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Dobbiamo rimettere la fedeltà all’ordine del giorno

La crisi che stiamo vivendo non è solo economica e finanziaria; è, prima di tutto, morale e spirituale: è una crisi di civiltà. È la civiltà moderna che sta implodendo, com’era largamente prevedibile, essendo fondata non su valori spirituali, ma unicamente su acquisizioni materiali: scientifiche, tecniche, finanziarie. È una anti-civiltà che sta arrivando al capolinea: sta cadendo a pezzi, letteralmente, anche se le sue classi dirigenti e la sua intellighenzia continuano, in buona o in cattiva fede, a rassicurare, a mostrar ottimismo, a parlare di progresso: quel progresso sulla cui mitologia era stata fondata sin dall’inizio. Ma era una parola vuota, e ora anche un bambino lo può vedere con chiarezza. Non ha senso parlare di progresso quando si tratta solo di perfezionamento materiale, specie se questo si accompagna a un vero e proprio regresso spirituale. E che un regresso spirituale ci sia stato, è cosa che possiamo vedere e toccare con mano. Ci siamo letteralmente imbarbariti: figli che si ribellano ai genitori, studenti che maltrattano i loro insegnanti, legislatori che puniscono i cittadini onesti e premiano i disonesti, magistrati che raddoppiano l’iniquo trattamento e fanno sentire inutili e inadeguati i fedeli servitori dello Stato, baldanzosi e sempre più aggressivi gli elementi perturbatori dell’ordine e della sicurezza.

Ecco, abbiamo sfiorato un concetto-chiave: quello della fedeltà. Se si volesse individuare il concetto fondamentale su cui la società si regge, e senza il quale nessuna società potrebbe durare a lungo, diremmo senz’altro: la fedeltà. Il che vale anche per la prima, la più piccola e la più preziosa delle società umane, quella sulle cui spalle si regge tutto il resto: la famiglia. La famiglia naturale e possibilmente la famiglia cristiana, formata da un padre e una madre e da alcuni bambini, se Dio, al quale i due sposi si sono affidati, li ha concessi loro. Questa e non altro è la famiglia; inutile precisare che le cosiddette "famiglie arcobaleno" sono delle oscene contraffazioni della vera e unica famiglia che la nostra autentica civiltà, ossia la civiltà europea che ha preceduto il nascere di quella moderna, abbia mai conosciuto. Non ce ne sono altre e non ce ne saranno mai altre, se non nella finzione di una legislazione e di una magistratura le quali se ne vanno per conto loro, impazzite o asservite ad oscuri poteri, senza minimamente tener conto di ciò che è giusto e buono, di ciò che è vero e santo, anzi, quasi incalzate da una smania di distruzione che ha qualcosa di realmente diabolico. Senza la fedeltà, una famiglia non si regge: la fedeltà dei membri l’uno verso l’altro, e di tutti verso un bene superiore e immateriale, nel quale vi è anche il bene dei singoli, ma non assolutizzato, non innalzato al livello di un "diritto" a senso unico, egoista e tirannico: un bene che i cattolici chiamano Dio, perché in Dio sono compresi tutti gli altri beni, mentre, senza di Lui, nessun bene è veramente tale, anche se può sembrarlo a uno sguardo distratto. La famiglia cristiana, infatti, si regge sul sacramento del matrimonio, non su un contratto firmato davanti al sindaco, che è cosa tutta umana e che si può rescindere in qualsiasi momento; per non parlare delle "unioni di fatto", comprese quelle omosessuali, ora assurdamente equiparate al matrimonio, sebbene sia evidente, a chi la voglia vedere, l’incongruenza di chi vuol vivere con una persona senza assumere impegni durevoli, e tuttavia pretende di avere gli stessi benefici di legge che sono previsti nei confronti di una unione durevole.

La fedeltà era, senza dubbio, la prima qualità morale richiesta nella società feudale; e, in un certo senso, continuò ad esserlo fino a che sopravvisse l’Ancien Régime. Con l’avvento della rivoluzione industriale e della rivoluzione politica di matrice liberale e democratica, essa è velocemente scivolata indietro nell’ordine delle qualità richieste al buon cittadino, sostituita da altre, più materiali, come il senso degli affari, la capacità di risparmio, l’abilità e la spregiudicatezza nella amministrazione del patrimonio, il lavoro e la produzione come fine a se stessi, infine la padronanza della tecnica. Con la fedeltà si è compreso che non si va avanti, non si fa carriera, non si combinano buoni affari, non si entra nelle grazie della gente che conta; perciò è stata silenziosamente e discretamente messa in cantina, in qualche vecchio baule, da dove è poco probabile che a qualcuno venga l’idea di tirarla fuori, un giorno o l’altro. Semplicemente, non serve più; anzi, è divenuta perfino d’intralcio a chi voglia aprirsi la strada nella vita, in questa nostra civiltà moderna che, appunto, forse non è nemmeno una civiltà, ma il contrario di quel che una civiltà deve essere: costruzione di valori e non solo produzione di beni.

Ma che cos’è la fedeltà? Ne daremo una definizione molto pratica: la fedeltà è promettere a qualcuno o a qualcosa: Io non ti lascerò mai solo; qualsiasi cosa dovesse accadere, io ti starò sempre al fianco e mi prenderò cura di te. A qualcuno o a qualcosa: perché la fedeltà si esplica nei confronti delle persone, ma anche nei confronti dei valori, benché questo aspetto sia stato quasi del tutto dimenticato. La fedeltà alla bandiera, per esempio, è, o meglio era, parte essenziale del codice di un soldato o di un marinaio: e vi sono stati dei soldati i quali si sono fatti uccidere per difendere sino all’ultimo la bandiera del reggimento, e marinai i quali hanno preferito affondare con la loro nave, le bandiere di guerra spiegate al vento, piuttosto che mettersi in salvo, abbandonando ciò a cui avevano giurato perenne fedeltà (cfr. i nostri articoli: Bisogna tenere alto lo stendardo nella palude vischiosa del nichilismo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/10/13, e Un giuramento non può essere sciolto, perché non riguarda solo i vivi, ma anche i morti, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 14/01/2018). È difficile tentar di spiegare queste cose a un giovane dei nostri giorni; non le capirebbe. Peggio ancora: penserebbe che si tratta di una mentalità sbagliata, frutto di un’educazione retorica e alienante. Come spiegargli che l’animo umano ha bisogno di fedeltà, che la fedeltà è la sua vera natura, e che, se non si la si esercita verso i valori più alti che danno un senso anche alla vita individuale, fosse pure la più modesta, essa avvizzisce e muore, ma fa imputridire tutta la vita interiore? Un giovane di oggi, il quale sorride ironicamente al pensiero di un fante che rischia la vita per difendere la bandiera, o di un capitano che preferisce colare a picco insieme alla sua nave, per chi o per che cosa sarebbe disposto a offrire la sua vita? Quali sacrifici sarebbe disposto a fare, qualora si trattasse non del suo tornaconto strettamente individuale, ma di un bene collettivo di ordine superiore? La verità è che la mentalità consumista e lo stile di vita americano hanno letteralmente distrutto i valori morali e ridotto le persone ad atomi egoisti e insensibili, preoccupati unicamente di se stessi e indifferenti al bene comune; e, quel che è peggio, infarciti di ragionamenti sofistici, così da essere convinti d’aver pienamente ragione, di aver capito mille cose più dei loro padri e dei loro nonni, ossia che i valori morali non esistono, sono solo un inganno di classe; che la verità non esiste; che tutto è relativo e non c’è nulla per cui valga la pena di rischiare qualcosa, se non il proprio interesse.

La fedeltà, dunque, è essenzialmente una promessa; di più: è una promessa solenne, in nome dell’Assoluto, quindi un sacro giuramento. I tempi possono cambiare e le regole possono mutare, ma il giuramento è una cosa che resta. Se non che, la civiltà moderna è fondata non sulla stabilità, ma sul continuo mutamento: è la prima civiltà in cui la stabilità non sia considerata più un valore, ma un intralcio. È la civiltà della trasformazione incessante, della velocità, del mutamento eretto a normalità delle cose: mutano i modi di produzione, gli stili di vita, i sistemi di pensiero e perfino i codici morali. Un tempo, la mutevolezza era considerata un difetto: ora è la massima delle virtù. Mutare vuol dire sapersi adattare; e in una società dove ogni cosa cambia di anno in anno, di mese in mese, di giorno in giorno, chi non sa adattarsi è destinato a perire, e, inoltre, è considerato un inutile fardello, un peso che ritarda lo sviluppo. Ecco perché i saperi tradizionali, anche quelli di ordine pratico, ad esempio le tecniche artigianali, stanno scomparendo: non servono più, nessuno sa che farsene. Le cose prodotte dall’industria moderna non sono fatte per durare, ma per essere continuamente sostituite da altre cose, più sofisticate e più costose. La durata degli oggetti diventerebbe un problema: bisogna che essi durino poco, altrimenti vi sarebbe una crisi nella produzione, e tutto il sistema si basa sull’immissione di sempre nuovi articoli su un mercato già saturo. Un’automobile, un frigorifero, una lavatrice, un computer o un telefonino che durassero più di qualche anno, sarebbero un problema per l’intero sistema economico e produttivo. Nello stesso tempo, una società del genere ha bisogno di persone disposte a rivedere continuamente le loro convinzioni, a modificare le loro idee, a capovolgere i propri punti di vista. In una società come questa, non è più una virtù conservare fino a sabato ciò che si riteneva giusto il lunedì: la fedeltà ai valori, ripetiamo, diventa un elemento di ritardo, un sasso che inceppa il meccanismo ben oliato del mutamento. Questa è una società fatta a misura di camaleonti, non a misura di uomini e donne capaci di fedeltà. La capacità e la volontà di mantenere le promesse, pertanto, finisce di essere una virtù e incomincia a diventare un difetto: esito paradossale di una civiltà paradossale, malata, anti-umana.

Tutto questo è il riflesso di un processo mondiale di natura finanziaria. Il lavoro è stato gradualmente sostituto dal capitale industriale di rendita, e questo, a sua volta, dal capitale finanziario e speculativo, concentrato in un gruppo d’individui sempre più ristretto. Ad una economia sana e naturale, in cui le cose erano scambiate secondo il loro valore effettivo, cioè in base al costo di produzione, è subentrata una società malata di capitalismo di rapina, in cui sono i grandi gruppi industriali a stabilire il costo delle merci, indipendentemente dai loro costi effettivi di produzione: per cui si arriva all’assurdo di un raccolto di pomodori che viene distrutto sotto i cingoli dei trattori, perché l’agricoltore, vendendo i suoi pomodori al prezzo stabilito dal mercato, non solo non ci guadagnerebbe nulla, ma ci perderebbe addirittura. E tutto questo perché dei signori che non hanno lavorato, che non sanno nulla dei reali processi di produzione, che vivono molto lontani dai campi di pomodori, hanno fissato il prezzo di quella merce in base alle quotazioni borsistiche, al solo ed unico fine di guadagnarci sopra senza fare alcuna fatica. Tale è il modello economico del capitalismo selvaggio. Al quale è successa una fase ulteriore, nella quale stiamo vivendo: la fase della finanza di rapina, ove gli stessi produttori sono ridotti al livello dei lavoratori, cioè sono stati impoveriti e proletarizzati, e a fissare i costi delle merci e il costo dei salari non sono più le grandi corporations industriali, ma le maggiori banche mondiali, detentrici di quasi tutta la ricchezza del pianeta: ma, si badi, di una ricchezza puramente virtuale, fatta di titoli e azioni speculative, cioè una ricchezza nominale e illusoria, di cui non esiste il controvalore reale, né in denaro, né, tanto meno, in beni e servizi prodotti. Situazione assurda, ma estremamente concreta: un pugno di super capitalisti finanziari, veri pirati e banditi dell’alta finanza, di miliardari come George Soros, o come i Rockefeller, tengono in pugno il destino, il lavoro, il livello di vita di sette miliardi e più d’individui, ridotti al rango di schiavi consumatori, i quali, però, ignorano di essere schiavi e s’illudono di contare ancora qualcosa, solo perché sono dei consumatori. Quei signori, semplicemente spostando i loro capitali in borsa, cioè semplicemente investendo e disinvestendo le loro ricchezze al momento opportuno, sono in grado di guadagnare cifre astronomiche, mettendo in ginocchio l’economia di interi Stati e interi popoli: i quali, poi, devono ripianare i debiti contratti mediante lavoro reale e sacrifici reali, in cambio di un denaro immaginario che è stato loro erogato o che si sono impegnati a rimborsare. Un colossale sistema di usura di decisioni planetarie, come bene aveva visto e compreso non un economista, ma un grande poeta della metà del XX secolo: Ezra Pound. E sono gli stessi banchieri che ora muovono, finanziandole, enormi ondate di popolazione, al fine di sommergere l’Europa sotto il peso di milioni di africani, al preciso scopo di far ulteriormente abbassare il costo del lavoro e realizzare, così, profitti sempre più grandi, addirittura mostruosi: il tutto sotto le bandiere dell’umanitarismo e della filantropia, nonché proclamando i sacri dogmi della libera circolazione delle persone e delle merci.

In un mondo così, dominato da meccanismi speculativi di questa natura, è evidente che la fedeltà cessa di essere un valore. Il vassallo giurava fedeltà al suo signore, il sacerdote giurava fedeltà a Dio: ma il banchiere del terzo millennio a chi giura fedeltà, se non alla consorteria ristrettissima cui appartiene, alla super massoneria mondiale, formata da pochissime famiglie? Al livello del cittadino comune, la fedeltà è un disvalore perché insegna che le promesse vanno mantenute, i giuramenti vanno rispettati a qualsiasi costo. Ma il capitale finanziario non conosce, né vuole conoscere, promesse e giuramenti: conosce solo il proprio interesse, freddo e spietato come una lama di coltello. Null’altro gl’importa, di null’altro si cura, quand’anche, nelle sue speculazioni, dovesse sacrificare la vita e la sicurezza di milioni e milioni di persone. Cosa sono tutte quelle persone, per esso, se non bestiame da sfruttare, da mungere, da scannare? E allora, ecco perché bisogna rimettere la fedeltà all’ordine del giorno: è il sassolino che può inceppare il diabolico sistema che ci opprime…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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