, accade esattamente l’opposto: che, trascorsi solamente pochi anni, quando la sensibilità e il gusto cominciano a cambiare, ecco che esse perdono il loro smalto, perdono la freschezza, appaiono inesorabilmente datate, lasciano vedere il tentativo artificiale di essere facilmente popolari, come se la vera arte non nascesse da un sentimento che non conosce il tempo e non si sottomette alle leggi dello spazio. E se ciò è vero per l’arte, per la poesia, per la musica, per il teatro, per il cinema, a maggior ragione è vero per la fede, che si esprime attraverso la liturgia e la pastorale, e che si organizza attorno a un nucleo di dottrina, cioè di verità, che è semplicemente insensato considerare qualcosa di rigido, qualcosa che si deve adattare e "ammorbidire" per essere più efficaci, più credibili, o, addirittura, più "moderni". Che c’entra la modernità con la fede? E che c’entrano la credibilità e l’efficacia? Forse che Gesù voleva essere credibile, o efficace, o moderno; e forse che dava raccomandazioni di tal genere ai suoi Apostoli, allorché li mandava per il mondo a battezzare e ad annunciare la sua Buona Novella? Niente affatto: Gesù è credibile, per chi accoglie con fede il suo Vangelo; ed è credibile perché la sua vita, la sua parola e il suo sacrificio appaiono in una luce di verità assoluta, non perché egli, o i suoi discepoli, o i suoi pastori, si sforzino di esser credibili, efficaci e moderni. Un prete non deve apparire credibile, deve essere credibile; ed è credibile se dalla sua persona, dalla sua vita, dal suo modo di pregare, di predicare, di annunciare il Vangelo, si sente la sua fede assoluta in Gesù Cristo. Se si sente che egli ha letto molti libri, che è teologicamente molto aggiornato, che è animato da idee assai progredite; oppure se si avverte che egli vuol piacere, vuol sedurre mediante atteggiamenti di facile popolarità, allora automaticamente egli cessa di essere credibile: e non c’è Messa col party, o coi burattini, o con i pagliacci, o con le danzatrici di Shiva, o col dio Ganesha dalla testa di elefante che entra in chiesa in processione, o con gli islamici che leggono brani del Corano (succede anche questo), o con il vescovo che va in bicicletta per il presbiterio, o che si mette a catare canzoni moderne dall’ambone, o sacerdote che ride, scherza, fa battute in dialetto, che riesca a trasmettere minimamente la serietà, la purezza e la verità del Vangelo. Perché il Vangelo si presenta da solo, si qualifica da solo, si illustra da solo, e a chi lo annunzia chiede soltanto di non aggiungere nulla, di non togliere nulla, di non mettersi avanti con la propria persona, di non sovrapporre alla parola di Dio, assoluta, eterna, perfetta, le umane parole, pretenziose, ricercate, magniloquenti, e perciò così misere, così patetiche, da risultare simili a dei ridicoli balbettamenti.

La tragedia e il tradimento del Concilio Vaticano II sono tutti qui: nell’aver voluto aggiungere qualcosa, e togliere qualcos’altro, affinché la Rivelazione divina risulti più efficace, più credibile e più moderna, più adatta allo spirito dei nostri tempi e più capace di raggiungere il maggior numero di persone che vivono immerse in una società pervasa di materialismo, edonismo e consumismo. Quale immenso peccato di superbia! È come se quei signori, Karl Rahner, Edward Schillebeeckx, Hans Küng, Henri-Marie de Lubac, Godfried Danneels, avessero pensato fra di loro: Quel Gesù Cristo, vissuto in Palestina quasi duemila anni fa, oggi come oggi non può essere accettato, perché pensava, sentiva e parlava in un modo che è lontanissimo da quello degli uomini moderni: e infatti il cristianesimo è in crisi, la Chiesa è in affanno, i conti non tornano, bisogna fare qualcosa, altrimenti si scioglierà tutto fra le nostre mani. Così come la sua parola è stata tramandata nel corso dei secoli, poteva anche andar bene, fino a quando non è nata la civiltà industriale, con la sua mentalità scientifica, che ha cambiato radicalmente la struttura psicologica e intellettuale degli uomini. L’uomo di oggi non potrà mai più credere al Vangelo nella maniera dei nostri padri, dei nostri nonni, perché il mondo è cambiato. Ed è cambiato in maniera tale che nulla sarà mai come prima, non si può tornare indietro ma solo andare avanti, sempre avanti. Questa è la legge del progresso, alla quale non ci si può, né ci si deve opporre. Pio IX, con il Sillabo, ha sbagliato: non doveva condannare le idee del mondo moderno, doveva fare discernimento fra di esse, vedere quel che di buono c’era, accogliere quel che non si può respingere perché ormai fa parte del mondo moderno e nessuno lo può rifiutare. Anche Pio X ha sbagliato a condannare il modernismo con la Pascendi, non doveva dichiararlo un’eresia, non doveva adoperarsi per soffocarlo, ma discernere quel che in esso vi era di vivo, di giusto, di santo, accoglierlo e incorporarlo nella dottrina. Così bisogna fare, se si vuole attualizzare il Vangelo ed evitare di mummificarsi. Per fortuna adesso qui ci siano noi, che siamo teologi profondi e cardinali e vescovi molto intelligenti, e coglieremo al volo le opportunità che i tempi nuovi ci offrono: non ripeteremo gli errori di Pio IX e di Pio X, non ci culleremo nell’immobilismo di Pio XII, ma andremo gioiosamente incontro alla modernità; non condanneremo nessuno (chi siamo noi per giudicare?), useremo sempre e solo la misericordia con tutti, faremo in modo di conquistare i cuori con la tenerezza, con la benevolenza, e instaureremo la civiltà dell’amore, superando le frontiere e affratellando gli uomini in un’unica famiglia. Bello, vero? Peccato che tutto ciò non sia più cristianesimo, che non sia affatto cattolicesimo, che una Chiesa ispirata a siffatti principi non sia più la chiesa di Gesù Cristo, ma tutt’altra cosa. Sarà la sinagoga di Satana, forse; certo non sarà la Sposa di Cristo.

La radice del male che sta avvelenando e soffocando la Chiesa, oggi, è questa: un peccato di orgoglio intellettuale, un atto d’intollerabile superbia nei confronti del Vangelo. È la stessa radice dalla quale era germinato il primo modernismo, al principio del XX secolo: solo che, al confronto, le idee e i comportamenti di un Salvatore Minocchi, di un Romolo Murri, di un Ernesto Buonaiuti, di un George Tyrrell, di un Friedrich von Hügel, di un Alfred Loisy e di un Lucien Laberthonnière, al confronto di quelli del neomodernismo attuale, portato avanti dai vertici stessi della chiesa, dietro ispirazione di un Walter Kasper, della massoneria ecclesiastica e di forze esterne, come l’ebraico B’nai B’rith, nonché dei teologi e dei pastori luterani, appare come qualcosa di timido, d’incerto, di confuso, e, tutto sommato, perfino di relativamente poco pericoloso, benché sicuramente erroneo, e perciò eretico. Ma i Paglia, i Galantino, i Bassetti, i Sosa, i De Kesel, i Martin, i Marx, i Bonny, i Schönborn, e naturalmente il signor Bergoglio, che è stato insediato sul soglio pontificio a questo preciso scopo, sono ben più pericolosi, ben più astuti, ben più esiziali, perché sono animati da una perfida, lucidissima, precisa volontà di sovversione e distruzione della Chiesa e del Vangelo. E se i fedeli non se ne renderanno conto quanto prima; se non si opporranno a questa truffa colossale, a questo diabolico inganno; se non cacceranno a pedate i pastori indegni e traditori; e se, soprattutto, non si convertiranno e cesseranno di essere dei cattolici banali, insipidi e conformisti, dei cattolici della domenica, merce che si compra e che si vende a un tanto il chilo, e non si abbandoneranno con fervore, umiltà e dedizione assoluti alla misericordia del Signore, annullando il loro umano orgoglio e i loro umani desideri, per lascare che Egli tolga loro dal petto il cuore di pietra e doni loro un cuore nuovo, di carne, che sente, che soffre, che arde d’amore per Lui, non ci sarà alcun futuro per la Chiesa, e il principe di questo mondo finirà per trionfare. Si avvicinano i tempi della battaglia finale, quella predetta nell’Apocalisse e della quale tante volte ha parlato ai suoi fedeli la Vergine Maria, mostrandosi a delle umili creature, a dei ragazzini, a dei pastorelli, come a Lourdes, o a La Salette, o a Fatima, chiedendo sempre conversione, preghiere e penitenza. E che fanno, invece, i neoteologi e ei neopastori, i vescovo di strada, i preti progressisti con la sciarpa arcobaleno? Che fa il signor Bergoglio, perfino a Fatima, dove ha dovuto recarsi in occasione del centenario delle apparizioni mariane, ma facendo di tutto per togliere sostanza e significati a quella ricorrenza? Predicano forse la conversione, la preghiera e la penitenza? Predicano la santità, la croce, la testimonianza del cristiano, spinta, se necessario, fino al martirio? Niente affatto: predicano l’accoglienza dei migranti islamici, l’inclusione degli omosessuali, l’accettazione delle unioni contro natura, il facile perdono per l’aborto e l’eutanasia; predicano la fine dei dogmi, l’abbattimento dei muri, la critica della dottrina, l’abbandono dell’apostolato; insegnano che tutti gli uomini sono già nella verità, basta che seguano la loro coscienza, basta che si lascino guidare dal loro umano desiderio di "realizzarsi". Significative e riepilogative sono state, a questi riguardo, le parole rivolte dal signor Bergoglio a un giovane omosessuale cileno, Juan Carlos Cruz: che tu sia gay non importa. Dio ti ha fatto così e ti ama così e non mi interessa. Il papa ti ama così. Devi essere felice di ciò che sei. Ecco: questo è il tradimento del Vangelo; questo è il rovesciamento della Parola di Dio. Se non ci fossero decine e decine di altri atti e parole di questo signore argentino che usurpa la cattedra di san Pietro, queste parole, da sole, basterebbero a rivelare al mondo chi egli sia in realtà: un nemico pericolosissimo della Chiesa, sleale e diabolicamente astuto, il quale, dietro una certa apparenza di pietà e comprensione, mira a distruggere tutto ciò che Gesù Cristo ha insegnato…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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