
Omaggio alle chiese natie: la Cappella Manin
4 Agosto 2018
Omaggio alle chiese natie: Santa Maria della Pietà
5 Agosto 2018L’ultimo tratto di via Pracchiuso, venendo dal Largo delle Grazie e andando verso il Piazzale Oberdan, è decisamente meno interessante del precedente, per la prevalenza di nuovi edifici e di condomini anonimi e banali, sorti sul luogo delle vecchie case ottocentesche, caratteristiche del borgo, che gli conferivano la sua caratteristica atmosfera un po’ trasognata e fuori del tempo. Oltrepassata la sede dell’ex distretto militare e del suo vecchio ospedale (dove noi pure, imprevisti della vita, ci siamo trovati ad esser ospitati nostro malgrado, per qualche giorno, al tempo del servizio militare nella brigata alpina Julia), e la simpatica chiesa di San Valentino, dalla semplice ma armoniosa facciata in stile barocco, che reca in alto, sopra il portone, la data di costruzione, 1574, e quella di restauro, 1903, si arriva, proprio in fondo al borgo, sul luogo ove sorgeva la porta cittadina della quinta cerchia di mura, la cui torre venne abbattuta, perché pericolante, nel 1846, mentre gli archi vennero atterrati alla fine del secolo, nel 1899. Proprio lì, sul lato sinistro della via e subito prima del piazzale, oltre il quale si prosegue per via Cividale, sorge, quasi circondato dai casamenti moderni, e tuttavia, nello steso tempo, ingentilita dall’area verde e dai cedri maestosi, da cipressi e dai pini marittimi che fiancheggiano il prospiciente viale Armando Diaz, e le creano un piacevole sfondo, la chiesa, o chiesetta, di Sant’Antonio da Padova, nota un tempo come chiesa di San Valentino e che molti giovani, ancora oggi, probabilmente confondono con la vera chiesa di San Valentino, quella dell’ex ospedale. A chi vi giunge davanti per la prima volta, e non ha l’occhio particolarmente esercitato, sulle prime potrebbe sembrare forse la solita chiesetta in stile neogotico, costruita all’inizio del XX secolo, quando il revival medievale andava forte quasi quanto il liberty: tanto la sua struttura generale, con il portone sormontato da un arco a sesto acuto, le due alte e strette bifore laterali, lo spoglio rosone circolare e il tetto a capanna, ricamato da una sobria merlettatura aggettante, infine il piccolo campanile a vela con la sommità triangolare e le due campane collocate entro due sottili spazi a bifora, tutto sembra troppo prefetto e quasi troppo "letterario" per essere originale. E invece si tratta davvero di una chiesa antichissima, risalente alla metà del 1300, poi rifatta nel 1400, solo che il suo aspetto attuale è il frutto dell’amorevole restauro effettuato nel nostro secolo, anzi di due restauri nettamente distinti. Eretta per volontà della nobile famiglia dei Valentinis e dedicata a San Valentino, cui la famiglia era particolarmente devota, svolse un ruolo importante per un paio di secoli, poi cominciò a decadere, anche a causa della costruzione dell’attuale chiesa di San Valentino, nel 1574, in posizione più centrale, che divenne la parrocchiale del borgo. Un po’ alla volta subì il destino degli edifici sacri non più sorretti dal fervore della popolazione, cadde in abbandono e non fu più officiata. Una fotografia della fine dell’800 mostra l’edificio in deplorevoli condizioni di abbandono, sconsacrato, fatiscente, privato del campanile, sprangato e probabilmente adibito a deposito o magazzino; pare che per un certo tempo sia stato addirittura utilizzato come osteria, anche se la cosa non è storicamente sicura. Dapprima fu il parroco di Santa Maria delle Grazie, monsignor Pietro dell’Oste, che acquistò l’edificio e lo fece restaurare e riconsacrare, fra il 1899 e il 1901; poi, dopo che le vicende delle due guerre mondiali, ma specialmente della prima (gli austriaci avanzanti fecero a fucilate con gli italiani in ritirata dopo lo sfondamento di Caporetto), lo ebbero ridotto nuovamente a mal partito, anche se fortunatamente in maniera non irreparabile, il cavaliere Gregorio Job, nel 1956, donò una grossa somma di denaro, un milione di lire, perché venisse nuovamente restaurato e dedicato a San’Antonio da Padova, che nel 1227 era passato per Udine diretto a Gemona e aveva predicato alla folla proprio in borgo Pracchiuso. Il generoso benefattore ci passava davanti ogni sera, tornando dal lavoro e fermandosi a bere un tajut (un bicchiere) di quello buono all’osteria della Casa Rossa, e gli doleva il cuore vederlo chiuso e malridotto. Così, alla fine, un’osteria entrò per davvero nella storia di questa chiesa, ma svolgendo un ruolo tutt’altro che disonorevole.
Ecco come la descrive don Giuseppe Marchetti, che qui tutti conoscevano come Pré Bepo, l’illustre cultore della storia e della lingua friulana, nel libro Le chiesette votive del Friuli (a cura di G. C. Menis, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1971, 1990):
Chiesetta succursale presso l’ex porta di Pracchiuso. Eretta nel 1355 dai nobili Valentinis, ricostruita sulla fine del Quattrocento; occupata e dissacrata dalle milizie francesi nel periodo napoleonico, ridotta a spaccio di vino e poi ad abitazione privata nel secolo scorso fu ripristinata e ribenedetta nel 1901, nuovamente riparata dopo la guerra mondiale e restaurata anche recentemente cambiando il titolo in quello di Sant’Antonio da Padova. L’aspetto attuale sarebbe quello d’una costruzione della fine del Quattrocento, ma si tratta di elementi — almeno in parte – introdotti in occasione del ripristino del 1901. Attualmente consta d’una aula rettangolare con travatura scoperta, e di un presbiterio poligonale con volta (o soffitto?) a vele; bifora campanaria sul colmo della facciata, occhio del frontone, motivo di archetti pensili in cotto sotto la gronda e lungo gli spioventi di facciata, copertura in coppi.
Ecco: le alterne vicende di abbandono e di ricostruzione di questa antichissima chiesa cittadina, che non sarebbe sopravvissuta e oggi non sarebbe aperta tutti i giorni, e che a noi, bambini, si presentò con un fascino arcano, la prima volta che c’imbattemmo in essa, potrebbero avere il significato di una parabola sulle vicende che sta attraversando la Chiesa cattolica nel suo insieme. Molte cose farebbero pensare che essa sia giunta quasi alla fine del suo ciclo; che sia stata sopraffatta dalle forze oscure, esterne e soprattutto interne, il cui obiettivo è sempre stato, ed è oggi più che mai, quello di distruggerla, non però con un assalto frontale e con azioni clamorose e drammatiche, bensì occupandola, in maniera strisciante e silenziosa, un poco alla volta, un pezzo alla volta, fino alla cattedra di San Pietro; e da lì, cioè da posizioni di forza, ma rispettabili e formalmente autorevoli, svuotarne la dottrina, minarne la credibilità, disperderne il patrimonio spirituale, riducendola a una semplice agenzia di promozione sociale e, così, spegnendo, forse per sempre, il suo afflato soprannaturale e il suo legame col divino. Perché una chiesa che non comunica più con Dio, che non si lascia riempire dallo Spirito Santo, che non predica ovunque Gesù Redentore, sempre e comunque, senza riguardi umani, senza strategie e furberie e compromessi, e senza imbracarsi in crociate per i diritti civili che ne snaturano la finalità, che è pur sempre la salvezza delle anime, e ne stravolgono la prospettiva, cioè quella del Regno di Dio che non è di questo mondo; senza lasciarsi risucchiare e assorbire dalla mentalità del mondo, senza subire la pressione e l’influenza delle ideologie moderne, che con essa sono semplicemente incompatibili, ebbene non è più la vera, la sola, la legittima Sposa di Cristo, non è più quella Chiesa che da ben duemila anni tiene acceso il lume della Rivelazione sulle brutture della storia e le miserie della nostra condizione, consentendo alla Speranza di restare ancora presso l’umanità sofferente. Eppure, l’umanità non potrebbe sopravvivere, se la Speranza divina si spegnesse in lei; perché le speranze puramente umane conducono inevitabilmente, prima o poi, alle più amare delusioni, e una umanità privata della Speranza in Cristo non potrebbe che precipitare nel caos e nel buio della disperazione. Abbiamo, pertanto, il preciso dovere di lottare senza respiro affinché la Speranza non si spenga, la Chiesa non si arrenda definitivamente ai perfidi disegni di un clero indegno e apostatico. E che, forse Gesù ci ha promesso pace, tranquillità e una vecchiaia serena, quando abbiamo deciso di seguirlo? Al contrario; ha detto (Mt, 10, 16-18): Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E ancora (Gv, 16, 2-4): Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l’ho detto.
Il fatto è che siamo stati pigri, sciocchi e conformisti; siamo stati servi inutili e cattivi operai. Molti amici e conoscenti ci chiedono a che serva lottare, a che scopo ci si debba affaticare, andare incontro a incomprensioni, difficoltà e rappresaglie d’ogni genere; rischiare una querela, rischiare un provvedimento disciplinare, rischiare di perdere l’amicizia di tante persone, sapendo che, molto probabilmente, non servirà a nulla, che la battaglia è persa, che non vale la pena di farsi il sangue cattivo, tanto più che i diretti interessati, cioè le giovani generazioni, non sembrano affatto coscienti del problema, si direbbe che non li riguardi e quindi non solo non capiscono, ma sovente appaiono francamente irritati dal pessimismo e dalla incessante insoddisfazione, dalla critica a tutto campo di chi vorrebbe metterli guardia per il loro stesso bene. Chi ha dei figli grandicelli, lo sa bene: si rischia di passare per dei vecchi brontoloni, per degli inguaribili passatisti, per dei complottisti un po’ schizzati e ossessionati dal male. Ma la risposta a queste perplessità e a questi interrogativi è già presente nel Vangelo, basta leggerlo: il seguace di Gesù Cristo non ha mai avuto vita facile; e a rendergliela difficile qualche volta sono i nemici esterni della Chiesa, qualche volta sono i suoi confratelli, i suoi compagni di fede, i suoi superiori, nel caso si tratti di un sacerdote. Avete mai letto le vite dei Santi? Quante tribolazioni hanno dovuto sopportare, proprio dentro la Chiesa; quanta cattiveria, quanta ostilità, quanta maldicenza hanno subito, da parte di quelli che dicevano di essere, anche loro, seguaci di Gesù Cristo. Chi non conosce le persecuzioni subite, fin dentro il convento, e perfino il confessionale, da san Pio da Pietrelcina? E la sua non è stata l’eccezione: è stata la conferma della regola. La regola è questa: l’uomo, umanamente parlando, non è buono, ma è dominato dal demone della concupiscenza. Da solo non è capace di fare il bene, può unicamente desiderarlo; per farlo, e per restarvi, ha bisogno dell’aiuto di Dio. Umanamente parlando, padre Agostino Gemelli non era una cattiva persona; era pieno di zelo e di ardore apostolico: voleva fare grande la Chiesa, o ameno contribuire alla sua grandezza e al suo restaurato splendore. Tuttavia, come è largamente noto, le persecuzioni di padre Pio ebbero origine principalmente da lui: e padre Pio era un santo, uno di quelli veri! Come si spiega? Si spiega col fatto che padre Gemelli si lasciò sopraffare dall’orgoglio: un sentimento molto, troppo umano. Il suo orgoglio e la sua superbia non gli permisero di accettare il rifiuto di padre Pio di mostrargli le stimmate, e ciò lo spinse a redigere una relazione molto sfavorevole sul santo del Gargano, descrivendolo come un isterico, e le stimmate come non autentiche. Come poté arrivare a tanto? Come poté arrivare a falsificare le circostanze oggettive del suo incontro con lui, e scrivere quelle cose, quando, in realtà, non aveva condotto alcuna vera indagine, ma si limitava a sfruttare la fama che si era creato come psicologo e uomo di scienza? Accadde perché il suo orgoglio lo indusse a ritenersi un cristiano migliore di quel rozzo e umile frate, e la sua superbia lo spinse a vendicarsi dell’affronto che riteneva di aver subito. Questo succede quando l’uomo permette alle sue passioni di dominarlo, di tiranneggiarlo: non è più lui a volere, ma sono le sue passioni che si servono del suo io. A tutto questo c’è un solo rimedio: l’abbandono fiducioso, incondizionato in Dio. L’uomo che si abbandona in Dio è un uomo nuovo, purificato, consapevole della sua tendenza a peccare: è un seguace di Gesù ed è, nello stesso tempo, un suo imitatore. Non si può essere cristiani solo a parole; bisogna sforzarsi di esserlo per davvero, e, per far ciò, esiste un’unica strada: sopprimere in sé l’uomo vecchio, carnale, dominato dai desideri e dalle paure, e lasciar nascere l’uomo nuovo, spirituale, ispirato e guidato da Cristo. Così, se il cristiano fa qualcosa di buono, non è lui che la fa, ma Dio che agisce per mezzo di lui: noi siamo soli vasi di creta nelle mani del vasaio.
Ecco perché non ci si deve scoraggiare. Umanamente parlando, la situazione è difficile; ma quando mai non lo è stata? Finché domina in noi l’uomo vecchio, nulla andrà per il verso giusto: saremo sempre delle canne al vento, degli otri pieni di vento. Abbiamo bisogno di Dio; abbiamo bisogno di conversione: solo allora vedremo chiaro e capiremo quel che va fatto; altrimenti, seguiteremo ad andare tentoni, come ubriachi, a scivolare, a cadere, a sguazzare nel fango, e a scoraggiarci sempre di più. Perde il coraggio chi sente di non aver trovato la strada giusta, di girare a vuoto; ma chi l’ha trovata non si scoraggia mai del tutto, per quanto erta gli appaia. Vi scacceranno dalle sinagoghe: sì, il momento è arrivato. Ci scacceranno, ci insulteranno e ci calunnieranno. E che? Forse per questo ci dovremo abbattere? Ma, dicono certi nostri amici, a provocare turbamento è il pensiero che tutto è perduto, che è giunta la fine. Ma chi conosce le vie del Signore? Chi è più grande di Lui?
A nessuno viene chiesto di salvare il mondo con le sue forze; Dio chiede solo di fare la Sua volontà.