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Degradazione volontaria, demone della modernità
19 Giugno 2018Strano destino postumo, quello di coloro i quali non si mostrarono in tutto e per tutto convinti e persuasi della eccellenza e inconfutabilità del pensiero di alcuni autori che la critica prevalente ha, più tardi, proclamato "grandi", e intronizzato nell’Olimpo dei classici, magari per la ragione che la loro filosofia va d’accordo a puntino con la sua, per il semplicissimo fatto che la sua è, in sostanza, il risultato di quella. Il minimo che può capitare a quei fedifraghi, a quei "ribelli", è di vedersi retrospettivamente accusati di non aver compreso, come avrebbero dovuto, l’eccellenza di costui; quando l’accusa non scende su d’un piano ancora più personale, nel qual caso si tirano fuori l’ingratitudine, la meschinità, l’invidia, la gelosia e Dio sa quanti altri orribili vizi e umane miserie, perché certo non è possibile alcun’altra spiegazione di una così palese e macroscopica ottusità e incomprensione. Che la spiegazione dell’arcano sia più semplice, addirittura tautologica, e cioè che quei signori critici giudicano le cose dal loro punto di vista, che discende appunto da quello del grande autore, e non provano a fare il minimo sforzo per mettersi dal punto di vista di quegli indegni contemporanei, di quei filistei e sepolcri imbiancati, i quali, dopotutto, vedevano le cose da un’altra prospettiva, perché il grand’uomo capovolgeva la prospettiva abituale ed eliminava tutti i punti di riferimento comunemente accettati, ciò non viene loro in mente. La cultura moderna adora i rivoluzionari, perché sul mito della rivoluzione essa ha costruito se stessa e per mezzo di esso si è auto-legittimata. Fateci caso: che si parli di teatro, o di cinema, o di pittura, o di poesia, o di qualunque altra cosa, per il filone dominante della cultura moderna è buono ciò che va contro la tradizione, è cattivo ciò che alla tradizione si rifà: la rivoluzione è bene in se stessa, ed essere rivoluzionari (non solo in ambito politico, ma altresì filosofico, artistico, scientifico e persino teologico) è un valore aggiunto a prescindere: vale a dire che, a parità di meriti, fra un pensatore, un artista, uno scienziato e un teologo di tendenza rivoluzionaria, ed un altro di tendenza tradizionalista, sarà sempre il primo a ricevere le simpatie, le attenzioni, la spontanea benevolenza dei critici moderni, mai il secondo; quest’ultimo, semmai, verrà preso in considerazione solo come termine di riferimento negativo, per far maggiormente risaltare l’originalità, l’acutezza e la "modernità" (giustappunto) del primo.
È un giochino da quattro soldi, una partita con le carte truccate, dove chi è moderno,e quindi rivoluzionario, vince facile e vince sempre, e chi non lo è (ideologicamente parlando) ha sempre torto, per definizione, anche quando, per caso, avesse palesemente ragione. Il motivo? Il rivoluzionario poteva aver torto nel merito, ma aveva, ha e avrà sempre ragione nel metodo, ed è questo che conta; mentre il tradizionalista, pur se avesse ragione, qualche rara volta, nel merito, avrà sempre torto nel metodo, e quindi ha torto in assoluto, perché, da Cartesio in poi, come tutti sanno, il metodo è tutto, mentre il merito è solo un dettaglio, una quisquilia, una cosa irrilevante. Un esempio? Ne potremmo fare mille, ma ne basterà uno solo. Sulla natura delle comete, l’astronomo "rivoluzionario" Galilei aveva torto, e torto marcio, perché, nel suo Saggiatore, sostenne che esse sono delle illusioni ottiche, mentre il suo avversario, l’astronomo "tradizionalista" Orazio Grassi, aveva ragione, completamente ragione, dato che per lui erano dei veri corpi celesti: ma che importa un simile dettaglio? Galilei, l’inventore del nuovo metodo scientifico, aveva ragione, perché, come affermava, modestamente, lui stesso, dei fenomeni naturali sapeva indicare le cause, e tale è la differenza fra la nuova scienza e la vecchia, quella libresca e aristotelica: che quest’ultima, cioè, non sa indicare le cause dei fenomeni. Ed ecco che tutti i moderni gli danno ragione, anche se aveva torto, anche sulle comete; tacciono l’irrilevante particolare e si concentrano sulla superiore verità del suo discorso scientifico, rispetto a quello di un Grassi qualunque. Conclusione: della Libra del Grassi non parla più nessuno, se non per sbeffeggiarla; ma del Saggiatore, chi è che non ne magnifica il valore e non ne fa il più perfetto esempio della nuova trattatistica scientifica? Si potrebbero fare tanti altri esempi, come quello dei (troppo) famosi fringuelli delle Galapagos, che il "grande" Darwin non seppe nemmeno riconoscere e classificare correttamente; ma che importa? Grazie ad essi, nella mente del sommo naturalista sbocciò l’idea dell’evoluzione delle specie mediante la selezione naturale; il che è perfettamente un falso, dato che quell’idea, nella mente di Darwin, si formò solo moltissimi anni dopo: ma, di nuovo, a chi importa? Darwin non può essere nemmeno sfiorato da un’ombra, perché lui è tutt’uno con la scienza moderna e il pensiero moderno: e anche se la faccenda dei fringuelli serve solo a retrodatare la formulazione della sua teoria, in modo da minimizzare la priorità di Wallace, ormai è stata consacrata dalla vulgata mainstream, e non c’è maestra che non la insegni ai bambini delle elementari, sentendosi anche lei, di riflesso, un po’ geniale, come lo fu Darwin con la sua luminosa intuizione evoluzionistica, che oggi è stata promossa, senza adeguata verifica, dal rango di semplice teoria a quello di verità assoluta e definitiva.
Dicevamo degli amici e dei contemporanei dei grandi rivoluzionari del pensiero. Un esempio di come sono stati trattati, a posteriori, dalla critica, è offerto dal caso di Guglielmo di Blyenberg, il quale ebbe il torto imperdonabile di non lasciarsi persuadere al cento per cento dagli argomenti teologici di Spinoza: ragion per cui, nonostante le sue lettere attestino la cortesia e la deferenza che continuò a rivolgere al "maestro", è stato qualificato dai critici moderni con gli epiteti più severi. Ad esempio, Remo Cantoni e Franco Fergnani, nella edizione del Tractatus a cura della Utet di Torino (2013), scrivono che il Blyenberg, insieme ad Ugo Boxel e ad Alberto Burgh, si rivelarono amici malfidi, incostanti, non degni della stima e dell’affetto di Spinoza; e qualche ombra viene gettata anche su Enrico Oldenburg e sullo stesso Leibniz. Ma adesso entriamo pure nel merito della questione, e vediamo cosa scrive il "grande" Spinoza al Blyenberg nella lettera del 13 marzo 1665 (da: Baruch Spinoza, Epistolario, a cura di Antonio Droetto, Torino, Einaudi, pp. 148-152):
Affermo dunque, in primo luogo, che Dio è realmente e assolutamente la causa di tutte le cose che hanno un’essenza, qualunque esse siano, E se voi potete dimostrarmi che, per esempio, il male, l’errore, il delitto, ecc. sono alcunché che esprime un’essenza, io vi ammetto interamente che Dio è la causa del delitto, del male, dell’errore, ecc. Mi pare di avervi sufficientemente mostrato che ciò che costituisce la forma del male, dell’errore e del delitto non consiste in alcunché che esprima un’essenza, e che non si può dire , per conseguenza, che Dio ne è la causa. Il parricidio di Nerone, per esempio, in quanto costituente un fatto positivo, non fu un delitto, perché anche Oreste commise un atto esterno (?) quando premeditò l’uccisione della madre, e tuttavia non è esecrato come Nerone. Quale fu dunque il delitto di Nerone? Soltanto quello di essersi dimostrato un figlio ingrato, spietato e insubordinato. Ora, è certo che nulla di tutto ciò esprime un’essenza, ed è per questo che Dio non ne è stato la causa, benché sia stato la causa dell’intenzione e dell’atto di Nerone.
Vorrei poi osservare che, finché noi parliamo filosoficamente, non dobbiamo servirci del gergo teologico, perché la teologia, essendo solita, e non senza sforzo, di rappresentare Dio come un uomo perfetto, non può far a meno di dire che egli desidera certe cose, che è disgustato delle azioni dei malvagi, e contento di quelle dei buoni. Ma in filosofia, dove noi percepiamo chiaramente che gli attributi convenienti alla perfezione dell’uomo non si possono attribuire e assegnare a Dio, più che non si possa predicare dell’uomo ciò che contribuisce alla perfezione dell’asino e dell’elefante, queste e simili immaginazioni sono fuori luogo e non si possono far intervenire se non estrema confusione dei nostri concetti. Ecco perché, filosoficamente parlando, non si può dire di Dio che desideri alcunché di chicchessia o che qualsiasi cosa sia a lui gradita o sgradita; poiché questi sono tutti attributi umani che non convengono a Dio.
Avrei voluto osservare, infine, che, quantunque le azioni dei buoni (ossia di quelli che hanno un’idea chiara di Dio e ad essa rivolgono tutte le loro opere e tutti i loro pensieri) e le azioni dei cattivi (ossia di quelli che non possiedono l’idea di Dio, ma solo quella delle cose terrene, alle quali volgono le proprie azioni e i propri pensieri), e finalmente le azioni di tutti gli esseri esistenti discendono necessariamente dalle leggi e di decreti eterni di Dio e dipendono costantemente da lui, tuttavia queste azioni differiscono le une dalle altre, non soltanto di grado, ma anche di essenza. E cioè, benché il topo e l’angelo, la tristezza e la gioia dipendano ugualmente da Dio, non si può dire però che il topo abbia la forma dell’angelo né che la tristezza abbia l’aspetto della gioia. Penso con ciò di aver risposto alle vostre obiezioni, se pure le ho ben comprese; perché mi viene talora il dubbio che le conclusioni che voi ne ricavate differiscano dalla proposizione stessa che imprendete a dimostrare.
Ma la cosa apparirà più chiara se rispondo in base a questi principi alle questioni che voi mi ponete. La vostra prima questione è, se siano ugualmente graditi a Dio l’atto dell’uccidere o quello del far elemosina. La seconda è, se il rubare e l’esser giusto siano azioni ugualmente meritorie rispetto a Dio. La terza infine, se per un animo, alla cui natura specifica non ripugnasse ma convenisse l’abbandonarsi alle passioni e il commettere delitti, non esisterebbe alcun criterio di virtù che lo determinasse a fare il bene e a fuggire il male.
Alla prima rispondo che filosoficamente parlando, io non so che cosa significhi "essere accetto a Dio". Se mi domandate, se Dio abbia questo in odio e quello in simpatia, se coprirà questo d’ingiurie e quello di favori, io vi rispondo di no. Ma se la questione è, se gli uomini che uccidono e quelli che fanno elemosina siano ugualmente buoni e perfetti, io risponderò ancora di no.
Alla seconda domanda rispondo che se il "bene rispetto a Dio" implica che l’uomo giusto produca in Dio una certa soddisfazione e il ladro un certo disgusto, né l’uno né l’altro possono produrre in Dio né gioia né dispiacere. Ché se mi domandate, se questi due atti dell’onesto e del ladro, in quanto reali e causati da Dio, siano ugualmente perfetti, io rispondo che, se noi consideriamo i semplici atti in quanto sono causati da Dio, può darsi che essi siano ugualmente perfetti. E se voi mi chiedete ancora, se il ladro e l’uomo nesto siano ugualmente perfetti e felici, vi rispondo di no. Per uomo onesto, infatti, io intendo colui che desidera costantemente che ognuno possegga ciò che gli appartiene; e questo desiderio, come io dimostro nella mia "Etica" (non ancora pubblicata) ha la sua sorgente per gli uomini dabbene nella chiara conoscenza che essi hanno sia di se stessi sia di Dio. E poiché il ladro non ha desideri di questo genere, egli è privo necessariamente e della conoscenza di Dio e della conoscenza di se stesso, ossia del fondamento primo del nostro essere uomini. Se, tuttavia, mi domandate infine che cosa possa spingermi a compiere l’azione che chiamo virtuosa piuttosto che un’altra, io vi rispondo che non posso sapere di qual mezzo, fra gli infiniti esistenti, Dio si serva per determinarmi a questa azione. Potrebbe darsi che Dio abbia impresso nel mio spirito un’idea così chiara di sé, da farmi dimenticare il mondo per amor suo e da farmi amare gli uomini come me stesso. Ed è evidente allora che la costituzione di un’anima siffatta è irriducibile a tutto ciò che si chiama male: ed è ovvio, perciò, che non la troverete in alcun soggetto.
Questo è, crediamo, uno di quei casi in cui proprio il fatto che noi moderni inforchiamo le lenti della modernità, ci rende difficile, se non impossibile, vedere quel che di assurdo, di contraddittorio, di artificioso, vi è in una filosofia come quella di Spinoza, e ci fa meravigliare perché un suo corrispondente non ne era del tutto persuaso. E invero, a meno che egli adottasse una precisa strategia dell’ambiguità, dettata dalla prudenza, del tipo "dico e non dico", qui si ha l’impressione che egli giochi al gatto col topo, e si compiaccia di sbalordire e confondere il suo interlocutore con una serie di affermazioni ad effetto, laddove sarebbe stato tanto più semplice, e anche più onesto, dire sbrigativamente: Dio è la natura e la natura è Dio (Deus sive natura): dunque, scordatevi tutto quel che dicono i teologi, nonché le religioni, intorno alla natura di Dio, e sappiate che Dio non prova passioni o sentimenti per il semplice fatto che non "pensa", nel senso — antropomorfico — che noi attribuiamo a questa espressione. Dio non può pensare, perché la natura non pensa; dunque, Dio non premia né castiga, e non gode né si rattrista dei comportamenti umani. I quali comportamenti umani sono da lui determinati, nel senso che tutto viene dalla natura, e nulla vi può sfuggire: la libertà, in una siffatta prospettiva, non esiste, ed è Dio che imprime l’idea del bene o del male nelle nostre menti. Qui vi è una certa convergenza con la teologia protestante, nel senso che Dio fa tutto e l’uomo non fa nulla, anzi, non deve fare nulla, purché abbia la fede. Nondimeno, si nota che Spinoza non è poi tanto sicuro delle sue paradossali affermazioni, allorché adopera espressioni come la seguente: se noi consideriamo i semplici atti in quanto sono causati da Dio, può darsi che essi siano ugualmente perfetti; perché "può darsi che" non è un modo di esprimersi filosofico, e non lo è specialmente per un filosofo che pretende di dimostrare l’etica con gli stessi strumenti di ordine logico con i quali si può dimostrare un qualsiasi teorema della geometria (ethica more geometrico demonstrata).
Anche la frase potrebbe darsi che Dio abbia impresso nel mio spirito un’idea così chiara di sé, da farmi dimenticare il mondo per amor suo e da farmi amare gli uomini come me stesso, difetta di quel perfetto rigore logico che lo stesso Spinoza pretende di attribuire al ragionamento filosofico; perché potrebbe darsi non significa un bel nulla, o è così oppure non è così, e sarebbe assai più onesto e conveniente dire un bel non lo so e nessuno lo può sapere. Ma una simile ammissione d’ignoranza, una simile ammissione del limite ontologico dell’uomo richiederebbe troppa umiltà da parte del Nostro, il quale si è premurato di mettere bene in chiaro, sin dal principio della sua lettera, che il ragionamento filosofico sta su di un gradino più alto, e non più basso, della teologia. Infatti, mentre i teologi sono quei buffi signori che ragionano su Dio attribuendogli aspetti e caratteri tipicamente umani, il filosofo non cadrà mai in siffatte puerilità, perché, dice disinvoltamente al povero Guglielmo de Blyenberg, con l’evidente intenzione di scandalizzarlo, in filosofia noi percepiamo chiaramente che gli attributi convenienti alla perfezione dell’uomo non si possono attribuire e assegnare a Dio, più che non si possa predicare dell’uomo ciò che contribuisce alla perfezione dell’asino e dell’elefante, mostrandosi libero pensatore quanto basta per farsi beffe di tutti i teologi del mondo. Del resto, questa mancanza di umiltà non è tanto un tratto caratteriale di Spinoza, quando una conseguenza necessaria della sua filosofia panteista e ultra-razionalista. L’idea che egli ha della natura è quella di un figlio della rivoluzione scientifica del XVII secolo: la natura è un meccanismo perfettamente congegnato, senza imprevisti, senza eccezioni (ed ecco perché, fra parentesi, i miracoli sono impossibili: la natura non ammette sospensione alcuna delle sue leggi; un argomento che piacerà molto a Voltaire e a tutti gli illuministi del secolo successivo). Se Dio e la natura sono la stessa cosa, allora anche noi, che siamo parte della natura, siamo anche parte di Dio. E come potremmo allora riconoscere di non sapere qualche cosa? Sarebbe come fare un torto a Dio: non sia mai.
Può darsi che molti non se ne rendano conto, ma le idee di Spinoza hanno fatto talmente strada, da essere divenute parte integrante del paradigma moderno, nel quale siamo immersi e sul quale, in genere, raramente c’interroghiamo, tanto diamo ormai per scontata la sua verità definitiva (almeno nella misura in cui la modernità ci ha abituati all’idea che tutto è provvisorio, verità compresa). Il modo di pensare di Spinoza, panteista, naturalista e ultra-razionalista, in buona sostanza è divenuto il modo di pensare — o di non pensare, se si preferisce — di tutti quei divulgatori scientifici, da Piero Angela a Margherita Hack, a Piergiorgio Odifreddi, ma partendo da antenati un poco più illustri di loro, come Bertrand Russell, i quali, disponendo praticamente del monopolio della comunicazione culturale, hanno forgiato il modo di vedere le cose nella grande maggioranza delle persone, compresa l’idea preliminare di ciò che è possibile e di ciò che è impossibile. Impossibile, per loro, come per Spinoza, è tutto ciò che non rientra nelle leggi della natura, o che differisce da esse; possibile, solo ciò che può essere geometricamente dimostrato. Il principio di realtà svanisce davanti a questa imposizione preliminare: non ha importanza il fatto che una cosa accada, quel che conta è se la cultura moderna la ritiene possibile. Non ha importanza il fatto che, a Lourdes, certi malati incurabili siano improvvisamente e inspiegabilmente guariti; quel che conta è che una cosa del genere non è possibile, e ciò chiude il discorso. E così tutto, anche l’etica, viene subordinato a una pregiudiziale ideologica: l’idea che la natura sia "perfetta". Questo modo di pensare tipicamente ideologico (e non certo filosofico, come pretende Spinoza) ha infestato, purtroppo, ogni ambito del reale, comprese la vita politica e sociale. Non ha importanza se una cosa si rivela dannosa, o almeno problematica, per la società; quel che conta è se la si debba ammettere o no, in via teorica; se la si ammette, allora essa ha diritto di cittadinanza, per quanti paradossi tale ammissione possa portare, qualora si tratti di cosa contraria al ben vivere. Ma chi siamo noi per giudicare? Se Dio è la natura…
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