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Perché mai esiste l’essere al posto del niente?

Nell’aria fresca e pura del primo mattino la strada che attraversa il vecchio borgo è deserta e si snoda, in una serie di curve, dischiudendo ad ogni passo nuovi scenari mozzafiato: la valle, sulla destra, verdeggiante e già inondata dalla luce del sole, disseminata delle macchie bianche dei paesi, e la montagna, sulla sinistra, vicinissima, dai fianchi tutti ammantati di boschi verdissimi, di carpini, di noccioli, di querce, di castagni, più in su di faggi e infine di abeti. Una fonte d’acqua piacevolmente fredda scaturisce dal fianco del pendio e si versa in una grande vasca di pietra. Appollaiata in cima al piccolo gruppo di case, in fondo a una stradina in salita, su staglia nelle sue linee semplici e aggraziate la piccola chiesa di Santa Cecilia, antichissima, costruita dalla famiglia dei Da Camino, di origine longobarda, fra il 1228 e il 1323: una di quelle meraviglie che, nei nostri paesi, si trovano gettate ovunque, con sovrana magnanimità, come manciate di perle preziose, da secoli e secoli di storia civile e religiosa, e che, se fossimo negli Stati Uniti — per pura ipotesi, dato che laggiù non c’è alcun manufatto europeo più antico del XVII secolo, tranne forse una torre vichinga — sarebbe stata dichiarata come minimo patrimonio artistico nazionale, e che, se fossimo in qualunque altro Stato europeo, godrebbe comunque di una fama ben più che locale; mentre in Italia le meraviglie della storia e dell’arte sono talmente numerose che non ci si fa più caso, molte giacciono in abbandono, nella più completa trascuratezza da parte dei cittadini e delle pubbliche autorità, magari adibite a magazzini o, peggio, a discariche abusive.

Lo sguardo scorre lungo la fittissima barriera dei boschi che fa un vivo contrasto con il bianco del campanile e che, vista da qui, pare impenetrabile, mentre sappiamo che è percorsa da sentieri che s’incrociano e l’attraversano in ogni senso, fin su, in cima, a oltre millecinquecento metri d’altezza. In effetti è l’anticamera di una delle foreste più grandi dell’Italia settentrionale, un tempo famosa perché forniva il legame per la costruzione delle flotte della Serenissima, quando Venezia era la signora dei mari e nessuna potenza al mondo poteva rivaleggiare con lei nei commerci marittimi, specialmente nel Mediterraneo. E la foresta è spessa e viva, come direbbe Dante: respira, trasuda, e l’aria frizzante che entra gradevolmente nei polmoni è prodotta dall’organismo di milioni di piante e di alberi d’alto fusto, alcuni secolari, che s’innalzano per decine di metri verso il cielo, e tra le cui fronde vivono uccelli rari, come il picchio verde e nero, o la civetta nana. E mentre la mente trova un senso di pace e di riposo nel contemplare tutto quel verde, quell’oceano vivente di verde dalle numerose sfumature, alla parte vigile e razionale di essa non possono non affacciarsi domande affascinanti, insistenti, che la conducono sempre più lontano, in un luogo sempre più rarefatto, dove le risposte sono sempre più difficili. Perché ci sono tutte queste cose, nel mondo? Perché, invece del nulla, c’è qualche cosa? Perché tutti questi enti si danno la pena di esistere? Possibile che ci siano sempre stati?

No, tutto ciò che esiste nel tempo deve avere un inizio; e, allo stesso modo, deve avere anche una fine. Eppure, non stiamo parlando di aggregati casuali di materia: quel che vediamo non è disordine, ma ordine. La materia, sia inorganica, sia vivente, è ordinata, anzi, sommamente ordinata: nelle venature delle foglie, nel disegno elegantissimo del sistema vascolare delle piante, perfino nell’organizzazione cellulare di una singola goccia d’acqua, come ci rivela l’osservazione fatta al microscopio. E questo ordine inerente alle cose forma delle strutture più ampie, le quali denotano equilibrio, armonia: le cose non solo si danno la pena di esistere, e non solo esistono in maniera alquanto ordinata, ma esprimono anche una caratteristica puramente estetica, che va oltre la semplice funzionalità: la bellezza. I cristalli di cui sono fatti i minerali, i cerchi sulla superficie del lago quando vi si scaglia una pietra, il muschio che avvolge come un’ovatta i tronchi possenti degli alberi, il richiamo di un merlo fra i rami, l’arcobaleno che si apre improvviso e si dispiega meraviglioso, imponente, nel cielo illuminato dal sole, ma ancor umido di pioggia: tutto questo è bellezza, suprema eleganza e "naturale", spontanea bellezza. Per creare la bellezza, l’uomo deve compiere uno sforzo intenzionale dell’intelligenza e della volontà e deve imitare la natura; mentre la natura è di per se stessa creatrice e dispensatrice di bellezza, anche se gli uomini, specialmente nella società moderna, paiono essersene dimenticati, e quasi non alzano più lo sguardo per ammirare e riempirsi gli occhi e l’anima di una bellezza così esuberante da stordirli e ubriacarli, se avessero conservato occhi per vedere e orecchi per udire. Ed ecco perché la bellezza presente nelle cose suscita, di per sé, un ulteriore problema: infatti, vedere la bellezza richiede una forma speciale di percezione; essa non è evidente, tanto è vero che alcune persone non la vedono affatto, o meglio, non la riconoscono. E dunque, ecco che si affaccia una nuova domanda: perché le cose si danno la pena di esistere in una maniera così misteriosa, tale da essere vista e riconosciuta solo da alcuni, ma non da tutti; e precisamene solo da quelli che sono capaci di provare il sentimento dello stupore, della meraviglia, e, in un certo senso, della gratitudine? Che cos’è lo stupore? Da quanto si detto, parrebbe essere non solo un prodotto delle categorie estetiche, ma una vera e propria forma del conoscere. Si possono dunque conoscere le cose, si può conoscere il reale non solo mediante l’analisi razionale, ma anche per mezzo dello stupore? O, per essere più precisi, si può dire che lo stupore è la premessa necessaria al conoscere, o a certe forme del conoscere? Si può dire che, senza stupore, senza meraviglia, la mente non s’interroga, o non s’interroga con sufficiente ampiezza e profondità, ma resta alla superficie delle cose?

Lo scettico, o il solipsista, sollevano peraltro una obiezione che essi credono radicale: ma chi lo dice che le cose esistono, dopotutto? Non potrebbe essere tutto un gioco della nostra mente? Chi può dire cosa c’è al di fuori di essa? Noi no, di sicuro: perché noi siamo tutt’uno con la nostra mente, e cosa c’è al di là, non possiamo dirlo. E sia. Resta però la domanda: perché fuori o dentro, le cose esistono, esistono veramente. Fa poi tanta differenza, dal punto di vista dell’essere, sapere se le cose sono esterne o interne alla nostra mente che le percepisce? Il fatto è che ci sono, le possiamo vedere, udire, toccare, odorare, gustare. Le possiamo immaginare, anche: ma quelle che immaginiamo, le immaginiamo come copie di quelle che abbiamo sperimentato coi sensi. Perciò la domanda rimane, immutata e ineludibile: perché le cose, tutte queste cose che riempiono il nostro orizzonte, esistono? Ciò che esiste, deve avere una causa; e dunque: che cosa fa esistere le cose? Quale forza, quale energia, quale soffio conferisce loro l’attributo dell’esistenza? E se pure non esistessero in sé e per sé, ma solo come proiezioni mentali della nostra coscienza, che cosa innescherebbe questo processo, questa attività? Perché il nostro vederle e conoscerle è una forma di attività della mente: dunque c’è una mente, e c’è una mente attiva, che riflette sulle cose e su se stessa, al posto del nulla. Inoltre, come abbiamo visto, c’è una mente capace di stupirsi. Se non vi fosse lo stupore, non vi sarebbero le domande: le domande sorgono dalla meraviglia, dal senso del mistero, dal non avere la risposta bella e pronta.

Scriveva il filosofo (e rabbino) Abraham Herschel (Varsavia, 1907-New York, 1972), nel suo libro Il messaggio dei profeti (titolo originale The Prophets, New York, Harper and Row, 1962; traduzione dall’americano di Antonio Dal Bianco, Roma, Borla, 1981, pp. 61-62; 64-65):

Ma l’essere deve essere considerato come il tema finale del pensiero? Il fatto che l’essere esista è misterioso come il problema dell’origine dell’essere. Ogni ontologia che misconosca il prodigio e il mistero dell’essere comporta la responsabilità di sopprimere la genuina ammirazione della mente e di dare per scontato l’essere. Che l’inizio dell’essere "non può né essere espresso" è vero. Un fatto però non cessa di essere tale solo perché trascende i limiti del pensiero e dell’espressione. In verità è il vero tema dell’ontologia, dell’essere IN QUANTO essere che "non può né essere pensato né essere espresso".

L’accettazione dell’essere quale realtà ultima è una "petitio principii"; o essa scambia un problema per una soluzione. La suprema ed ultima questione non è l’ESSERE, ma il MISTERO DELL’ESSERE. Perché mai esiste l’essere al posto del niente? Noi non possiamo mai immaginare un essere senza la possibilità del suo non essere. Siamo sempre esposto sia alla presenza sia all’assenza dell’essere. In tal modo ciò che troviamo di fronte a noi è una coppia di concetti e non un concetto ultimo. Entrambi i concetti vengono trascesi dal mistero dell’essere.

L’uomo della Bibbia non comincia non l’essere [come i filosofi greci], ma dalla sorpresa dell’essere. L’uomo biblico è libero da quella che potrebbe essere l’argomentazione ortocentrica. L’essere non è TUTTO per lui. Egli non rimane incantato dal dato, perché ammette un’alternativa, cioè l’annichilimento del dato. Per Parmenide il non-essere è inconcepibile ("il nulla non è possibile"); per l’uomo biblico il nulla o la fine dell’essere non è impossibile.

Avendo coscienza della contingenza dell’essere, egli non potrebbe mai identificare l’essere con la realtà ultima. L’essere non è né evidente né spiegabile in se stesso. L’essere fa sorgere il problema di come l’essere sia possibile. L’atto di portare l’essere all’esistenza, la creazione, nella scala dei problemi sta al di sopra dell’essere. La creazione non è un concetto trasparente. Il concetto di essere in quanto essere si distingue forse per chiarezza? La creazione è un mistero; l’essere in quanto essere è un’astrazione. La teologia interrogandosi sulla sorgente dell’essere ha il coraggio di andare al di là dell’essere. De è vero che il concetto di origine implica l’essere, è anche vero che un essere che chiama all’esistenza una realtà è dotato di un tipo di essere che trascende misteriosamente ogni essere concepibile. Per cui, mentre l’ontologia si interroga sull’ESSERE IN QUANTO ESSERE, la teologia si interriga sull’ESSERE IN QUANTO CREAZIONE, sull’essere in quanto atto divino. Nella prospettiva della creazione continua, non esiste un essere in quanto essere; c’è solo un continuo venire all’essere. L’essere è sia creazione che evento.

Per i filosofi greci il mondo naturale era il punto di partenza della loro speculazione. La meta era quella di sviluppare l’idea di un principio supremo: l’"apeiron" (l’Illimitato) di Anassimandro, l’"ens perfectissimum" di Aristotele, il fuoco creatore del mondo degli stoici, di cui essi in seguito affermarono "questo deve essere il divino". […]

La Bibbia però non comincia dicendo "Dio ha creato cielo e terra"; comincia dicendo: "In principio". Il messaggio essenziale non è che il mondo ha una causa, ma piuttosto che il mondo non è l’essere ultimo. L’espressione "in principio" è decisiva. Pone un limite all’essere, come pone un limite alla mente.

L’interrogativo supremo non è "chi ha fatto il mondo?", ma piuttosto "chi trascende il mondo?". La risposta biblica "Colui che creò cielo e terra trascende il mondo".

Non "la finitezza dell’essere ci porta a interrogarci su Dio", ma la grandezza e il mistero di tutti gli esseri. Non c’è marchio d’infamia nell’essere una creatura finita. La finitezza è piuttosto la nostra scusante che la nostra vergogna. Noi non potremmo sopportare di essere infiniti. L’infamia consiste nell’essere temerari, nel dimenticare che siamo finiti, nel comportarci come se fossimo infiniti.

In sostanza, ci sono due modi di porsi di fronte al fatto dell’essere (perché di un fatto si tratta e non di un ragionamento; e coi fatti non si litiga): o lo si identifica con la spiegazione del reale, cioè le cose esistono perché l’essere le fa esistere; oppure ci si stupisce, e ci si domanda: perché mai, invece del nulla, c’è qualcosa?, e allora l’essere appare non come la spiegazione di tutto, ma come l’epifania di un mistero. Chi si pone nel primo modo, assume l’essere come il principio che spiega ogni cosa; ma chi assume il secondo, sa che l’essere non è scontato; sa che in luogo dell’essere, potrebbe anche darsi il non essere, e allora si chiede per quale ragione l’essere si dia la pena di esserci. Qui c’è un mistero: un mistero talmente fitto, che la mente quasi si smarrisce di fronte ad esso: come è possibile pensare il non essere, o anche solo immaginarne la possibilità teorica? I greci non ne furono capaci: per loro, l’essere era un dato, il fondamento, non una possibilità; il non essere era, per loro, qualcosa d’inconcepibile, qualcosa che ripugna alla ragione. Eppure, inconcepibile non è: tutto ciò che esiste, può anche essere concepito come non esistente. Ora, è vero che l’essere non è, di per sé, qualcosa che esiste, bensì qualcosa che rende possibile l’esistente; d’altra parte, per garantire la possibilità che qualcosa esista, non è forse necessario che anche l’essere, esista? Dunque, l’essere non è la soluzione del problema, perché, come tutti gli esistenti, riceve l’esistenza da qualcosa che è altro da sé. Qualcosa che lo trascende. E che altro è questo qualcosa, se non Dio?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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