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La deriva inizia con l’abbandono dell’adolescenza

Se c’è un’età in cui l’anima è particolarmente suggestionabile ed esposta a mille pericoli, quella è l’adolescenza; età tanto più insidiosa in quanto l’adolescente, per natura, cerca e pretende l’autonomia, ma non possiede ancora gli strumenti razionali per farne sempre un buon uso. Pertanto l’adolescente tende a sfuggire all’occhio vigile dei genitori e degli adulti; figuriamoci, poi, se quell’occhio non è affatto vigile, ma è un occhio distratto. A ciò si aggiunga che l’adolescente non sa quel che vuole, o non lo sa con sufficiente chiarezza; si agita fra passioni e desideri contrastanti, in mezzo a una gran confusione: da un lato vorrebbe emanciparsi, dall’altro ha una segreta nostalgia dell’autorità paterna e, in genere, dell’autorità degli adulti, e, anche se non lo ammetterebbe mai, in fondo desidera più di ogni altra cosa essere protetto e rassicurato. La sua evoluzione psicologica lo porta a cercare protezione e rassicurazione nelle compagnie dei coetanei, ma è frequente che in esse non solo non trovi ciò di cui avrebbe bisogno, ma vi trovi una forma di pressione e quasi di ricatto psicologico: o adeguarsi al gruppo, o subire lo scacco del rifiuto e dell’emarginazione, cose di cui egli ha somma paura e angoscia. Infine, si consideri che la società odierna, per le sue caratteristiche generali, tende a ritardare la responsabilizzazione del ragazzo, induce i genitori a trattare i figli adolescenti come se fossero ancora dei bambini, incapaci di assumersi impegni e di rispettare doveri e scadenze; e la stessa cosa, in varia misura, tendono a fare anche gli insegnanti, i catechisti e i sacerdoti. Però, nello stesso tempo, gli adulti tendono a essere latitanti sulle cose davvero importanti, l’affettività, il dialogo, la presenza, anche fisica: tutti presi dalle loro attività e dai loro problemi, sopravvalutano l’autonomia dei ragazzi e s’immaginano, a torto, che questi possano benissimo sbrigarsela da soli e gestire situazioni che, per loro, sono ordinarie, mentre a parecchi adolescenti appaiono eccezionali e, talvolta, insormontabili.

Un approccio realistico ed efficace alle questioni dell’adolescenza presuppone, del resto, una visione integrale dell’uomo, cosa divenuta ormai rarissima, in un quadro psicologico e filosofico dominato dalla frammentazione e dalla dispersione; è infatti lapalissiano che, se non si è capaci di vedere l’uomo nella sua globalità, non si può neanche porgere un sostegno all’adolescente nelle difficoltà che egli incontra nel suo percorso di crescita e di maturazione, perché l’adolescente non è una creatura a sé stante, ma un essere umano considerato in una fase ben precisa del suo sviluppo. Fra i pochi studiosi di psicologia che non hanno perso di vista l’unità della struttura antropologica si annovera Rudolf Allers (Vienna, 1883-Hyattsville, Maryland, 1963), figura di grande prestigio e dignità intellettuale, oggi naturalmente alquanto messa in disparte dalla cultura dominante, che ha preso tutt’altro indirizzo. È stato una mosca bianca nel panorama della psicanalisi: seguace di Freud, se ne distaccò ben presto insieme ad Alfred Adler, per poi allontanarsi anche da quest’ultimo ed elaborare un proprio orientamento, che lo portò a divenire il maestro di Viktor Frankl e di Hans Urs von Balthasar. La sua particolarità, come psichiatra e studioso della psicoanalisi, è il fatto che era cattolico e che interpretò sempre la psicologia alla luce della sua fede religiosa. Fu anche amico di Edith Stein, studiò la pedagogia di san Giovanni Bosco e venne in Italia, su invito di padre Agostino Gemelli, per approfondire, alla Cattolica di Milano, il pensiero di san Tommaso d’Aquino. E fu proprio lì, ove si laureò nel 1934, che lo studio della filosofia tomista gli offrì l’ultimo tassello per strutturare definitivamente la propria concezione antropologica, alla luce della quale inserì le sue conoscenze psicologiche ed i suoi interessi educativi, pervenendo alla visione di un "uomo integrale", dalla interiorità ben più ricca, nonché aperta alla trascendenza, di quella cui giunsero mai Freud, Jung, Adler, o a maggior ragione, Reich. Il suo fu un percorso solitario, intransigente, teso al raggiungimento della totalità, intesa come completezza di visione dell’uomo e dei suoi problemi, nessuno dei quali deva rimanere isolato dagli altri, come un principio a sé stante, ciò che invece accade, per esempio, con il pansessualismo freudiano.

Scriveva dunque Rudolf Allers nel suo libro L’adolescenza e l’educazione del carattere (titolo originale: Character Education in Adolescence, New York, Joseph F. Wagner, 1940; traduzione dall’inglese di R. Titone, Torino, S.E.I., 1963, pp. 53-56):

Ciò che lo attrae [l’adolescente] è l’aspetto rivoluzionario delle cose, indipendentemente dal loro contenuto materiale. E siccome questo fattore formale di antagonismo esterno è divenuto decisivo, l’adolescente è ancora assai incline a mutar le sue idee, ad adottare un atteggiamento di opposizione oggi ed un altro domani. Si noti, a proposito, come questa sia la ragione per cui tutti i vari generi di radicalismo trovano tanti fautori fra i giovani — indifferenti quanto alla particolare ideologia purché sia radicale. Questa è ancora la ragione per cui l’adolescente è capace di adottare idee oggettivamente contraddittorie senza alcuna visibile difficoltà: il fatto si è che egli non si preoccupa troppo del loro aspetto materiale, benché, fintanto che il suo entusiasmo si mantiene acceso, possa anche difenderle con tutta l’energia d’una sentita convinzione; quello che gli importa è l’aspetto formale, l’apparire cioè rivoluzionario, radicale, e via dicendo.

I concetti tradizionali sono sostenuti dall’autorità, e l’autorità costituisce l’unico motivo di credibilità per il fanciullo. Il fanciullo non è ancora capace di capire e di giustificare questi concetti per via razionale; egli riposa sull’autorità. Al contrario, l’autorità è quanto di più antipatico vi possa essere per l’adolescente. E, più strano ancora, è ad un tempo una delle cose che egli più brama.

Tale ambigua situazione trova una facile spiegazione nell’ambiguità stessa della situazione totale caratteristica della psicologia dell’adolescente. Il rinnegamento dell’autorità sorge dalla sempre più chiara coscienza della propria individualità; il desiderio dell’autorità, al contrario, trova la sua ragione nel proprio stato di incertezza che cerca un rimedio. Il primo fattore gli rende impossibile accettare un’affermazione basata unicamente sull’autorità, ché questo sarebbe equivalente ad abdicare al proprio diritto di auto-decisione; l’incertezza, d’altra parte, gli rende impossibile qualsiasi decisione perentoria, giacché gli manca una conoscenza sufficiente tanto della realtà quanto del proprio io. Il risultato di questo contrasto di tendenze può essere sovente un rapido oscillare da un gruppo di idee ad un altro — benché il secondo possa contraddire il primo, – oppure una specie di compromesso in cui certi generi di autorità vengono del tutto rigettati, mentre altri sono accettati volentieri e con una sorprendente mancanza di spirito critico. A cagione di questa peculiare struttura della psiche giovanile ci avviene assai di frequente di osservare che gli stessi giovani si ribellano contro qualche autorità tradizionalmente costituita (i genitori, i maestri, la Chiesa), pronti, con nostra meraviglia, a sottomettersi invece a qualche altra autorità. Quest’altra autorità è talvolta quella di un partito rivoluzionario, talvolta quella di una certa persona la quale, per qualche ragione, è dotata d’un particolare prestigio, ed è ammirata, amata e ciecamente obbedita, in tale maniera che sembrerebbe assolutamente incompatibile con l’atteggiamento generale di ribellione dell’adolescente. Una ragione di tale fatto va trovata nell’acuto desiderio che ha l’adolescente do un qualche cosa di autorevole in cui confidare: questo punto d’appoggio, tuttavia, dovrà essere diverso dalla vecchia autorità che (talvolta non senza propria colpa) ha perduto il proprio prestigio, e contro cui si ergono tutte le forze rivoluzionarie, tutti i tentativi d’indipendenza, tutta la volontà di autoaffermazione. Un’altra ragione, di carattere più positivo, è che la nuova autorità appare come il simbolo e l’incarnazione visibile del nuovo ordine.

L’educazione deve tener conto di tutto questo stato di cose. Potrà perfino usare ai propri fimi del desiderio recondito che il giovane ha di un’autorità, se conoscesse il giusto modo d affrontare la situazione. L’autorità come tale non tocca il cuore del giovane. La semplice imposizione dell’autorità è piuttosto un modo di rendere il giovane più recalcitrante e più indisposto all’obbedienza.

L’adolescente non è più come il fanciullo che era retto dalla fiducia negli altri, e perciò era pronto ad obbedire anche quando fosse tentato di far rimostranze, o che, ad ogni modo, era convinto che gli adulti "la sapessero sempre più lunga di lui…". Sarà certamente assai utile al fanciullo fargli intendere che ciò che gli è detto di fare, lo deve fare non semplicemente perché babbo e mamma dicono così, ma anche perché essi conoscono meglio il da farsi.

L’adolescente invece si sottomette solo quando l’autorità difende idee simili alle sue (e siccome le sue idee sono facili a cambiare abbastanza rapidamente, le autorità di oggi potrebbe diventar vana domani), oppure quando si riesce a fargli vedere i ditti e la necessità su cui poggia tale autorità.

Rudolf Allers dice qui una cosa estremamente importante, e cioè che l’adolescente è naturalmente rivoluzionario: non perché abbracci e comprenda, di norma, i contenuti di una determinata ideologia rivoluzionaria, ma semplicemente perché le dinamiche interne della psiche del giovane, conflittuali e contraddittorie, lo spingono a innamorarsi dell’idea della rivoluzione, se si vuole in un senso puramente romantico. Quel che lo attrae, è il bisogno di rompere con la tradizione ed i suoi valori: di nuovo, non perché egli faccia dei ragionamenti precisi e articolati, ma perché la tradizione rappresenta il mondo dei suoi genitori, e, in genere, degli adulti, verso il quale egli prova sentimenti ambivalenti, di attrazione e repulsione; il desiderio di trovare rifugio e protezione, da un lato, e dall’altro il timore di rimanere schiacciato, di perdere la propria identità e di non riuscire — cosa per lui assolutamente vitale – ad affermare la propria autonomia. Giustamente, Allers imposta su queste basi il suo discorso pedagogico: se vuol agire sull’adolescente, o almeno non rimanere escluso dal suo mondo, l’adulto deve tener conto di questa ambivalenza e cercare di utilizzarla a favore dell’azione educativa: il giovane, infatti, non rifiuta l’autorità in assoluto, ma solo quella autorità che gli si presenta in maniera poco credibile; al contrario, se essa gli appare meritevole di fiducia, sarà lui stesso a sottomettersi volontariamente a lei, e persino con entusiasmo.

Qui termina il ragionamento di Allers, che resta nell’ambito di una prospettiva psicologica; noi, invece, vorremmo spingerci ancora più avanti, e considerare la cosa da un punto di vista ancor più generale, vale a dire filosofico. E la prima domanda filosofica che vogliamo porci è la seguente: perché i giovani d’oggi sono particolarmente attratti dalla rivoluzione e sono così ostili a tutto ciò che è tradizione? Infatti, le cose non sono sempre state così; c’è stato un tempo, diciamo fino all’avvento della società moderna, in cui la massima ambizione del giovane era quella di diventare adulto e poter mostrare a suo padre e sua madre di meritare la loro fiducia. Certo, esisteva anche in passato una certa tendenza alla trasgressione; ma l’adolescente vi si abbandonava in contesti limitati, circoscritti, senza mettere in discussione l’insieme del rapporto generazionale e, soprattutto, senza contestare o rifiutare il mondo degli adulti, perché lo sentiva anche come il suo mondo, anche se non ne era ancora interamente divenuto a pieno titolo. Ma quanto prima i giovani andavano a lavorare, anzi, quando già i bambini andavano a lavorare, specie nei campi, per aiutare la propria famiglia, tanto meno assumevano atteggiamenti di contestazione globale nei confronti del mondo adulto. Per assistere a un simile spettacolo, quello dell’adolescente che si ribella al mondo adulto, con disprezzo, con rabbia, ma coi soldi di papà, bisogna arrivare al "glorioso" 1968, a sua volta anticipato dalla rivoluzione religiosa del Concilio Vaticano II (certo, preparata a palazzo dal partito massonico-progressista; ma anche il ’68 studentesco è stato davvero così spontaneo come ci si vuol far credere?). Ci possiamo chiedere dove andasse a finire l’ardore "rivoluzionario" dei giovani prima della modernità, e perché non fosse diretto contro la tradizione e contro i padri. La risposta è che esso trovava sfogo, al livello della élite, in un eroismo di tipo individuale: la grande impresa che porta onore e gloria, oppure, meglio ancora, che adempie un voto religioso, per esempio la Crociata, o la ricerca del santo Graal. La massa non era interessata, e ciò non valeva solo per gli adolescenti, ma per tutti. L’adolescenza come età della rivolta è un fenomeno tipicamente moderno ed esprime tutto il malessere insito nella modernità, la civiltà anti-umana più compiuta e coerente della storia. L’uomo moderno è un individualista di massa: pertanto anche quando sogna l’eroismo e la ribellione, deve stare in mezzo a tanti altri, perché da solo non ce la farebbe. Ed ecco il ’68, con le facoltà occupate, gli scioperi, i cortei, gli scontri con la polizia e i ‘fascisti’. Giocare alla rivoluzione è meno faticoso e più gratificante che andare alle Crociate o cercare il santo Graal: è un gioco collettivo, in cui ci si stanca meno e si rischia pochissimo. Mal che vada, si cade in piedi, perché il vento tira in quella direzione, e il sei politico è assicurato anche agli asini e ai poltroni. Bello, vero?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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