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Sorpresa!, Bergoglio è un “discepolo” di Evola?

Si può immaginare qualcosa di più lontano, di più opposto, di più totalmente estraneo al pensiero di Julius Evola, il teorico dell’imperialismo pagano, fondato sulla volontà di potenza di una schiera di "eletti", e quello che, per forza di cose, dovrebbe appartenere ad un papa, al capo della Chiesa cattolica, per il quale vi è un solo Re dell’Universo, Gesù Cristo, Figlio di Dio, ed un solo popolo, quello dei suoi seguaci, tutti moralmente eguali perché tutti suoi figli? Eppure…

Ma èartiamo dal principio. Che cos’è un impero? È solo un insieme di territori e di popoli soggetti ad una stessa autorità centrale, che lo governa alla stregua di un ente puramente amministrativo e giuridico; oppure è qualcosa di più, una vera ambizione alla totalità, e, quindi, un superamento dei particolarismi nazionali e culturali? E, in questo secondo caso, che cosa può tenerlo insieme? Evola si faceva queste domande, ed era sollecitato a farsele dalla ideologia fascista, che aveva sempre parlato del "destino imperiale dell’Italia" ancor prima della guerra italo-abissina del 1935; e, nella sua particolare prospettiva filosofica, ch’era quella neopagana, dopo aver risposto affermativamente alla prima, rispondeva alla seconda: l’elemento unificatore dell’impero è di tipo spirituale e consiste in un richiamo alla tradizione. Ma qui sorgeva il problema: quale tradizione, visto che l’impero, per definizione, abbraccia numerose tradizioni, nessuna delle quali può essere sacrificata, senza che l’impero si trasformi in un atto di pura violenza?

Si rilegga quanto scriveva Evola nel saggio del 1937, un anno dopo la proclamazione dell’impero italiano d’Etiopia, nel suo articolo Sulle premesse spirituali dell’Impero (ripubblicato in: J. Evola, Nazionalismo, germanesimo, nazismo, a cura di Renato del Ponte, Genova, Fratelli Melita Editori, 1989, pp. 62-65):

Il problema dell’impero, nella sua espressione più alta, è quello di una organizzazione supernazionale tale, che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nei riguardi della molteplicità etnica e culturale da essa ricompresa.

Così impostato il problema dell’impero ammette due principali soluzioni, che sono quella GIURIDICA e quella SPRITUALE.

Secondo la prima, l’unità dell’impero è quella di una semplice unità politico-amministrativa, di una legge generale di ordine, nel senso più empirico del termine. In questo caso le qualità, le culture e le tradizioni specifiche dei vari popoli raccolti dall’impero non sono lese, per il semplice fatto che l’impero resta , rispetto ad esse, indifferente ed estraneo All’impero, qui, importa la semplice organizzazione politico-amministrativa e la semplice sovranità giuridica. Esso si comporta rispetto ai singoli popoli cos’come lo Stato agnostico, del liberalismo si comporta rispetto ai singoli , ai quali lasciava fare quel che volevano purché certe leggi generali venissero rispettate.

Nei tempi moderni, un esempio caratteristico di impero di questo tipo è l’impero inglese. Da alcuni, per es. dal Bryce, si è voluto stabilire, si è voluto stabilire, a questa stregua, un analogia fra l’impero inglese e quello dell’antica Roma; e anche da noi non sono mancati storici caduti in questo grave errore, per il fatto di aver considerato, nell’antico impero romano, il suo aspetto giuridico e politico, tralasciando, o considerando come irrilevante, ogni presupposto d’ordine superiore, spirituale e religioso. Vero è, invece, che con Roma si delineò già una organizzazione imperiale del SECONDO TIPO, un impero, cioè, corrispondente alla seconda soluzione. È questa la soluzione, nella quale l’unità è determinata dal riferimento a qualcosa di spiritualmente più alto, che non il particolarismo di tutto ciò, che, nei singoli popoli, è condizionato dall’elemento etnico e naturalistico. In Roma antica si ebbe già una realtà di questo genere per una doppia via. In primo luogo, per la presenza di un tipo unico, e di un unico ideale, corrispondente al "civis romanus", il quale non era per nulla, come da alcuni si ritiene, una mera formula giuridica, ma una realtà etnica, un modello umano di validità supernazionale. In secondo luogo Roma pose quel punto trascendete di riferimento di cui dicevamo, attraverso il CULTO IMPERIALE. Il Pantheon romano, come è noto, ospitava i simboli di tutte le fedi e le tradizioni etnico-spirituali delle genti soggette a Roma, che Roma rispettava e perfino tutelava. Ma questa ospitalità e questa protezione avevano per presupposto e per condizione una fedeltà, "fides", d’ordine superiore. Al di là ei simboli religiosi raccolti nel Pantheon, troneggiava il simbolo dell’imperatore, concepito come "nume", come essere divino: esso raffigurava la stessa unità trascende te e spirituale dell’impero, perché l’impero dalla tradizione romana veniva concepito meno come semplice opera umana che come opera di forze dall’alto. La fedeltà a questo simbolo era la condizione. Giurata una tale fedeltà nei termini di un rito sacro, ogni fede o particolare tradizione nei popoli soggetti, sempreché non ledesse o offendesse etica e la legge generale romana, era accolta e rispettata. In questi termini, Roma antica ci ha presentato un esempio di organizzazione imperiale di perenne e universale valore. Basta infatti sostituire alle forme condizionate dal tempo , di una soluzione del genere, altre forme, per allontanare qualsiasi apparenza di anacronismo e per accorgersi che chi, oggi, volesse di nuovo studiare il problema di un impero spirituale, difficilmente saprebbe trovare altre prospettive. Oggi, infatti, molto più anacronistica sarebbe l’idea di una organizzazione super-nazionale basata sull’affermazione di una particolare idea religiosa, sia pure quella cristiana. Non vi è chi possa sensatamente pensare, oggi, all’attualità e al ritorno di un impero sul tipo di quello spagnolo, supercattolico e inquisitoriale di Carlo V: ma anche all’infuori di questa formula estremistica, ma pur coerente, altre formule, più vaghe e "intellettuali", di unità supernazionale su base unilateralmente religiosa palesano, di fronte ad un’analisi approfondita, lo stesso difetto. In un grande quadro d’insieme, non si può dimenticare che di tradizioni religiose ne esistono molte, e spesso di dignità e di elevatezza spirituale quasi pari. . Se l’impero dovesse usar violenza su di esse nel realizzare la sua unità definita dall’affermazione e dal riconoscimento di una soltanto di tali fedi, allora è chiaro che noi avremmo dinanzi assai più un esempio di settarismo, che non di universalismo spirituale. (…)

Riconosciuto ciò, il problema generale dei presupposti spirituali dell’impero è di definire il principio, in funzione del quale si può avere, simultaneamente, riconoscimento e superamento si ogni particolare fede religiosa delle nazioni da organizzare. Questo è il punto fondamentale. L’impero, infatti, nel senso vero, può esistere solo se animato da un empito spirituale, da una fede, da qualcosa che si rivolge alle stesse profondità spirituali, dalle quali la stessa religione prende vita. Senza di ciò, non si avrà mai che una creatura di violenza – l’"imperialismo" — e una meccanica, disanimata superstruttura. È perciò necessario captare — se così si può dire — le stesse forze agenti nelle fedi, senza però che queste fedi ne risultino comunque lese, ma invece, integrate e riportate ad un più alto livello. Ora, a tanto, esiste una via: ESSA CI È DISCHIUSA DALLA CONCEZIONE, SECONDO LA QUALE OGNI TRADIZIONE SPIRITUALE E OGNI PARTICOLARE RELIGIONE NON RAPPRESENTA CHE L’ESPRESSIONE VARIA DI UN CONTENUTO UNICO, ANTERIORE E SUPERIORE A CIASCUNA DI TALI ESPRESSIONI. Saper risalire fino a questo contenuto unico e, per dir così, super-tradizionale , significherebbe anche raggiungere una base atta ad affermare una unità che non distrugge, bensì integra, ogni particolare fede e che può definire una "fedeltà" imperiale, nel riferimento, appunto, a quel contenuto superiore. TRASCENDERE, nella sua etimologia latina, significa "superare ascendendo" — epperò in questa parola sarebbe racchiusa tutta l’essenza del problema. (…)

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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