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Volersi bene, volersi male

Il fatto che l’edonismo sia uno dei tratti più caratteristici della civiltà moderna, oltre che uno dei più antichi e più consustanziali ad essa (è, in particolare, una delle componenti più specifiche della civiltà letteraria umanistico-rinascimentale) si presta a un equivoco molto naturale e molto frequente, ossia che l’uomo moderno sia particolarmente indulgente nell’amore di sé. Il fatto è che l’edonismo, e lo stesso narcisismo, non esprimono affatto l’amore di sé, ma semplicemente la ricerca del proprio piacere e l’esaltazione del proprio io. Né l’una né l’altra cosa corrispondono al vero amore di sé, ma, semmai, a una forma deviata e patologica dell’amore di sé. Pensare che la ricerca del piacere sia la stessa cosa dell’amore di sé equivale a pensare che un uomo, malato di cancro ai polmoni, manifesti il suo volersi bene fumando due pacchetti di sigarette al giorno. Una cosa è il piacere e una cosa è l’amore di sé: sono due concetti profondamente diversi. Possono coincidere, ma solo nelle persone molto mature e spiritualmente evolute. Per tutti gli altri, cioè per la stragrande maggioranza degli esseri umani, non solo sono concetti distinti, ma sono anche, il più delle volte, antitetici e inconciliabili. Ed è logico. Se non si è sufficientemente consapevoli, si scambiano dei semplici piaceri, per giunta particolarmente grossolani, per l’amore di sé, che è tutta un’altra cosa. Quanto al narcisismo, esso per definizione è l’espressione infantile di un desiderio infantile, quello di essere sempre al centro, ammirati e lodati da tutti, e, se possibile, anche invidiati; il che non ha niente a che fare con il vero amore di sé.

Dunque, cominciamo col dire che l’amore di sé non può essere, per forza di cose, che amore del proprio bene, e non del proprio male. Tutte le cose che non corrispondono a un bene, ma a un male, evidentemente non giovano e quindi il fatto di ricercarle non esprime alcun amore verso se stessi, ma tutto il contrario. Resta da vedere cosa sia il proprio bene. La cultura relativista e soggettivista, che oggi va per la maggiore, vorrebbe che ciascuno determini, da se stesso, che cosa gli faccia bene e che cosa gli faccia male, senza tener conto di alcun elemento esterno all’io. A ciò poniamo due obiezioni. La prima è che se una cosa mi fa bene, non necessariamente essa è il mio bene o produce il mio bene: può darsi, ad esempio, che mi faccia bene in un primo momento, o, per esprimerci meglio, che produca in me una sensazione (illusoria) di bene e che poi si riveli, invece, sul medio e lungo periodo, qualcosa di altamente nocivo. Siamo esseri imperfetti, che faticano alquanto a comprendere le cose, specie quelle che ci toccano direttamente (al contrario di ciò che in generale si pensa): nessuna meraviglia, pertanto, che abbiamo bisogno di tempo per renderci conto se una cosa è davvero buona per noi, ossia se ci fa veramente del bene. Come ciascuno avrà senza dubbio sperimentato, più di una volta, nel corso della propria vita, succede di cadere in errore e di scambiare per un bene qualche cosa che successivamente, purtroppo, si rivela essere un male. Qualche volta capita anche di fare l’esperienza contraria, ma, probabilmente, più di rado, per la semplice ragione che noi tendiamo a fuggire davanti a ciò che, sulle prime, giudichiamo un male, e solo se le circostanze sono del tutto indipendenti dal nostro volere, subiamo quel che ci sta capitando, fino al punto di arrivare a comprendere, in un secondo momento, che quel male apparente era l’inizio di un bene futuro. La seconda obiezione è che noi non soltanto siamo imperfetti, ma anche mutevoli: ci sembra oggi un bene quel che domani giudicheremo un male, e viceversa; la nostra incostanza ci impedisce, generalmente parlando, di tener fermo nel giudizio che diamo sulle cose: pertanto, la verità è che noi stessi non sappiamo se è bene quel che desideriamo, quel che cerchiamo e quel che facciamo; e, così pure, se desideriamo, cerchiamo e facciamo quel che è bene, oppure no. In altre parole, siamo un mistero a noi stessi: e, se le cose stanno così, come potremmo essere delle guide affidabili nei nostri stessi confronti? In alcuni caratteri particolarmente volubili e capricciosi, la cosa è piuttosto evidente; nondimeno, è una caratteristica tipicamente umana quella di non sapere con chiarezza né quel che si vuole, né se quel che si vuole è ciò che si vuole davvero. In queste tortuosità, l’animo femminile è particolarmente versato; e, parlando in generale, quel che si suole definire, con una sorta di esoterica ammirazione, il mistero femminile, altro non è che la duplicità, e quasi la schizofrenia, del carattere della donna, la quale non sa quel che vuole e vuole quel che non sa, salvo poi lamentarsi e dolersi della dura insensibilità maschile, incapace di comprendere i suoi bisogni più profondi. Aprendo una breve parentesi, osserviamo qui che il gran male della cultura femminista è l’avere innalzato al livello di un "diritto", nonché di un pregio, tale inconsapevolezza e contraddittorietà dell’animo femminile, sicché a tutti quanti, uomini e donne, è fatto obbligo di inchinarsi con riverenza davanti ai capricci, più o meno isterici, della donna che non sa, lei per prima, quel che vuole, e che non vuole quel che crede di volere, ma qualcos’altro, qualcosa di completamente diverso: qualcosa che, se arriva al punto giusto, viene salutato con gioia, come una liberazione, ma, se arriva al momento sbagliato, o nella circostanza sbagliata, viene percepito come una sopraffazione, una violenza, un’ingiustizia, ecc. e scatena una feroce volontà di rivalsa, mentre la verità è che la donna, in molte di quelle tali circostanze, dovrebbe semmai prendersela con se stessa, e con nessun altro.

Scartata, così, la pretesa di stabilire il proprio bene in maniera relativistica e soggettivistica, si arriva alla necessaria conclusione che il proprio bene non è una cosa diversa e separata dal bene in quanto tale, ossia dal bene in sé. In altre parole, non si dà un bene individuale che sia in contrasto con il bene generale, e tanto meno che sia male per qualcun altro. Questa è una "scoperta" che può riuscire sorprendente solo a chi sia talmente chiuso e murato nel proprio io, e talmente abituato a considerarlo come l’ombelico dell’universo mondo, da non aver mai neanche sospettato il legame profondo che esiste, nel bene come anche nel male, fra tutti gli enti e fra tutti gli esistenti. In effetti, una tale consapevolezza si schiude solo a quanti abbiano fatto quel sia pur minimo progresso spirituale, da poter almeno sospettare, o intravedere, che esiste un mondo al di là del proprio io, e che lo stato di quel mondo non è senza reciproci influssi con il mondo personale dell’io. Per chi non ha mai fatto questo sia pur minimo progresso sulla via della consapevolezza, il male è sempre e comunque male, non perché sia male in se stesso, ma perché ostacola o disattende i desideri e le ambizioni dell’io. Per il bevitore incallito, affetto da cirrosi epatica, la mano che gli sottrae la bottiglia di vino è comunque una mano nemica, perché per costui il bene coincide sempre con la soddisfazione dei capricci dell’io. Viceversa, il fatto di diventare un violento in casa sua, dopo che ha bevuto, e di costringere sua moglie e i suoi figli a una vita difficile, non lo tocca più di tanto, purché possa soddisfare il suo vizio; o, se pure lo toccasse (nei momenti di lucidità), resterebbe la sua incapacità di riconoscere il legame necessario che esiste fra il supposto bene del potersi ubriacare, e il male che ne consegue per i suoi cari: perché, se lo vedesse, giungerebbe alla facile conclusione che bere, per lui, non è un bene, ma un male, e dai mali ci si guarda e si fa in modo di evitarli, costi quello che costi; non li si cerca e non li si corteggia in alcun modo. Si potrebbe obiettare che questo è un problema della volontà, e non della consapevolezza; si potrebbe cioè obiettare che una cosa è vedere il male, un’altra il saperlo evitare. Rispondiamo che nessuno si avvicina a una bomba inesplosa, una volta che l’abbia riconosciuta, a meno che desideri scherzare con la morte; e che avere un tale desiderio è già il segno di un volersi male, e non bene. Chi si vuol bene, non scherza con la morte, ma custodisce saggiamente la propria vita, riconoscendo in essa un gran bene, a prescindere dalla quantità di bene che, allo stato presente, essa gli offre. Non è vero, pertanto, che l’alcolista è solamente un debole, che non sa trarre le debite conclusioni dalle conseguenze del suo vizio: la verità è che l’alcolista è un suicida timido, che non osa togliersi la vita in un momento solo, ma preferisce farlo a piccole dosi, un poco ogni giorno. Ora, chi non sì desidera più vivere è colui che non si vuole bene, ma si vuole male: pertanto, l’uomo moderno che vede il proprio bene, ma non è capace di farlo, e fa, invece, il proprio male, pur sapendo che è male, non è, semplicemente, un uomo ignorante, o debole di volontà, ma è un uomo che si odia e che vorrebbe morire, perché è giunto al disgusto di se stesso.

Ci stiamo così avvicinando al nocciolo del problema. Il nocciolo del problema non è di tipo intellettuale, ma spirituale. Per Socrate, ad esempio, conoscere il bene significa anche farlo, perché, intellettualisticamente, per lui è impossibile che qualcuno non faccia il bene, una volta che lo abbia riconosciuto come tale. Per noi, al contrario, si può benissimo riconoscere il bene come bene, e il male come male, ma non essere affatto capaci di trarne le debite conclusioni, non per un difetto dell’intelletto, e neppure, o non solo, per una debolezza della volontà, ma proprio perché l’anima non vede sufficienti ragioni per volersi bene, e quindi s’immerge in ciò che è male, o in ciò che, comunque, l’allontana dal bene, semplicemente per noia e per disamore di sé. Questo, a nostro credere, è il tratto più tipico della civiltà moderna. L’uomo moderno è oppresso innanzitutto dalla noia, ossia dal taedium vitae, da uno spaventoso senso di vuoto esistenziale e d’inutilità del proprio vivere; poi, da un profondo disgusto di se stesso, disgusto che si sforza di celare a tutti quanti, e sovente lo fa talmente bene, che finisce per celarlo anche a se medesimo. In questo senso, la psicologia dell’uomo moderno si è notevolmente femminilizzata: come le donne, egli vuole e non vuole, e, nello stesso tempo, non sa bene ciò che vuole; ora vuole una cosa e fra un paio d’ore, o fra cinque minuti, ne vorrà un’altra, magari antitetica alla prima; scambia ogni suo capriccio per una esigenza irrinunciabile, e ogni esigenza per un bisogno reale, sicché alla fine diventa il più abile ingannatore di se stesso. E come potrà migliorare la propria condizione, colui che vive immerso nella menzogna riguardo alla propria anima? Come potrebbe uscire dal malessere, dall’angoscia, dall’infelicità, colui che non sa neppure distinguere quel che prova realmente, colui che è diventato, o che è sempre stato, un prefetto analfabeta dei propri sentimenti? Il dramma dell’uomo moderno è tutto qui. Egli sa un mucchio di cose, ma ignora l’essenziale. Non appena soffre di qualche male, corre dallo specialista; ma nessuno specialista, per definizione, saprà inquadrare quel sintomo nel contesto del male più grande dal quale egli è afflitto, e che, in ultima analisi, è riconducibile a un’unica categoria: noia, disgusto e disamore di sé. In effetti, lo specialismo è una parte del problema complessivo dell’uomo moderno, così come lo è, in generale, tutta la sua medicina e tutta, o quasi tutta, la sua psicologia. Sia l’una che l’altra gli danno solo gli strumenti per agire sulla superficie delle cose, ma nessuna possiede un sufficiente spessore e una sufficiente ampiezza concettuale e spirituale per scendere e agire in profondità.

Il male da cui è afflitto l’uomo moderno è quindi, in sostanza, di ordine spirituale. L’uomo moderno è smarrito, angosciato e disperato perché ha dimenticato le ragioni per le quali si vive. Il moltiplicarsi delle depressioni, dei comportamenti autolesionistici, dei suicidi, e anche il crollo demografico e la pratica dell’aborto, hanno qui la loro radice comune. Se l’uomo moderno ricordasse perché si viene al mondo, e se sapesse vivere la vita con la stessa tranquilla sicurezza dei suoi avi, i quali affrontavano senza scoraggiarsi sacrifici e privazioni che sarebbero, per lui, semplicemente inimmaginabili, desisterebbe da questi comportamenti autodistruttivi, lascerebbe da parte sia l’edonismo che il narcisismo, maschere miranti a nascondere il suo autentico disamore di sé, e tornerebbe a volersi un po’ di bene. Il fatto è che i suoi avi sapevano che il bene di ciascuno è parte del bene in quanto tale: il loro punto di vista era assoluto, perché la loro etica discendeva direttamente dalla Rivelazione divina. Si viene al mondo per conoscere, amare e servire Dio in questa vita e per godere della sua eterna amicizia nell’altra: questo sapevano i suoi nonni e bisnonni, anche se avevano appena la terza elementare, mentre lui ha due o tre lauree, e quattro o cinque specializzazioni, e legge libri di filosofia e tiene conferenze in questa o quella università. Il problema dell’uomo moderno è una conseguenza della natura stessa della civiltà moderna: una civiltà nata dall’allontanamento da Dio, allontanamento che si è via, via, trasformato in un vero rifiuto. L’uomo moderno è disperato perché ha perso il legame con Dio; e, perso il legame con Dio, ha smarrito anche il legame con se stesso. Le due cose sono inseparabili. Perso il legame con se stesso, l’uomo moderno trascina i suoi giorni inseguendo il piacere, o il successo, o il potere, quasi cercando di stordirsi e di non avvertire il grido angosciato che sale dalle profondità della sua anima. Non lo vuole udire, perché udirlo equivarrebbe a riconoscere il proprio fallimento. Dovrebbe ammettere di aver costruito una civiltà scellerata, moralmente deviata, nella quale i valori sono stati capovolti, uno dopo l’altro, e nella quale l’assurdo diventa legge, e, quel che è peggio, un assurdo perfettamente razionalizzato. Il matrimonio fra due uomini, o il matrimonio di una donna con se stessa, per esempio, con tanto di abito bianco, fiori d’arancio e invitati che lanciano i chicchi di riso, è una manifestazione di tale assurdo razionalizzato. Per volersi bene, l’uomo deve ritornare a Dio…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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