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21 Aprile 2018Di due cose, fondamentalmente, abbiamo paura: della nostra parte peggiore e della nostra parte migliore. La prima ci fa paura perché non sappiamo quanto in basso potremmo inabissarci, la seconda perché non sappiamo fino a quali altezze potremmo elevarci; e di entrambe perché intuiamo che dentro di noi abita uno sconosciuto, del quale il nostro io attuale non è che l’involucro esterno, la maschera temporanea, che potrebbe saltare in qualsiasi momento, e lasciarci stupiti, inorriditi come all’inferno oppure rapiti in cielo. In fondo sappiamo, e lo abbiamo sempre saputo, che non sono le cose esterne a farci paura: che la paura nasce da un senso di vertigine davanti all’ignoto, e che l’ignoto più grande e misterioso di ogni altro è quello che alberga nelle nostre profondità, non nella dimensione esterna.
Gli uomini superficiali non vi prestano attenzione, ma gli uomini profondi — profondi nel bene o anche nel male — sono tanto più spaventati, quanto più si affacciano sull’orlo della voragine che si spalanca in fondo all’anima di ciascuno di noi; e la loro maggiore angoscia, rispetto a tutti gli altri, nasce dalla solitudine psicologica in cui si trovano: sanno, infatti, di essere soli, del tutto soli di fronte a un grande, a un immenso mistero, e sanno che nessun altro è lì, né potrebbe mai essere lì, accanto a loro, anche se fisicamente qualcuno c’è — mogli, figli, amici — ma non conta, anzi, è perfino peggio, perché la presenza fisica degli altri fa risaltare con tanta maggiore evidenza la condizione di assoluto isolamento effettivo nel quale essi si trovano. Come condividere con gli uomini banali, che vivono in superficie, che si accontentano dell’evidenza e della immediatezza, che ciascuna anima è qualcosa d’immenso, d’inimmaginabile, e che, quando lo si comprende e ci si avvicina alla soglia di quel mistero, si provano letteralmente le vertigini, e si è tentati di ritrarsi con un brivido di terrore? Sì, di terrore: e questo accade sia quando la chiamata viene dal basso, sia quando viene dall’alto: perché, sulle prime specialmente, l’uomo non può non sentirsi smarrito, e quindi terrorizzato, misurando in un istante le immense profondità che gli si spalancano davanti. Il terrore, infatti, è la conseguenza dello smarrimento: quando non si sa più dove si è, dove sono l’alto e il basso, il prima e il dopo, quello è il terrore. Il terrore scaturisce dal fatto che l’anima si trova faccia a faccia con ciò che è radicalmente, totalmente altro, con ciò che non si hanno criteri né parole per descrivere, che esorbita da qualunque nostra conoscenza o possibilità: per esempio, l’incontro con una creatura proveniente da un altro mondo; oppure svegliarsi completamente al buio, chiusi in un ambiente estraneo, come in certi racconti di Edgar Allan Poe, e non capire se si ci si trova in uno spazio minuscolo o immenso, un una bara — sepolti vivi — o in una caverna e s’ignora se sia giorno o notte, presto o tardi, se si è del tutto soli o vicino ad altri esseri umani, o chissà quali altre creature: tutto questo è terrorizzante, perché, non consentendo di prendere le misure della situazione in cui ci si trova, ci si sente nudi e indifesi.
Ora, l’anima si sente impotente e disarmata quando intuisce le immense e inesplorate possibilità che giacciono al proprio fondo; quando intuisce che nessuna delle precedenti esperienze, e perfino nessuna fantasia o immaginazione, potrebbe spingersi così lontano, quanto potrà spingersi lei, se si lascerà afferrare e trasportare da un richiamo altro, proveniente non da questa dimensione terrena, che bene o male, ella conosce, o almeno immagina, ma da un’altra dimensione, quella del cielo o quella dell’inferno, delle quali non sa praticamente nulla, se non forse ciò che ha letto o sentito dire, mai però sperimentato, se non in qualche fuggevole istante di vertigine, subito rimossa dalla memoria, proprio per la sua carica destabilizzante. Ci piace riportare qui un pensiero della psicologa Frances E. Vaughan, contenuto nel suo libro Risvegliare l’intuizione, per "essere" di più (titolo originale: Awakening intuition, New York, Anchor Academic Publishing, 1979; traduzione dall’inglese di Anna Rita Vignati Lucentini, Assisi, Cittadella, 1986, p. 138):
Abraham Maslow ha richiamato la nostra attenzione sul fatto che noi temiamo le nostre possibilità più elevate come pure quelle più infime. Maslow chiamò questa resistenza ad accettare la responsabilità di sviluppare le potenzialità non usate una "evasione dal destino" o "la fuga dalle proprie qualità migliori" (A. Maslow, "The Fartrer Resarch of Human nature, Viking, New York, 1971, pag. 35). Nelle fantasie è possibile rendersi conto facilmente che la paura può essere stimolata non soltanto da un senso di disastro imminente ma anche da sentimenti di meraviglia e riverente timore.
Lasciamo da parte, in questa sede, la paura delle nostre possibilità più infime, di poterci degradare, di poter infrangere le barriere della morale, di poterci abbandonare al nostro lato più oscuro e riprovevole; e consideriamo la paura opposta, quella di dare ascolto alla chiamata dall’alto e di mettere in luce le nostre possibilità più elevate. Anche questa è una paura vera e propria: la paura di perderci chissà dove, di lasciarci suggestionare da vane speranze, d’illuderci e sopravvalutare ciò che realmente possiamo fare; e perciò la paura di fallire miseramente, di non trovare più la strada per tornare indietro, di non riuscire a scorgere alcuna via d’uscita onorevole nei confronti di impegni che potrebbero rivelarsi molto al di sopra delle nostre forze, creando delusione negli altri, con il risultato di renderci ridicoli o, peggio, patetici. Perché una cosa è fallire mentre si cercava di fare ciò che è necessario; ma puntare in alto, e poi non esser capaci di andare sino in fondo, è cosa assai peggiore, tale da provocare un profondo senso di frustrazione e di umiliazione: si teme di essere giudicati, di suscitare pietà o disprezzo, e, in tutti i casi, di non essere capiti, neanche dalle persone più care. Ma perché diavolo si sarà messo in un tale impiccio?, penseranno gli altri; o, almeno, questo è quel che si teme che essi potrebbero pensare.
Tuttavia, quando si ode la voce della chiamata, alla lunga è difficile resisterle. Certo, vi sono persone che sanno convivere con il senso di colpa per non ave risposto, per aver fatto finta di nulla; persone che non provano vergogna, né rimorso, per essere evase, come dice Maslow, dal loro destino, o per essere fuggite dalle loro qualità migliori. Non tutti, però, ne sono capaci; e, in particolare, non ne sono capaci le persone migliori, le più oneste con se stesse e con la vita: quelle che sanno, e sia pure confusamente, che ciascuno è chiamato a fare qualcosa di buono, a realizzare un disegno armonioso, e che sottrarsi ad esso è una vera e propria forma di diserzione, e pertanto una manifestazione d’inescusabile vigliaccheria. Ora, le persone migliori hanno anche in sé, potenzialmente, le qualità migliori: perciò, per una naturale attrazione fra i simili, sono proprio quelle che, prima o poi, si lasciano persuadere dalla chiamata, e mettono da parte le titubanze, per consentire alla loro parte più elevata di emergere e di prendere interamente la direzione della vita interiore. A partire da quel momento, in genere esse guardano in avanti e non misurano più le loro azioni con il metro che adoperavano prima: hanno accettato di entrare in una dimensione superiore, dove vigono altre leggi e dove ciò che si chiede loro è molto più impegnativo di ciò che facevano prima, ma anche il senso di completezza e armonia con se stessi si rivela maggiore e più appagante. In breve, tali anime non potrebbero neanche immaginare di riprendere la vita anteriore: somigliano a un prigioniero il quale, dopo essere riuscito a evadere da un buio e maleodorante carcere sotterraneo, è salito ai piani superiori del palazzo, pieni di aria e di luce, e con un vasto e bellissimo giardino che s’intravvede dai vetri dei balconi, e che per nulla al mondo consentirebbe a ridiscende le scale per tornare a rinchiudersi nei locali sotterranei.
Non a tutti succede di ricevere una chiamata così chiara ed esplicita, così spettacolare come quella di san Paolo sulla via di Damasco; d’altra parte, è certo che la chiarezza della chiamata è direttamente proporzionale alle potenzialità di ciascuno, e anche al suo livello di evoluzione interiore; per cui chi ha grandi potenzialità ed è abbastanza avanti nel percorso dell’autocoscienza, la udrà con maggior forza di chi è più indietro o non ha grandi potenzialità. Dire che esistono potenzialità diverse non equivale a una forma di determinismo, perché le potenzialità sono una cosa, e la loro esplicazione un’altra: ciò che si può vedere e giudicare dall’esterno è solo l’esplicazione, per cui anche chi ha minori potenzialità, se le esplica sino in fondo, può fare grandi cose, forse cose assai maggiori di colui che, pur avendo delle potenzialità notevolissime, non si decide a tradurle in azione concreta, o la fa solo timidamente, in una misura minima. E se questo è vero a livello materiale, ad esempio professionale o sportivo, e anche a livello intellettuale, come nel caso di un artista o di un pensatore, a maggior ragione lo è per la sfera spirituale e morale: qui, infatti, perfino un bambino o una bambina di sei anni possono fare cose grandi se ascoltano la chiamata, superando di molto degli adulti meno generosi di loro nell’ascoltare e nel mettere in pratica l’invito che scende dall’alto. Di fatto, la storia della religione cattolica è piena di Santi fanciulli, i quali, in una maniera che all’occhio esterno rimane sigillata, e perciò misteriosa, hanno saputo accogliere con ammirevole entusiasmo l’invito ad essi rivolto, e hanno tracciato una strada che i loro stessi genitori hanno potuto solo ammirare da lontano.
Ora si tratta di domandarsi se sia possibile che qualcuno fraintenda la propria chiamata, che non ne comprenda il significato, che realmente s’inganni quanto alla via che gli viene indicata. Infatti, se si desse realmente una simile eventualità, si tratterebbe di una beffa atroce, la peggiore in cui possa incappare e fare naufragio la vita di un essere umano. Ma è possibile, una cosa del genere? A ben guardare, ci si accorge che non è possibile fraintendere la chiamata: se qualcuno, a causa di essa, viene portato fuori strada, ciò dipende dal fatto che ha scambiato la chiamata dal basso con quella dall’alto; e che già il solo fatto di aver potuto cadere in una tale confusione attesta che costui non aspirava alle altezze, ma anelava segretamente a sprofondarsi nei tenebrosi abissi del male. È sempre valida l’aurea legge secondo la quale l’albero buono non potrà mai produrre frutti cattivi, né l’albero cattivo frutti buoni. Non può accadere che un’anima disposta al bene scambi le tenebre per la luce: il demonio può, talvolta, assumere le sembianze di un angelo, ma non lo può fare oltre un certo limite: il puzzo dell’inferno, prima o poi, tradisce la sua vera identità, e anche l’anima più sprovveduta, se davvero desidera il bene, se ne accorge e si ritrae con orrore, né si lascia ingannare e manipolare per sempre. Se ciò, invece, accade, significa che il profondo e autentico desiderio di lei era quello d’essere ingannata: la vita non è una beffa, né una commedia, né un’ironia, come hanno immaginato certe anime disperate, mal consigliate dalla loro stessa disperazione. Se avessero considerato meglio la cosa, e soprattutto se avessero osservato meglio gli uomini e le loro azioni, le quali, a differenza delle parole, non riescono a mentire a lungo, ma rivelano i desideri dell’anima, si sarebbero rese conto che la vita è una cosa seria e volerla abbassare al livello di una farsa è già di per sé rivelatore di un cattivo uso dell’intelligenza, la quale può anche essere acuta nei particolari, ma terribilmente ottusa nello sguardo d’insieme. E la causa principale di una tale ottusità è, quasi sempre, la superbia: perché la persona superba non possiede abbastanza grandezza da sapersi fare piccola e adorare in ginocchio, ma, standosene ben ritta in piedi, pretende di giudicare l’universo intero sul metro del proprio orgoglio e della propria impazienza: e l’impazienza e l’orgoglio sono sempre pessimi consiglieri su qualsiasi cosa. Nulla si può comprendere senza umiltà e senza capacità di ascolto: e chi non sa farsi piccolo non sa ascoltare, perché è troppo impegnato ad ascoltar la propria voce, trancia giudizi prima d’aver capito e, come un fanciullo inesperto, scambia le apparenze per la realtà. Questo è l’errore tragico di Faust, e l’uomo moderno è un uomo faustiano: crede di essere più furbo del diavolo e s’illude di poterlo ingannare, mentre è vero il contrario: che egli, a fronte del diavolo, è meno di un fanciullo ingenuo, e tutta la sua orgogliosa intelligenza non è che il laccio con cui verrà legato e ridotto all’impotenza.
Di che cosa, dunque, è giusto e naturale aver paura? Non certo della chiamata, ma, semmai, della nostra sordità alla chiamata. La chiamata, quella vera, è sempre buona, viene sempre dall’alto: se non le si presta orecchio, si vive una vita mancata, la peggior disavventura che possa capitare a un essere umano, simile a quella di un seme che non riesca a germogliare, di un fiore che non sia capace di sbocciare. L’altra, la chiamata del nemico, è come il canto delle Sirene: facile da udire ed estremamente seducente, ma solo le anime inclinate al male le danno ascolto e se ne lasciano sviare. Perché la vita, ripetiamo, è una cosa seria: non consiste nel lasciarsi sedurre e carezzare da piacevoli emozioni. Anche grattarsi la scabbia, per uno scabbioso — l’osservazione è di Socrate — dà un senso di piacere; ma voler trascorre la vita a grattarsi non è degno d’un essere umano. Noi siamo fatti per le altezze: siamo chiamati a germogliare come il seme, a sbocciare come il fiore: abbiamo l’istinto della luce. In ciò è la nostra grandezza: ma per diventare grandi, bisogna prima sapersi fare piccoli…
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