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Superbia e curiosità, le due radici del modernismo

Abbiamo più volte sostenuto che l’essenza del modernismo nasce in sostanza da un atteggiamento di superbia intellettuale (cfr. l’articolo Quel veleno dei preti modernisti che fa perdere la fede alle anime, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’08/02/2017, in cui abbiamo discorso, in particolare, dell’ex gesuita José Maria Diez Alegria e del suo sciagurato libro, Io credo nella speranza, come esempi quasi perfetti di tale superbia). In ultima analisi, e sfrondando gli aspetti secondari e contingenti, si tratta di questo: un certo numero — un grande numero, purtroppo — di uomini moderni ritiene di non potere, proprio di non poter credere così come credevano i nostri nonni e i nostri avi, così come credevano santa Teresa di Lisieux e Bernadette Soubirous, o santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce, o san Tommaso d’Aquino e san Francesco; così come tutti i cristiani delle passate generazioni. Il loro pensiero, il loro sentire, è questo: Noi siamo uomini moderni, siamo cittadini del XX, del XXI secolo; siamo protesi verso il progresso, siamo immersi nel clima di una società scientifica, tecnologica, dove ogni affermazione vuol essere provata con fatti precisi e dove non si fa un passo senza che si venga chiamati a dare le prove di quel si fa e di quel che si dice: come potremmo avere la fede semplice, ingenua, degli uomini vissuti nel Medioevo, o nel XVI, o nel XVIII secolo, o anche di quelli vissuti in epoca a noi più vicina, ma pur sempre nel contesto di una società contadina, pre-industriale, fatta di grandi famiglie patriarcali, di valori chiari e certi, e ancora ignara dell’informatica, degli aerei a reazione, dei viaggi spaziali? E come potrebbe, un uomo abituato a servirsi, ogni giorno, del computer e dell’automobile, un uomo che vede il mondo attraverso le lenti della cultura scientifica moderna (nonché, a un livello più quotidiano, attraverso lo schermo del televisore), credere in Dio Padre, in Gesù Cristo, nello Spirito Santo e nella vita eterna, con la stessa fede "ingenua" dei tre pastorelli di Fatima, che non avevano mai visto un aereo, che non sospettavano l’esistenza del telegrafo senza fili, e che mai avrebbero immaginato che degli esseri umani, fra qualche decennio, avrebbero impresso la loro impronta sul suolo lunare?

Certo, c’è il piccolo dettaglio che quei tre bambini hanno visto la Madonna, e le hanno anche parlato. Tuttavia, lo avrete notato, i modernisti non amano soffermarsi su simili dettagli; o, se lo fanno, è sempre e solo per insinuare dubbi, per suggerire spiegazioni diverse da quelle della "semplice" fede; imbevuti di psicanalisi, di cultura del sospetto, di inconscio e super-io, nonché di positivismo, storicismo, esistenzialismo, materialismo dialettico, strutturalismo e Dio sa che altro, non provano alcuna tenerezza — proprio loro, che in ultima analisi riducono il fatto della fede a un sentimento personale — per le apparizioni mariane, e in generale, per i "miracoli", ossia per tutto ciò che sa di soprannaturale. Avete mai sentito un modernista parlare di san Giovanni Bosco, dei suoi sogni, delle sue premonizioni? Lo avete mai sentito parlare delle Tre Fontane e della subitanea conversione di Bruno Cornacchiola? Oppure dell’umile eroismo di Maria Goretti, che si informa del destino del suo assalitore e ha parole di compatimento e di perdono per lui, poche ore prima di chiudere gli occhi alla vita terrena e aprirli sull’eternità? Oppure lo avete mai sentito parlare del peccato e della grazia, gli avete mai sentito dire che lo scopo della vita umana è conoscere, amare e servire Dio, e che la felicità consiste nell’annullare il proprio io e nel fare totalmente la volontà del Padre celeste? No, vero? I modernisti sono gente superba e curiosa; gente che ha letto molti libri (troppi, forse) e ha un’altissima opinione della propria lucidità, della propria razionalità, del proprio io (e ciò li porta, paradossalmente, a un fideismo soggettivistico) e un sovrano disprezzo per tutto ciò che è sa di fede spontanea, semplice, di abbandono a Dio: come quando il poeta modernista (e marxista) David Maria Turoldo, un servita insinuatosi nella Chiesa per meglio aggredire la fede, spezzava la coroncina del Rosario e la gettava con disprezzo agli uditori, gridando come un indemoniato (e forse lo era): Basta con queste superstizioni medievali!

Per quel che riguarda l’altra radice dell’eresia modernista, la curiosità, osserviamo che essa è altrettanto tipicamente moderna della superbia o alterigia intellettuale. La curiosità, di per se stessa, non è una disposizione dell’animo tipicamente moderna, ma lo divine quando si tratta di una curiosità mal diretta, vale a dire del tutto staccata dal senso del limite, dalla coscienza della propria finitezza e imperfezione, unita, viceversa, a un sistematico disprezzo nei confronti della tradizione. L’uomo ha sempre desiderato conoscere e spingersi oltre, questo fa parte della sua natura; ma, nelle civiltà pre-moderne, tale impulso è sempre stato accompagnato, orientato e sostenuto da un sentimento altrettanto forte, quello di rivolgere la propria curiosità in maniera tale, da non distruggere le basi delle proprie certezze esistenziali e da non pretendere di rifare daccapo il mondo ad ogni nuova generazione. Pretese che, invece, sono tipicamente moderne e che segnano una discontinuità, una vera e propria rottura, nel processo dell’evoluzione storica; al punto che si potrebbe definire la modernità come l’atteggiamento intellettuale di una società che ha completamente rotto i legami con le proprie radici e con la propria tradizione, e che si fa un vanto di ciò che, in precedenza, era considerato un grave difetto e anche un serio pericolo: distruggere sistematicamente il quadro delle certezze stabilite, senza sapere con che cosa si vorrà o si potrà sostituire quel che è stato eliminato (cfr. anche il nostro articolo: Il viaggio di Ulisse termina in tragedia perché nato da "curiositas" e non da "virtus", pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 14/12/2011 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 25/12/2018).

Dell’opinione che il modernismo sia il frutto della superbia intellettuale, oltre che di una curiosità smodata e non sorretta della virtù, era anche il grande papa san Pio X, il quale, nella enciclica Pascendi Dominici Gregis. Sugli errori del modernismo, dell’8 settembre 1907, quinto anno del suo pontificato, scriveva, nella Parte II, a proposito delle cause dell’eresia modernista:

A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell’aberrazione dell’intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo: la curiosità e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell’umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l’avviso dell’Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova". Ma ad accecare l’animo e trascinarlo nell’errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audace mente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini"; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l’autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi il precetto della vita cristiana che c’impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo! Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili ed oscuri, affinché sieno tanto più depressi quanto più essi s’inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre, sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza che faceva di mestieri!

Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all’intelletto, la prima da notarsi è l’ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori.

E anche in questo disprezzo della scolastica, in questa attitudine a schernire la filosofia che per secoli è stata considerata, per unanime consenso, la base di ogni sana teologia, e cioè quella di san Tommaso d’Aquino, che papa Leone XIII volle addirittura ufficializzare con un’apposita enciclica, Aeterni Patris, nel 1879, si può ravvisare la duplice radice della superbia e della curiosità mal diretta: come un viaggiatore il quale, pur non conoscendo bene il territorio che si accinge a percorrere, rifiuta con scherno l’assistenza delle guide che ben lo conoscono, e che potrebbero accompagnarlo, evitandogli ogni pericolo, per gettarsi avanti alla cieca, come un forsennato, animato da una folle presunzione che non suscita alcuna ammirazione, perché equivale a una temerarietà incosciente e ad una imperdonabile forma di leggerezza, difetti che non si possono scusare in chi sa di possedere strumenti inadeguati a cimentarsi in quel genere d’impresa e, nondimeno, vuol tentare la sorte, quasi a sfidare Dio stesso. E anche questo è un atteggiamento tipicamente moderno: l’incapacità di valutare adeguatamente le proprie forze e le proprie capacità, la tendenza a sopravvalutare ciò che si può fare e che si può comprendere, unite ad una inescusabile alterigia verso chi sa qualcosa di più, quasi una insofferenza e una bruciante gelosia verso chiunque altro: come se ammettere il proprio limite e, viceversa, riconoscere il valore altrui, fossero qualcosa d’insopportabile, una specie di umiliazione, che non può ad alcun patto essere accettata.

Sono stati in molti, anche fra i cattolici, a criticare san Pio X per essere stato, a loro giudizio, troppo duro nei confronti del modernismo, e, addirittura, per aver "inventato", o quasi, un’unica eresia, mettendo insieme tendenze e atteggiamenti fra loro assai diversi, e, sempre a loro giudizio, non tutti cattivi, né meritevoli di essere combattuti. Tuttavia, a parte il fatto che Pio X non ha confuso affatto, ma perfettamente analizzato, tendenze e atteggiamenti diversi, sì, però legati da un filo comune, e quel filo era costituito soprattutto dalla superbia e dalla curiosità imprudente, la verità è che dietro quelle critiche e quelle riserve c’è una insofferenza, finanche un segreto rancore, a volte neppure tanto ben dissimulato, nei confronti di un vero pastore il quale vide benissimo il sorgere di uno stato d’animo, e di una serie di orientamenti intellettuali, che, se lasciati liberi di svilupparsi, avrebbero inquinato la fede cattolica e creato una situazione di apostasia generalizzata: esattamente quel che è accaduto e che sta accadendo sotto i nostri occhi. In altre parole, quei critici di Pio X non possono perdonargli di aver ritardato il trionfo di quel modernismo che, con formule diverse, ma con temerarietà e malizia ancor più raffinate, e con forze decuplicate, è uscito allo scoperto in occasione del Concilio Vaticano II e che, nel corso di qualche anno, si è letteralmente impossessato del vertice della Chiesa, operando una sistematica erosione della dottrina, dietro le apparenze rassicuranti e perfino gioiose di un rinnovamento liturgico e pastorale avente per scopo quello di attualizzare il messaggio evangelico e far presa con più efficacia sull’anima dell’uomo moderno. L’errore – se di errore si tratta e non già di consapevole malizia, tanto più colpevole in quanto perfettamente lucida — consiste nel pensare che, per rendere più appetibile il Vangelo alla società moderna, bisogna modernizzarlo. Ciò significa non vedere, o non voler vedere, la radice della modernità, che è un rifiuto deliberato del cristianesimo e una furiosa volontà di desacralizzare la religione. Pertanto, modernizzare il Vangelo è la stessa cosa che distruggerlo: che è il vero scopo dei modernisti. Essi, in fondo, odiano il Vangelo perché è tutt’uno con la Croce redentrice di Cristo. Ma l’uomo moderno non vuol essere redento, anzi pensa che non vi è nulla da redimere. Quando i neopreti dicono che il peccato non è peccato, ma un legittimo bisogno di realizzarsi, che posto riservano alla Redenzione?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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