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L’eresia è al potere perché i teologi hanno il potere

A dirlo non è uno qualsiasi, ma un sacerdote e un teologo di tutto rispetto: monsignor Antonio Livi, una delle menti più brillanti e più preparate nel panorama, non troppo confortante in verità, della teologia cattolica dei nostri giorni, ove ormai quasi chiunque può autonominarsi esperto e mettersi a dire e scrivere le cose più inverosimili, le più sconcertanti e lontane dalla vera e sola dottrina cattolica, senza che nessuno ci trovi qualcosa di strano e, soprattutto, senza che l’autorità ecclesiastica si sogni d’intervenire. Assistiamo al paradosso di professori di teologia che riempiono la testa dei loro studenti con teorie azzardate, temerarie, eterodosse, senza che i loro superiori muovano ciglio e senza che i loro vescovi sentano il minimo dovere d’intervenire; in compenso, quegli stessi teologi rispondono a colpi di querela alla magistratura contro chi si permette di far notare che quanto essi vanno dicendo e insegnando non è per nulla cattolico, anzi, in certi casi è addirittura blasfemo, o fortemente sospetto di blasfemia.

Il male parte, ancora una volta, dal Concilio Vaticano II, allorché venne concesso ai teologi un potere amplissimo, quale non avevano mai goduto in millenovecento anni di storia della Chiesa. Mai, fino al 1962, i teologi si erano permessi d’insegnare la dottrina ai vescovi: e si potrebbero citare parecchi episodi, da quello di Abelardo a quello di Teilhard de Chardin, a dimostrazione di ciò. Sempre la Chiesa è stata governata dal clero; sempre i papi e i vescovi hanno preteso e ottenuto che i teologi fossero al servizio della fede e non contro di essa, neppure nella forma blanda e "liberale" del dubbio, dell’insinuazione, della "demitizzazione". Ma poi è arrivato il conclave del 1958, è stato eletto Giovani XXIII; e Giovanni XXIII non solo ha convocato il concilio ecumenico, pur sapendo benissimo i rischi che ciò comportava, data la particolare situazione storica che si era venuta a determinare, fuori e soprattutto dentro la Chiesa; ma nel Concilio egli ha permesso che i teologi, con il sinistro Rahner alla testa, prendessero addirittura le redini dei lavori, fissassero le linee programmatiche della grande assise. Il trucco c’era, ed era trasparente: si era detto, fin dal principio, che si trattava di un concilio di carattere puramente pastorale; e quale pericolo poteva mai venire alla dottrina da un concilio pastorale, che si sarebbe occupato solo di cose pastorali, vale a dire della dimensione pratica della fede, della sua organizzazione, della sua predicazione? Ma era un autentico cavallo di Troia, neanche tanto dissimulato: perché è evidente che la stessa convocazione di un concilio puramente pastorale, fatto assolutamente inedito, per non dire inaudito, poneva la dottrina sotto l’ipoteca della prassi: come pensare che tutti i vescovi cattolici del mondo si sarebbero riuniti a Roma, e avrebbero lavorato per più di tre anni, senza che i loro documenti, le vie da loro tracciate, avrebbero avuto ricadute fortissime sulla dottrina medesima? Difatti, quel che è accaduto è che, da allora, si è verificato un vero e proprio capovolgimento: non la dottrina ha guidato la pastorale, ma la pastorale ha preteso, sempre più, di guidare la dottrina. Verso dove? Ormai possiamo dirlo, perché è il segreto di Pulcinella: verso l’eresia e verso l’apostasia generalizzata dalla fede, sotto il nefasto impulso dei teologi e per opera del clero stesso, o di una parte importante di esso. In pratica, è dal vertice della Chiesa che si è mossa questa deriva ereticale: proprio come aveva predetto la Santa Vergine Maria, ai due pastorelli di La Salette, nel 1846: Roma perderà la fede e diverrà la sede dell’Anticristo. Solo così, con questa chiave di lettura, molto triste, ma obiettiva, si possono comprendere tutta una serie di fatti, sempre più sconcertanti, sempre più intollerabili, che si verificano ormai pressoché quotidianamente nella Chiesa cattolica, e di fronte ai quali qualcuno ha ancora l’ingenuità di "stupirsi" perché l’autorità non interviene a ristabilire verità e chiarezza, non interviene la Congregazione per la Dottrina della Fede e non interviene neppure il Santo Padre in persona, quando pure ciò appare conveniente e necessario. Un esempio fra i mille? Il comportamento, ormai abituale, del cardinale di Bruxelles, Jozef De Kesel, il quale, dopo aver stroncato una fiorente comunità religiosa, la Fraternità dei Santi Apostoli, afferma che la Chiesa deve riconoscere gli omosessuali anche nella esplicitazione della loro sessualità, vale a dire che deve derubricare la sodomia dalla lista dei peccati e proclamarla cosa buona e giusta davanti a Dio e davanti agli uomini.

In una intervista registrata nello scorso mese di aprile del 2018, che può essere fruita sul sito https://gloria.tv/video/xZKemv4TKceC18ooNg6Yu1MCH, e ripresa da vari altri siti cattolici, fra i quali https://apostatisidiventa.blogspot.it, il teologo Antonio Livi, fra le altre cose, afferma:

D. Lei ha parlato di eresia al potere. Che cosa intende?

R. Intendo non di persone che professino l’eresia formalmente, perché questa sarebbero tutte… se fossero autorità ecclesiastiche, sarebbero scomunicate, perderebbero il loro ruolo, il loro prestigio; ma eresie che sono formalmente e insistentemente professate dai teologi, i quali hanno avuto molto potere, all’inizio del Concilio vaticano II, per merito o per colpa di Giovanni XXIII, e poi nel dopo concilio; perché tutti i papi del dopo Concilio hanno continuato a trattare con rispetto i teologi eretici. Addirittura alcuni, come Benedetto XVI, da una parte, come prefetto della Congregazione per la Dottrina e della Fede, e come papa, mantenevano una posizione giustamente ortodossa, e anche pia, di adorazione di Dio e di rispetto della sacralità dell’Incarnazione; però poi, affettivamente, erano molto uniti a questi teologi. Quando Benedetto XVI, da papa, parla di Karl Rahner, dice semplicemente che erano tutti e due d’accordo nell’aiutare i vescovi a fare il Concilio in una certa direzione, quella orribile, e poi si sono separati solo per certe diversità… E poi, addirittura, Benedetto XVI, da papa, ha ricevuto pubblicamente Hans Küng. Francesco, addirittura, ha detto che Hans Kung gli ha chiesto di cambiare il dogma dell’infallibilità e ha risposto: sì, ci penseremo. Voglio dire, tutti i papi hanno avuto non un atteggiamento severo e di condanna dei teologi, ma un atteggiamento di stima e di comprensione. Voglio precisare, però, che io non ho mai fatto una condanna filosofica e teologica delle persone, nemmeno dei papi e tanto meno dei teologi. Io condanno le proposizioni, le teorie, perché quelle sono oggettive. Le intenzioni e i legami con la personalità non m’interesano, perché come logico io posso solo esaminare una proposizione, un metodo; e lì dico delle cose che sono assolutamente vere e inoppugnabili. È la seconda volta che dico questa cosa perché è vera, perché è così. Però, nel criticare le tendenze ereticali di benedetto XVI, io non ignoro che lui era un santo, e che lui poi ha fatto tante altre cose buone nella pastorale, per la Chiesa, e che ha sempre avuto buone intenzioni. Però questo non toglie che lui abbia professato simpatia per il neomodernismo, che consiste essenzialmente in due cose: ignorare la metafisica, e voler esplicare il dogma con categorie esistenziali e fenomenologiche; e poi, secondo, che è una cosa terribile, molto brutta, ignorare le premesse razionali della fede, ossia quelle che Tommaso chiama i "preambula fidei", per cui quando si parla di Dio c’è solo la fede in Dio, non c’è il sapere che c’è Dio come il dogma del Vaticano I afferma, consolidando tutta la dottrina della Chiesa.

D. Giovanni XXIII ha detto che la Chiesa non condanna nessuno; ma oggi l’eresia al potere condanna quelli difendono la dottrina cattolica. Che cosa è successo?

R. Te l’ho già spiegato. L’eresia al potere significa che, da Giovanni XXIII, c’è l’idea che la pastorale, questa è la parola chiave, la pastorale della Chiesa consista nel tradurre il dogma in un linguaggio comprensibile e accettabile per l’uomo moderno, il che è tutto un mito, tutta una fantasia; e poi consista nel trovare il bene anche nelle posizioni teoretiche più contrarie al dogma stesso. Questa è una pastorale; come pastorale io ritengo che sia sbagliata e nociva alla Chiesa; però è pastorale, pertanto è un’attività, non è un pensiero, non è una teoria; infatti non c’è una teoria di Giovanni XXIII; è solo una prassi. Una prassi che io ritengo sbagliata, però la prassi del papa, o del concilio, non è sorretta dall’infallibilità, come la dottrina; la prassi può essere sbagliata, perché è un atto prudenziale che può essere giudicato sbagliato da altri giudizi prudenziali, che sono per esempio i miei; che non sono giudizi che abbiano l’infallibilità nemmeno loro; e pertanto, quando io critico tutta questa pastorale, che mi sembra disastrosa, uso sempre avverbi e aggettivi e verbi che fanno capire che sono opinioni; io ho l’opinione che questa pastorale sia disastrosa, io non la pratico; però poi Dio giudicherà. Perché non c’è nulla di dogmatico nel giudicare una pastorale, se è opportuna o non è opportuna. Fanno male quelli che la pastorale del Concilio e dei papi successivi la considerano invece dogmaticamente l’unica necessaria, e parlano di "nuova Pentecoste della Chiesa" e parlano dello Spirito Santo dell’evento, di eventi dello Spirito Santo; come se questi giudizi prudenziali, che io reputo sbagliati, fossero invece dogmaticamente infallibili, e anzi santi, e anzi l’unica cosa che la Chiesa possa fare. Per questo poi c’è una oppressione riguardo a quelli che criticano; criticano una opinione legittima in nome di una opinione illegittima. L’opinione illegittima è pensare che la Chiesa debba per forza fare questo tipo di pastorale, che poi è basata su cose assurde. Cioè, "l’uomo moderno" non esiste; esistono tanti "uomini moderni", anche nell’Europa. La cultura della Polonia, dell’Ungheria, della Slovenia, e quella di Parigi, sono completamente diverse. E invece tutti pensano che l’uomo moderno sia il parigino, sia Frankfurt, sono cose assurde… L’uomo moderno che ignora tutta l’Africa, tutta l’America Latina, gran parte dell’Asia; questo "uomo moderno" che poi ignora che nelle coscienze di tutti gli uomini c’è molto di più di quello che appare sui giornali, sulle riviste, sulle pubblicazioni accademiche. Pensare che l’uomo moderno è ateo, io sono sicuro che è falso, perché la certezza che c’è Dio, ce l’ha: in base al senso comune, come lo chiamo io, ogni uomo sa che c’è Dio. Poi magari fugge da lui, magari; poi magari trova degli aridi intellettuali; ma che c’è Dio, lo sanno tutti. Un pastore di anime, uno che confessa i moribondi, lo sa benissimo…

È un’intervista interessantissima e, per molti aspetti, illuminante. Alla domanda, poi, se la teologia di Benedetto XVI possa costituire una via per uscire dalla crisi, la risposta di monsignor Livi è netta: assolutamente no. Dopo aver ricordato nuovamente il legame fra Ratzinger e Hans Küng, egli ricorda che Ratzinger era inficiato, sin dai tempi del Concilio, da una cultura cattolica succube della teologia protestante; e ciò era evidente dalla sua volontà di combattere la Scolastica, e dalla sua lotta contro i preambula fidei, passando direttamente dall’ateismo alla fede e riducendo la fede stessa a una cosa puramente interiore ed emozionale, spogliandola della dimensione razionale e dottrinale: il che è una subordinazione al protestantesimo, oltretutto formalmente contraddetta dal Concilio Vaticano I. Come papa, poi, Livi rimprovera Benedetto XVI di aver fatto molta teologia e poco magistero; ma, in tal modo, egli si è messo al livello di altri teologi, togliendo al magistero la sua naturale funzione dogmatica e di orientamento pastorale, di confutazione degli errori. Gli rimprovera di aver fatto poco, pochissimo per guidare i fedeli e fare chiarezza dottrinale, e di aver sprecato mesi e mesi per continuare a scrivere libri di teologia. In questa coraggiosa intervista, come in vari suoi scritti, monsignor Livi conferma di essere uno dei pochi teologi che, in questo momento di caos e di anarchia dottrinale, ha conservato la testa sulle spalle e sa vedere e giudicare quel che accade nella Chiesa con molta lucidità e onestà intellettuale. La sua analisi critica dei fenomeni degenerativi che oggi hanno raggiunto livelli macroscopici parte da lontano, e giunge allo stesso punto cui è giunta anche quella che, da anni, noi pure andiamo sviluppando: al Concilio Vaticano II. È quello il punto di svolta, il momento chiave in cui, sotto i manti trionfalistici di un "rinnovamento" tanto vago quanto teologicamente ambiguo, si è infiltrata l’eresia e ha continuato a rodere, come un tarlo nel legno, durante tutti i sei pontificati successivi, fino a oggi. L’errore conciliare è un errore di fondo: come osserva Antonio Livi, non esiste un "uomo moderno" e quindi è assurdo voler costruire una pastorale sulla sua misura. Non c’è niente da fare: le aberrazioni del neoclero odierno partono dalla anomalia di un concilio che, in nome della pastorale, pretese di rifare la dottrina, e alla cui testa si pose un manipolo di teologi estremisti, capitanati da Karl Rahner; proprio come la deriva permissiva, nichilista e autodistruttiva della società civile parte del vento di follia degli anni ’60 e specialmente dal "mitico" ’68, con le sue deliranti parole d’ordine: la fantasia al potere e proibito proibire. Oggi vediamo le tragiche conseguenze di quegli anni di follia, sia nella società, sia nella Chiesa: lo sbandamento totale, il disorientamento eretto a sistema, il tradimento di chi dovrebbe guidare nei confronti di coloro che devono essere guidati. Per uscire dal vicolo cieco, bisogna risalire ben più indietro della teologia di Benedetto XVI: bisogna tornare alla Messa tridentina e alla Chiesa pre-conciliare. Chi non ha capito questo, non ha capito nulla; e chi spera di poter evitare questo nodo, somiglia a un malato di tumore che voglia curarsi con l’aspirina…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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