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Siamo diventati figli di nessuno

In questa casa è vietato l’ingresso ai razzisti! Tornate a casa vostra!: questo cartello, con entrambi i punti esclamativi, sta affisso sulla porta della canonica di Pistoia ove don massimo Biancalani ha deciso di dare accoglienza a più di trenta richiedenti asilo: compreso uno che risultava del tutto clandestino e compreso un altro che, nelle ore libere (cioè tutte), se ne andava tranquillo ai giardinetti cittadini a vendere la droga ai ragazzi italiani. Per inciso, il buon prete progressista e misericordioso ha minimizzato quest’ultimo episodio. Lo ha chiamato sempre e solo "un errore" e ha detto che aver trasferito altrove quel "ragazzo" è stato un provvedimento esagerato da parte della magistratura, perché, dopotutto, ci aveva già pensato lui a "prenderlo a calci in culo", sono parole sue, e dunque la lezione doveva essergli bastata: tipico atteggiamento da padreterno che ritiene una quisquilia lo spaccio di droga, da parte di un ospite della sua comunità, un peccatuccio veniale a sistemare il quale ci pensa lui, il buon padre di famiglia, mentre lo Stato non dovrebbe metterci il naso. Il cartello affisso sulla porta, comunque, ha un sapore quasi ironico, se si riflette che i negri, oggi, non si trovano solo dentro i centri di accoglienza — dai quali, peraltro, escono in continuazione, di giorno e anche di notte, con il permesso e senza il permesso, e sciamano nei centri abitati a ubriacarsi e combinarne di tutti i colori – ma sono ormai praticamente padroni dell’intero territorio nazionale. Cioè, se un italiano che non condivide la politica governativa ed ecclesiastica di auto-invasione del nostro Paese (perché il "razzista" cui fa riferimento quel cartello sarebbe costui) volesse tornare a casa propria, ci domandiamo dove diavolo dovrebbe andare. L’Italia non è più la casa degli italiani, ma dei negri; e la Chiesa cattolica non è più la chiesa dei cattolici, ma degli islamici. Il vescovo di Padova, Cipolla, lo aveva detto subito, che lui avrebbe fatto volentieri sparire i simboli cristiani, pur di conservare "l’amicizia" (strana idea dell’amicizia…) con i musulmani; e don Biancalani ha aggiunto che darebbe volentieri ad essi uno spazio dentro la chiesa, perché possano pregare in pace il loro Dio. Tanto – questo è il sottinteso che porta l’imprimatur, a sua volta sottinteso, ma chiarissimo, di papa Francesco – Dio è uno solo: e andare a sottilizzare se sia quello cattolico, o ebreo, o islamico, o chissà cos’altro, è una questione che può interessare solo i cattolici "rigidi", "fanatici", "tradizionalisti" (nel senso spregiativo del’espressione), ma non certo quelli amorevoli e misericordiosi.

Ha detto anche un’altra cosa significativa, don Biancalani: che per noi è una fortuna che ogni giorno sbarchino dei profughi sulle nostre coste, perché la popolazione italiana è in calo e non abbiamo più abbastanza braccia per mandare avanti l’economia, a cominciare dall’agricoltura. Evidentemente, facendo eco al presidente dell’Inps, Tito Boeri, anche lui pensa quanto dovremmo essere grati al cielo per questa invasione, dato che sono gli stranieri a pagarci le pensioni; e, facendo eco a monsignor Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e abate di Pomposa, anche lui pensa che il nostro futuro sia il meticciato: che, guarda caso, coincide con le linee maestre del Piano Kalergi: niente di nuovo sotto il sole, quindi, e, soprattutto, niente di evangelico e di cattolico, al contrario: sono piani massonici e anticristiani elaborati da lunga data in ambienti, quelli dell’alta finanza internazionale, i quali, col Vangelo, non hanno proprio nulla da spartire; e coincide anche con la strategia di George Soros, strano compagno di viaggio per il papa amico dei "poveri" e degli "ultimi", e per i vari monsignori Paglia, Galantino, Cipolla, Zuppi, eccetera. La tesi di Boeri è tutta da dimostrare; quella di Perego, più che una tesi, è una profezia, se non una minaccia; entrambe sono gratuite, esprimono dei punti di vista assolutamente personali e, in ogni caso, non hanno niente a che fare con il cristianesimo. Pertanto, il massiccio schieramento della neochiesa sul fronte dei favorevoli allo ius soli, esercitando indebite pressioni sul governo e sul parlamento italiani, è una scelta politica che non c’entra nulla col Vangelo. Che non si azzardino a tirare in ballo Gesù Cristo per sostenere che l’Italia, se vuol essere un paese cristiano e civile, deve concedere la cittadinanza a tutti coloro i quali la vogliono, e in qualsiasi quantità. Questa è una menzogna e un’impostura; inoltre, cosa più grave di tutte, visto che viene dalle bocche di insigni esponenti della Chiesa cattolica, a cominciare dal papa Francesco, è una mistificazione del Vangelo. Questi signori e monsignori si permettono di prendere il Vangelo e di manipolarlo a loro uso e consumo, impunemente, sfacciatamente. Lo fanno con supponenza, con alterigia; e guardano con disprezzo quei cattolici che non ci stanno, li giudicano severamente, li mettono moralmente al bando, tolgono loro la qualifica di "cristiani". Dall’alto del loro buonismo, pretendono di servirsi di Gesù Cristo per una campagna ideologica che non ha assolutamente niente di religioso, niente di etico e niente di cattolico. Nondimeno, loro sono i "buoni" e i "veri" cristiani: chi potrebbe mai criticarli? Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. No, dobbiamo rassegnarci: se loro sono i buoni, noi, che non capiamo e che non condividiamo, siamo i cattivi. È inevitabile.

C’è un altro caso, simile a quello di don Biancalani, in un certo senso ancora più significativo, perché ha per protagonista un laico: il professor Antonio Calò, in provincia di Treviso. La stampa locale ha parlato moltissimo di lui e ne ha fatto un eroe, un simbolo dell’accoglienza e degli italiani "brava gente", da quando, due anni fa, ha aperto la sua casa a sei richiedenti asilo di varie nazionalità africane. Adesso il professore, e di nuovo la stampa ha dato molto risalto alla cosa, pur avendo quattro figli, ha deciso di andarsene e di lasciare la casa ai sei giovanotti, mentre lui, insieme alla moglie, è andato a vivere in una parrocchia cittadina, ospite di un suo amico prete. Se ne va in giro per il territorio a tenere incontri e conferenze, il cui motivo dominante è: fate come noi. Le foto lo mostrano soddisfatto e con il braccio sinistro alzato, il pugno chiuso nel classico saluto dei "compagni" (vedi il numero del 3 dicembre 2017 del quotidiano Il Gazzettino). C’è solo un dettaglio fuori posto: quei gesti erano di moda nel 1968. Il professore è un classico residuato di quella stagione, di quella ideologia; e la sua perfetta intesa con i preti progressisti e modernisti conferma quel che andiamo scrivendo da tempo: che il marxismo, da noi, non è mai morto (unico ed ultimo Paese al mondo, a parte la Corea del Nord), ma ha semplicemente traslocato, armi e bagagli, dentro la Chiesa cattolica, sostituendo Il Capitale di Marx con il Vangelo di Gesù Cristo, letto e interpretato secondo l’ottica di Dossetti, Turoldo, Enzo Bianchi e… papa Francesco, senza scordare i vari Paglia & Galantino. Tutta questa bava gene non si è accorta che. da allora, sono passati cinquant’anni; e che il mondo è radicalmente cambiato. Non si è accorta che i poveri non sono più gli stessi di allora, e così pure gli ultimi. Non si è accora che, fra un ragazzone nigeriano mantenuto gratis per almeno un paio d’anni, al costo di trentacinque euro al giorno, tutto compreso (anche le sigarette e la ricarica telefonica), e che si lagna del vitto e dell’alloggio, e va a molestare il vecchio pensionato e l’anziana signora che va a far la spesa, per estorcere loro l’elemosina, quando non si mette a spacciar droga nei giardinetti, tanto per arrotondare le entrate e ammazzare un po’ il tempo, i veri poveri e i veri ultimi sono quel pensionato e quella signora. E chi non ha capito questo, non ha capito niente.

Questa è la cosa peggiore dei residuati sessantottini che ancor infestano il paesaggio sociale: che stanno combattendo, con le armi di mezzo secolo fa, la battaglia sbagliata, contro il nemico sbagliato e in difesa della parte sbagliata. In compenso, tutti costoro sono in buona, anzi, in ottima compagnia: dal papa al presidente della Repubblica, gli esponenti del potere, quello statale e quello religioso, sono tutti con loro, e per le medesime ragioni: sono rimasti fossilizzati nella ideologia sessantottina e vanno avanti per forza d’inerzia, senza aver mai sottoposto a verifica o ad aggiornamento le loro rocciose certezze: il bene di qua, cioè, in questo caso, i "profughi", anche se profughi non sono, e il male di là, cioè gli italiani cattivi ed egoisti, che negano l’accoglienza e sono imbevuti di pregiudizi razzisti. Ed ecco, per la cronaca, la motivazione con cui il presidente, Sergio Mattarella, ha conferito al professor Calò il titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana: per l’esempio di civiltà e generosità che ha fornito aprendo la sua casa a sei giovani profughi giunti nella provincia di Treviso dopo essere sbarcati a Lampedusa. Oddio, che fossero dei profughi, allora — cioè nell’ottobre del 2015 – non era affatto certo; quel che si sa, al contrario, è che nove su dieci di codesti "richiedenti asilo" non hanno alcun diritto ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiati; ma tant’é. Questi sono dettagli, nell’Italia buonista di papa Francesco e del governo Gentiloni (avevamo scritto, automaticamente, del governo Galantino: lapsus freudiano; psicanalisti, sbizzarritevi!). L’importante è l’accoglienza, a prescindere. Chissà quale onorificenza darà ora il presidente Mattarella al professore, quando saprà che se n’è addirittura andato di casa, per non recar disturbo ai suoi giovani ospiti.

Ma il magnifico gesto del professor Calò e consorte non si è limitato a lasciare la sua casa perché i sei baldi giovanotti ci vivano come se fosse loro; si è spinto fino a dichiarare che sarebbe una cosa bellissima se essi potessero ricongiungersi ai loro familiari, così che quella diventasse una "casa africana". Parole testuali. Quindi: non solamente sì all’immigrazione indiscriminata; non solamente i bravi italiani sono quelli che ospitano in casa loro e, se possibile, gentilmente se ne vanno fuori dei piedi e la consegnano, chiavi in mano, ai "ragazzi" venuti dall’Africa; ma sì anche all’ingresso in Italia dei loro padri, madri, sorelle, zii, cugini e mogli, senza tralasciare il dettaglio che molti africani di fede islamica, di mogli, ne hanno quattro, e il numero di figli che procreano è due o tre volte superiore a quello delle coppie italiane. Non occorre essere dei geni della matematica o della demografia statistica per capire che cosa ciò significhi: che fra meno di due generazioni l’Italia non sarà più l’Italia, ma una repubblica islamica e africana, con la maggioranza della popolazioni islamica e africana, e gli italiani bianchi e cristiani saranno una minoranza in via di estinzione, forse tollerata, forse no, perché basta dare uno sguardo al trattamento che i Paesi islamici, tutti, nessuno escluso (anche quelli cosiddetti "moderati"), riservano alle minoranze religiose, per immaginare quale sarà il futuri dei nostri figli e dei nostri nipoti in quel contesto. Si può anche immaginare che cosa ne sarà delle chiese e delle cattedrali, dell’affresco di san Petronio dove si vede Maometto all’Inferno, della Divina Commedia, del Presepio, del Crocifisso, del Rosario e di ogni altro simbolo cristiano. Problemi di questo tipo, cioè di rifiuto della nostra cultura e della nostra civiltà da parte degli islamici, ce ne sono già e parecchi, solo che i mezzi d’informazione non ne parlano, perché hanno degli ordini tal senso. Già adesso è "normale" che degli islamici entrino in un convento di suore cattoliche e si mettano a recitare versetti del Corano a voce alta, spaventando le sorelle che si erano riunite per recitano il Rosario; "normale" è anche che delle donne islamiche entrino in una chiesa e sputino sul crocifisso, o che un giovane islamico ne spezzi un altro. "Normale" è che degli studenti islamici contestino il loro professore italiano, accusandolo di non rispettare l’islam, e chiedendo al preside immediate misure contro di lui: misure subito prese, senza neanche ascoltare la campana del diretto interessato (vedi il caso di Corsico, presso Milano, di cui abbiamo già parlato a suo tempo). Tutte queste cose, ed altre simili, o peggiori, sono già "normali", nel senso di abituali, quotidiane, e tali da non fare più notizia. Quando gli immigrati africani e asiatici di religione islamica saranno maggioranza nel nostro Paese, il che matematicamente avverrà entro un paio di generazioni al massimo, la musica cambierà e di parecchio: e non in senso favorevole a noi, miseri italiani "indigeni", per di più cristiani.

Siamo così arrivati a questa amara conclusione: nel giro di neppure una generazione, qualcuno, in alto loco, ha deciso che noi dobbiamo sparire: è in atto una "soluzione finale" del problema italiano, ovviamente incruenta (almeno per adesso; domani, nessuno lo può dire), e il meccanismo è stato preparato ed oliato così bene, che i soggetti della prossima eliminazione stanno collaborando con il massimo entusiasmo al loro suicidio biologico e culturale. Ora vengono invitati ad accogliere chiunque in casa propria, e anzi, se possibile, a cedergli quest’ultima volontariamente; domani, forse, le case verranno requisite con la forza. Del resto, sta già succedendo: chi ha la "colpa" di avere una seconda casa, sfitta, da qualche parte, di solito lasciata in eredità dei genitori, può trovarsela occupata da una o due famiglie di zingari, o d’ivoriani, o di chi sa quali altre razze e continenti, e può succedergli di sentirsi dire dalle autorità, sindaco e comandante dei carabinieri in primis, che non c’è niente da fare, ma in fondo è giusto così, quei poveretti un tetto non ce l’hanno, mentre lui, l’italiano ricco ed egoista, ne ha ben due. Chi non ricorda le recriminazioni, le polemiche, i sensi di colpa laceranti, quando le forze dell’ordine sgombrarono alcuni stabili occupati illegalmente da famiglie somale, a Roma, in Piazza Indipendenza? Mancò poco che, a finire sul banco degli imputati, finissero loro, i poliziotti; uno dei quali aveva pronunciato una intollerabile frase razzista: Se fanno resistenza, spezzategli un braccio; e venne messo in croce della stampa bipartisan. Primi piani delle donne piangenti su tutti i giornali e telegiornali, di destra e di sinistra. Con i soldi, è la stessa cosa: perché le ingenti somme spese dallo Stato (sia pure con il contributo dell’Unione europea; ma sono pur sempre soldi nostri) sono distolte, lo capisce anche un bambino, dalle azioni che si potrebbero programmare ed attuare a sostegno dei milioni di italiani che sono stati ridotti a vivere sotto la soglia della povertà.

Ma sono almeno di buona razza, questi invasori camuffati da richiedenti asilo? Sono gente seria, onesta, laboriosa, capace di valorizzare le potenzialità di un Paese dalle tradizioni millenarie e dalle infinte meraviglie artistiche e culturali, uniche al mondo, come il nostro? Per rispondere a questa domanda, basta guardare ai fatti. Chi scrive ha prestato il servizio militare, come tanti altri, in una caserma di enormi dimensioni: in camerata c’erano un centinaio di letti a castello, i servizi igienici erano quattro per duecento giovani, e il vitto della mensa era meno che mediocre. Ma è vissuto lì dentro per un anno, senza mai lamentarsi, e trovando la cosa normalissima; non si è mai sentito un eroe, né, tanto meno, una vittima. Ora questi baldi ragazzoni, che dicono di essere fuggiti dalla disperazione, dalla guerra e dalla fame, in una ex caserma, loro, non ci vogliono stare: protestano, marciano, pretendono, minacciano: com’è accaduto a Cona, in provincia di Venezia. Ritengono di aver diritto a una sistemazione più "decente", in un albergo o in una casa privata; e ad un vitto assai migliore, perché quello che gli passa l’Italia è roba da gettare ai cani; e infatti lo sbattono per terra e fanno lo sciopero della fame…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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