
Capire il fascismo è tornare a Vittorio Veneto
4 Maggio 2018
L’eresia è al potere perché i teologi hanno il potere
5 Maggio 2018L’uomo moderno si caratterizza, rispetto agli uomini delle epoche precedenti, come colui che ha perso il proprio equilibrio interiore e che vive, pertanto, sente, pensa e agisce, sotto l’influenza di un intimo dissidio, di uno squilibrio, di una disarmonia e quasi di una vera e propria lacerazione, che, nei casi più gravi, fa pensare a una sorta di sdoppiamento della sua natura, di frammentazione e dispersione del suo io più profondo. Quel doppio uomo che è in me, dice Petrarca, nella lettera in cui descrive l’ascensione al Monte Ventoso; perennemente in lotta con se stesso, si può dire di Saul, l’eroe alfieriano, ma lo si può dire anche del suo autore; uno, nessuno e centomila, è il titolo di un romanzo di Pirandello, che riassume tutta la concezione antropologica del suo autore. A molti uomini d’oggi si potrebbe diagnosticare un disturbo narcisistico della personalità: la scena penosa, grottesca, di Berlusconi che non sa rassegnarsi ad esser secondo, e che, dopo aver lasciato parlare Salvini, ma facendo mille gesti e smorfie per dare a intende che il capo è sempre lui, alla fine, mentre l’altro se ne va, s’impossessa del microfono e vuol dire a ogni costo l’ultima battuta, mettere il sigillo finale sulla scena, ne è un tipico esempio. Anche nei comportamenti del signor Bergoglio affiora continuamente un bisogno incontenibile di popolarità e di approvazione, una tensione esasperata verso il centro della scena, una assoluta impossibilità di tacere quando sarebbe l’ora di farlo, di riflettere quando sarebbe il momento di pensare, di ascoltare la voce dell’altro, soprattutto, ma non in funzione del suo ego, bensì per porsi delle domande e mettersi, eventualmente, in discussione: in altre parole, una personalità disarmonica, disturbata, malata di protagonismo, radicalmente incapace di occupare il secondo o il terzo posto, fosse pure rispetto a Dio e a Gesù Cristo, come è il suo caso. Ma il narcisismo patologico è solo una delle maschere che tende ad assumere il disturbo che caratterizza l’uomo contemporaneo, nel suo sentire e nel suo pensare, prima ancora che nel suo agire; disturbo che abbiano identificato senz’altro come uno squilibrio. Ma squilibrio di quali elementi, e rispetto a quali altri? In che cosa e perché l’uomo moderno ha smarrito l’equilibrio che possedevano i suoi padri?
Secondo l’insigne storico tedesco Friedrich Meinecke, quel che è andato in crisi è l’equilibrio fra gli elementi costitutivi della società liberale: spirito e potenza, a causa dello sviluppo unilaterale delle facoltà tecniche richieste all’uomo moderno dal tipo di sviluppo complessivo della società in cui vive. Tale ipertrofia dell’homo faber rispetto all’homo sapiens reca la conseguenza che le facoltà spirituali o si inaridiscono, oppure, per reazione, riemergono con prepotenza, magari in forme altamente emotive e irrazionali, anche se, in teoria, al servizio di un ideale "razionale", ma nel quale — osserviamo noi – si riconosce, sì, la razionalità dei mezzi, non però quella dei fini, come è tipico, del resto, della tecnologia quando si erge, impropriamente, a ideologia sociale. Egli vede questo fattore in opera nella genesi del nazismo e, in generale, nella partecipazione emozionale e compulsiva ad attività "sociali" di qualsiasi tipo, dalla riforma agraria alle scienze occulte; parla di una esigenza metafisica repressa, che può trovare sfogo all’improvviso, nella persona più tranquilla, nel "tecnico" che ha studiato e lavorato per tre, quattro, cinque lustri, con perfetta monotonia, senza mai dare segni apparenti d’impazienza, ma che poi, d’un tratto, viene afferrato come da una febbre incontenibile, da una smania di gettarsi a capofitto in una "causa", quale che sia, anche solo per sentirsi nuovamente uomo fra gli uomini, con i tutti i suoi caldi sensi, e non più solamente un tecnico fra questioni aridamente tecniche (o addirittura fra le macchine).
Ecco come lo stesso Meinecke formula la sua interpretazione (da: F. Meinecke, La catastrofe della Germania; titolo originale: Die deutsche Katastrophe, Wiesbaden, 1946; traduzione dal tedesco, Firenze, La Nuova Italia, 1948; cit. in: Renzo De Felice, Il Fascismo, le interpretazioni dei contemporanei e degli storici, Bari, Laterza & Figli, 1970, 1998, pp. 407-410):
I principi del liberalismo classico (spirito, potenza, ecc.) avevano avuto il loro fondamento in una suddivisione assai precisa delle forze razionali e irrazionali, in una delicatissima combinazione individuale e molteplice delle une con le altre. Ma le influenze, sempre maggiormente affermantisi, della civiltà moderna non favorirono il mantenimento di tali condizioni di equilibrio. Specialmente la configurazione della vita professionale moderna agì nel senso di imprimere alla vita un carattere meccanico, normalizzandone gli scopi e riducendo l’intima spontaneità della vita psichica. […]
Avviene spesso […] che giovani tecnici, ingegneri, ecc. i quali avevano avuto un’eccellente preparazione professionale nei loro corsi universitari, si consacrassero col massimo zelo per dieci, o quindici anni alla loro professione senza guardare né a destra, né a sinistra, desiderando di essere solamente dei buoni professionisti. Ma a un certo puto, alla metà o alla fine del loro quarto decennio di vita, si desta in essi qualche cosa che prima era stato ignoto e di cui nel corso della loro formazione mai avevano avuto occasione di interessarsi; qualche cosa che si potrebbe definire: un’esigenza metafisica repressa. Ed eccoli a precipitarsi impetuosamente vero qualche occupazione speciale d’ordine ideale, dedicarsi a qualche argomento di moda, tale da apparir loro di particolar importanza per il bene della nazione o dei singoli, si tratti di anti-alcoolismo o di riforma agraria, di eugenetica o di scienze occulte. Quello che era stato un serio professionista si trasforma così in una specie di profeta, in un entusiasta, fors’anche in un fanatico e in un monomane. Così sorge il tipo di "colui che salverà il mondo".
Da ciò si vede come l’indirizzare l’intelletto in senso unilaterale, come spesso fa la tecnica della divisione del lavoro, possa portare a una violenta reazione degli irrazionali negletti; non però a una vera armonia creatrice, sebbene a un nuovo unilateralismo, che si agita selvaggiamente e senza senso della misura. […]
Una mentalità fortemente concentrata e mirante all’utili e a fini di immediata utilizzazione assurse al entro della vita dello spirito. Molto essa produsse, consentendo di ottenne meravigliosi progressi della civiltà. E le altre forze psichiche insite nell’uomo, respinte che furono, se ne vendicarono o con quelle selvagge reazioni di cui abbiamo fatto parola, oppure provocando un generale intorpidimento e rilassamento. Allo spirito e alla fantasia rimase in certo modo la scelta tra l’inselvatichirsi e l’inaridirsi. Per lo più accadde il secondo fatto.
Il desiderio sensuale, indistruttibile come è sempre stato è e sarà nell’anima umana, acquistò in seguito ai progressi della tecnica una quantità di nuovi obiettivi ai quali mirare. La volontà, poi, ebbe un formidabile impulso dalle smisurate possibilità che l’intelligenza coi suoi progetti e con i suoi calcoli insegnava a realizzare nell’ambito della vita esteriore. Al XIX secolo, ai suoi tardi anni, e al secolo XX, fino ai giorni nostri, non sono davvero mancate forti energie. Un’intelligenza calcolatrice, rivolta piuttosto a fini pratici, congiunta a una concentrata forza di volontà, ostensibilmente lanciantesi da un formidabile compito all’altro, staccata — nei momenti di sosta — dai piaceri materiali: tale era l’aspetto che lo spirito del secolo a grandi linee offriva, tuttavia molto distanziandosi da quello della tarda antichità, con la quale speso si è voluto confrontare l’età nostra, quando cominciò a rivelare segni di decadenza.
Di questo ragionamento, quel che mettiamo in dubbio non è la premessa, ossia il verificarsi di uno squilibrio interiore in luogo di una precedente armonia, ma la collocazione storica del fenomeno: dal nostro punto di vista, la società liberale è essa stessa l’emanazione diretta di tale squilibrio, perché in essa "spirito" e "’potenza" non sono affatto in equilibrio, bensì, come Francis Bacon aveva teorizzato fin dagli ultimi anni del XVI secolo, "sapere è potere", quindi lo "spirito" è al servizio del "potere", e questo è già un capovolgimento del giusto rapporto che deve esistere tra le due facoltà. Se lo spirito non comanda alla potenza, sarà la potenza, che è sempre più la potenza tecnologica, a comandare allo spirito, con il risultato che l’uomo moderno è divenuto schiavo del suo stesso tecnicismo, prigioniero del suo stesso progresso scientifico e materiale.
A parte questo, l’analisi dell’uomo moderno, del "tecnico" convertito in "salvatore dell’umanità", ci sembra sostanzialmente giusta; potremmo anzi allargarla ulteriormente, prendendo la parola "tecnico" nel senso più ampio, quello che le attribuisce Ernst Jünger, per esempio, tale da includere una bella fetta dell’umanità moderna, che sulla tecnica, intesa nel senso più ampio, si regge. Non solo un tecnico informatico, per esempio, è un "tecnico", ma lo è anche un consulente commerciale, anzi, lo è perfino un contadino, nel momento in cui si serve di strumento tecnici, come le mungitrici o le seminatrici meccaniche, per svolgere il suo lavoro. Un "tecnico" è perfino un bambino che si serve del computer o del telefonino, rispetto a suo nonno che non lo sa fare, o non lo sa fare se non per le funzioni più semplici; per cui suo nonno dovrà ricorrere alla sua assistenza per fare una certa cosa che richiede la conoscenza di funzioni più complesse e non, come è sempre stato finora, viceversa. E tutta questa umanità immersa nel tecnicismo, e per la quale la tecnologia è divenuta una seconda natura, a un certo punto si sente alienata, inaridita, e, pur non rendendosi ben conto delle cause di ciò, anzi, non rendendosene conto affatto, impulsivamente abbraccia una causa di tipo "spirituale", si fa seguace di Scientology, oppure di una campagna per la conquista di sempre nuovi diritti civili da parte della società, e parte, lancia in resta, al servizio d’una nobile causa. Tanto più numerosi sono i "tecnici", tanto maggiore è il loro bisogno di distinguersi dagli altri, di emergere, di farsi notare come fautori di una concezione umanistica e, possibilmente, filantropica e umanitaria, oppure animalista, ecologista, ambientalista, eccetera. Che Dio ci scampi e liberi da tutti questi filantropi, umanitari, animalisti, ecologisti e ambientalisti, da tutti questi abortisti e vegani, sostenitori dell’eutanasia e dei matrimoni omofili, da tutti questi ossessi, da questi indemoniati, i quali, avendo completamente perduto il loro equilibrio interiore, ed essendosi prosciugati il cervello, posto che ne avessero uno, svolgendo funzioni puramente tecniche, a un certo puto hanno deciso di tornare ad essere uomini fra gli uomini, ma assai migliori e più utili degli altri uomini, di essere i salvatori del mondo, i redentori dell’umanità. Come nel caso delle donne isteriche, non esistono praticamente rimedi contro questa orda di barbari zelanti e scatenati: non resta che armarsi di rocciosa pazienza, d’impassibilità e di fermezza, e aspettare che l’ondata di pazzia collettiva sia passata — in attesa che si metta in movimento quella successiva.
Il pericolo, come già vedeva Meinecke, è che questi tecnici, i quali hanno sviluppato una mentalità puramente efficientistica, finiscono inevitabilmente per riversarla nelle loro nuove crociate "umanistiche", trasformando così anche le questioni sociali, politiche culturali, in questioni tecniche, nelle quali ciò che conta non è il vero, o il giusto, ma l’utile: e in questo, lo ripetiamo, il liberalismo è stato fin dall’inizio cattivo maestro, essendo anzi l’ideologia che fa dell’utile la norma suprema di tutto. Insomma, anche se ciò dispiace a Meinecke (e a Croce), i totalitarismi del XX secolo sono figli legittimi del liberalismo, e non si possono in alcun modo considerare delle schegge misteriosamente impazzite; e ciò vale per il socialismo e il comunismo, prima ancora che per il fascismo o il nazismo. Oltre a ciò, ai nostri giorni, che non sono più quelli di Meinecke, si è aggiunto un ulteriore pericolo, giacché la tecnologia si è spinta sino a delle frontiere che, sessanta o settant’anni fa, erano inimmaginabili. Fecondazione eterologa, clonazione, modifica genetica degli organismi, sono solo alcuni esempi di queste nuove frontiere, che hanno condotto l’umanità alle soglie di un territorio del quale non sappiamo nulla. Ciò che si può intravedere sin da ora, è la nascita di una post-umanità tecnologizzata, quasi un "ponte" diabolico fra l’intelligenza artificiale dei calcolatori elettronici, spinta fino alla creazione di repliche "umane" delle macchine, come gli androidi, e l’intelligenza umana, però radicalmente modificata, per mezzo di strumenti e sussidi tecnologici, magari all’insaputa dell’uomo stesso, che funge, così, da cavia per sempre nuovi esperimenti (microchip nel cervello, tecniche di condizionamento mentale). E, a quel punto, cui siamo già terribilmente vicini, sarà ben difficile prevedere in che maniera in quali direzioni ci condurrà lo "squilibrio" interiore dell’umanità, divenuto la condizione permanente e, forse, definitiva dei discendenti di Adamo. D’altra parte, è impossibile formulare una diagnosi dello squilibrio umano se non si ha chiaro chi è l’uomo. Noi tendiamo a prendere come pietra del paragone l’uomo moderno, ma questo è un grave errore, perché l’uomo moderno è un tipo umano ammalato, già degenerato rispetto al tipo umano sano e normale. E la sua malattia, la sua degenerazione hanno un nome e una causa: il rifiuto di Dio e la pretesa di sostituirsi a Lui. Il fatto che l’uomo moderno, avvertendo in sé uno squilibrio, si ostini a cercare la salvezza in sempre nuove macchine, dà la misura fino a che punto l’ossessione della tecnica lo possieda e lo stringa in pugno…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione