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La ragione di Dante e la nostra: natura e grazia

Per capire la poesia di Dante dobbiamo sforzarci di capire il mondo di Dante; per capire il suo mondo dobbiamo sforzarci di capire il suo essere cristiano. Noi abbiamo appreso fin dai banchi di scuola un’immagine sostanzialmente statica di Dante: ci sembra che l’autore della Commedia sia sempre stato quale ci appare nella superba costruzione intellettuale, spirituale e morale del suo poema; invece, ovviamene, anche lui  ha affrontato un cammino, ha conquistato la verità attraverso una ricerca sia di natura speculativa, sia di carattere esistenziale. L’idea che Dante possiede della relazione fra Dio e l’uomo, tra ragione e fede e tra natura e grazia, è il risultato di un percorso, di una conquista, e da ultimo — egli ne è ben convinto, e chi non ha compreso ciò, non ha compreso nulla della Commedia — una illuminazione divina. Per Dante il mondo della natura — che egli apprezza, che ammira e che ama — trova il suo naturale completamento nella realtà della vita divina, che è la Grazia; considerato in se stesso, egli non lo disprezza affatto, ma non lo ritiene sufficiente a dare un significato più alto all’esistenza umana. Ed è questo, per lui, il problema fondamentale dell’uomo, la sua vocazione e il suo bisogno autentico: Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza (Inferno, XXVI, 119-120). In fondo, tute le discussioni su Dante medievale o Dante pre-umanista, partono da questo mancato chiarimento concettuale: per gli umanisti il mondo naturale è già pieno e perfetto in se stesso; per gli uomini medievali, no. E Dante è un uomo pienamente medievale; altrimenti, non si spiegherebbe perché egli faccia concludere il folle volo di Ulisse nel tragico modo che sappiamo, cioè in forma di punizione divina, né per quale ragione lo definisca con quella espressione (vedi anche il nostro saggio L’ultimo viaggio di Ulisse termina in tragedia perché nato da "curiositas" e non da "virtus", pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 14/12/2011).

D’altra parte è possibile leggere l’itinerario di Dante verso la comprensione del ruolo della Grazia, come completamento necessario e tuttavia non scontato, della ragione e della volontà umana — non scontato  perché essa è un dono di Dio, e non si dà agli uomini che non lo chiedono né lo cercano — come un itinerario esemplare della mente umana da una visione naturalistica del mondo a una visione religiosa e pienamente cristiana, quindi come il passaggio dalla filosofia alla teologia. In questo senso, ciascun uomo può rispecchiarsi nell’esperienza di Dante, esperienza intellettuale ed umana insieme: intellettuale, come ricerca inesausta della verità che, a un certo punto, va ad urtare contro il limite ontologico della ragione stessa, e si accorge di non poter andare oltre, con le sue sole forze; umana, perché l’esperienza del male, dell’ingiustizia, dell’innocenza offesa (l’esilio e la duplice condanna a morte), dell’amore (per la sua paria) incompreso e rifiutato dai suoi concittadini, ha insegnato a Dante, sulla sua carne viva, come la giustizia e la verità non siano di casa in questo mondo, sebbene gli esseri umani ne abbiano una viva coscienza e un’ardente nostalgia. E si ratta di una duplice esperienza che può essere quella di qualsiasi creatura umana di buona volontà, che può rispecchiarsi nella vicenda del sommo poeta: il ricercatore della verità finisce per rendersi conto che esiste un limite non oltrepassabile dalla sola ragione, e scoprire che solo la ragione illuminata dalla grazia lo può oltrepassare, così come la persona onesta e fondamentalmente buona, che offra il proprio amore ad altri e lo veda frainteso, rifiutato, deriso e oltraggiato, come sovente accade, può scoprire che nessun sentimento umano è mai del tutto al riparo dall’errore, dall’egoismo, dalle tendenze malvagie che lo tirano verso il basso e lo sprofondano nella palude ribollente delle passioni disordinate e vergognose.

Oseremmo dire che chi non abbia fatto simili esperienze, non è mai divenuto adulto, ma è rimasto simile a un bambino. D’altra parte, non è detto che chi le abbia fatte giunga alle stesse conclusioni di Dante, e cioè che sia l’intelligenza, sia la volontà necessitano dell’aiuto della Grazia. La conclusione può anche essere la ribellione, il cinismo, la depressione cronica, l’odio della vita, il desiderio di morte; oppure, all’opposto (ma solo in apparenza), un vitalismo sfrenato e pago di se stesso, un immanentismo che si chiude nel proprio orizzonte, una finitezza che si appaga del suo stesso limite e, nel contempo, un edonismo sfrenato, che offra una ricompensa adeguata alla delusione esistenziale di vedere che la vita umana non ha né un significato, né uno scopo, né una meta. Un’altra possibile "risposta" può essere l’orgoglio: l’affermazione di sé e la ricerca di un sapere "altro", ad esempio nella magia, nell’occultismo e nel satanismo, che aggiri per così dire l’ostacolo della finitezza, e che dia all’uomo la sensazione inebriante che, dopotutto, se Dio non c’è, o se non ha tempo di occuparsi delle sue creature, allora tanto vale che l’uomo si faccia il piccolo dio di se stesso.

Scriveva il critico e filologo Fausto Montanari nel suo saggio Il mondo di Dante (Roma, Edindustria Editoriale,1966, pp.12; 14-18):

 

Dante che, probabilmente, fin da bambino aveva saputo, in astratta teoria, come la ragione umana da sola sia insufficiente a illuminare la mente sulle supreme verità (Dio, vita eterna), e come la volontà umana da sola sia insufficiente ad evitare il peccato, e che per fortificare la intelligenza  e la volontà umana è necessaria la grazia soprannaturale sia come aiuto all’intelligenza , sia come aiuto alla volontà, ora [cioè con l’esilio, e nell’accingersi alla composizione della"Commedia"] scopriva il salto che c’è tra Natura e Grazia non più come nozione astratta ed isolata, ma come esperienza personale che lo umiliava sanguinosamente. Quando Dante ebbe approfondita la consapevolezza della differenza del metodo filosofico da quello teologico, e il presupposto di questa differenza, che, cioè, l’intelligenza umana può con le sue forze comprendere e dimostrare una sfera limitata di verità, ma può anche accettare un’illuminazione che supera le sue capacità costruttive, e può solo essere solo  accettata come dono (la Grazia), ecco che tutte le precedenti esperienze di rifusero e si riordinarono nella mente di Dante secondo una nuova intuizione che gli dovette apparire come una rivelazione improvvisa e superiore, che lo investiva di una missione profetica. […]

La sostanza fondamentale [della "Commedia"] […] risponde ad una visione unitaria ed organica, tutta animata dalla scoperta della Grazia teologica come coronamento della civiltà umana, senza, tuttavia, alcun deprezzamento di una civiltà puramente naturale. Dante giunse a scoprire l’insufficienza delle forze naturali in ordine alla perfezione di cui l’uomo è capace, capace nel significato originale di aver ampiezza per ricevere, e non per fare con le sole proprie forze; e tuttavia la scoperta di tale insufficienza non generò in Dante alcun disprezzo né per la natura del’uomo né per una civiltà puramente umana e naturale.

In ciò sta, forse, la maggiore originalità della spiritualità di Dante, che lo fa più di ogni altri poeta vicino all’intuizione di San Francesco: sotto quest’aspetto neppure Jacopone da Todi fu poeta così francescano come Dante.

Dante, infatti, scopre l’effettiva trascendenza di Dio: il mondo, cioè, non aggiunge a Dio nulla: Dio è l’assoluto: è eterno: non era e non sarà, bensì è al di sopra del tempo. E tuttavia questo mondo che nulla aggiunge a Dio non è affatto un nulla; e neppure è un sogno, e tanto meno è trascurabile, poiché questo mondo è opera dell’amore creatore di Dio per un mistero non sondabile della ragione umana, ma solo in qualche modo intuibile da chi abbia esperienza dell’amore veramente gratuito (di padre e madre, talvolta, verso i figli, di certi eroici innamorati, capaci di rinunciare ad ogni soddisfazione propria solo in vista del bene della persona amata). E poiché la creazione, anche nei suoi più umili aspetti naturali, è effetto dell’amore divino essa è meravigliosa anche solo nel suo aspetto naturale.

L’uomo ha quindi meravigliose forze naturali in sé, e le esercita sotto la propria responsabilità: l’uomo non si dà da se stesso la vita, l’intelligenza, la volontà, eppure contribuisce al fiorire, in sé, della propria intelligenza e della propria volontà col sofferire in sé la fatica, il dolore, il martirio di essere uomo intelligente e amoroso. (Altra nota francescana: noi siamo noi stessi più per il dolore che accettiamo che per le opere esterne che facciamo. […]

L’uomo, aristotelicamente, è qualificato dall’intelligenza: è un animale che intende i valori universali: e per tale intelligenza si apre all’esercizio della libertà. Necessitato, come tutte le altre creature brute, a cercare la sua felicità (cioè la sua perfezione finale) fuori di sé, egli può aprirsi a valori sempre maggiori fino ad intuire il suo bene effettivo e supremo in Dio: nel Vivente assoluto ed eterno, che è trinitaria società in se stesso, così che nella Trinità di questo Dio (non più solitario come quello aristotelico), è fondata la vita umana necessariamente sociale, comunitaria, dialogante anche nei suoi aspetti umani.

L’uomo è meraviglioso anche solo nei suoi aspetti naturali, che noi sperimentiamo fra la nascita e la morte: meraviglioso nella indagine intellettuale, nell’amore familiare, nella società politica, nell’esercizio delle scienze e delle arti. Ma tutto questo non è che una parte della perfezione dell’uomo: la follia amorosa di Dio ha voluto che l’uomo potesse divenire intimo a lui stesso: vita divina che rende l’uomo fratello di Dio nella manifestazione del Cristo Salvatore. Così che tra la vita naturale dell’uomo e il suo destino finale (vivono con Dio, immortalmente) c’è un abisso che solo Dio poteva colmare. E Dio ha colmato quest’abisso fin dalla creazione del primo uomo, facendolo figlio nella Grazia; l’ha colmato dopo il peccato originale con la Redenzione; ora torna a colmarlo in ogni momento, perdonando i peccatori pentiti, e richiamandoli a sé insistentemente, sempre in forza di questa Redenzione.

E la Redenzione non è stata operata nel modo più facile e  ovvio, semplicemente perdonando: ma nel modo più ingegnosamente amoroso: poiché il Verbo di Dio stesso, la seconda persona della Trinità ha assunto in sé natura umana, ed è nato da una Donna, ed ha accettato in sé quello scandalo della storia per cui Dante tanto soffrì: lo scandalo dell’incomprensione: per cui noi uomini finiamo per essere più spietati proprio contro chi più ci ama e più ci dona.

Dante scopre, nel momento in cui matura la "Commedia", il mistero cristiano. Mistero di opposizioni e di apparenti contraddizioni che rimandano al mistero di Dio trascendente ed insieme quanto mai presente al mondo: Dio che è "fuori" del mondo in quanto il mondo non gli aggiunge neppure un fiato di vita divina, è più intimo al mondo e all’uomo di quanto non sappia esserlo l’uomo. Poiché l’uomo non sa conoscersi ed amarsi quanto e come lo conosce e l’ama Dio.

Dio ama l’uomo fino al punto i cui la mente umana vacilla di fronte al mistero: lo ama fino a lasciarlo libero di dannarsi se l’uomo rifiuti di aprirsi al dono della Grazia e del perdono. Così anche nei dannati splende l’amore di Dio che avendo creato l’uomo senza consenso dell’uomo, non lo ha voluto salvare senza il consenso di lui. Onde anche nei dannati splende irresistibilmente misteriosa la grandezza della natura umana non meno che quella della vocazione alla Grazia, alla partecipazione, cioè della vita stessa di Dio.

A noi sembra che il Montanari, in questa pagina, peraltro magnifica, abbia un po’ troppo enfatizzato il concetto che Dante trova perfettamente soddisfacente anche un mondo, una civiltà, i quali siano puramente ed esclusivamente naturali. Ad esempio, quando afferma — e lo ripete parecchie volte nello spazio di poche righe — che Dante giunse a scoprire l’insufficienza delle forze naturali in ordine alla perfezione di cui l’uomo è capace [….] e tuttavia la scoperta di tale insufficienza non generò in Dante alcun disprezzo né per la natura dell’uomo né per una civiltà puramente umana e naturale, ci sembra che egli stia un po’ forzando quel che pensa Dante del mondo naturale. È certo che Dante non disprezza la dimensione naturale dell’uomo; però, da qui ad affermare che una civiltà puramente naturale non suscita il suo disprezzo, ce ne corre. Una civiltà naturale è una civiltà che rifiuta Dio, poiché Dio è un bisogno della natura stessa, e non esiste, per Dante, natura che possa darsi autonomamente, né farsi autosufficiente. Se il concetto di una natura senza Dio è già parecchio azzardato, quello di una civiltà, ossia di un mondo umano, senza Dio, è addirittura mostruoso: Dante non arriva neppure a immaginare una cosa del genere, se non come diabolico rifiuto della realtà di Dio, e, quindi, della vita di grazia. La vita di grazia, cioè la partecipazione dell’uomo alla vita divina, è possibile solo là dove questi riconosce la propria finitezza e la propria insufficienza: perché questo, per Dante, è essere veramente uomini: riconoscere il proprio bisogno di Dio e il proprio bisogno di completarsi in Dio. E questa, per lui, è la perfezione dell’uomo. Che si dà solo quando gli uomini ammettono che, in quanto creature, non sono capaci di porsi come segno e come meta a se stessi, e neppure sanno trovare in se stessi i mezzi e gli strumenti per realizzare una vita pienamente umana. In altre parole, secondo la visione di Dante, che poi è la visione cristiana, l’uomo che realizzasse una civiltà puramente umana si renderebbe simile a una bestia, perché la vera umanità consiste nella figliolanza divina e nel porre Dio come meta e come scopo della vita umana, nonché come aiuto per sviluppare la propria parte spirituale, mediante la quale soltanto è possibile, per la creatura, riconoscere il proprio Creatore ed innalzarsi fino a Lui. Non esiste, per Dante, una natura concepibile all’infuori della realtà soprannaturale e indipendentemente da essa; tanto meno è immaginabile una civiltà umana che si appaghi di se stessa e si realizzi in se stessa. La natura umana è stata creata perfetta da Dio, ma il Peccato originale ha ferito quella perfezione e, con essa, ha ferito tutto il creato, generando la corruzione e il disordine della concupiscenza.

Il punto veramente sensibile della natura umana non è né l’intelligenza, né la volontà, ma l’uso della libertà: l’uomo, con le sue sole forze, non sa fare un uso responsabile della propria libertà, il dono più grande che Dio gli ha fatto, e lo trasforma nello strumento della propria rovina in questa vita, e della propria dannazione nella vita eterna. Perciò, solo sorvegliando al massimo la propria inclinazione alla concupiscenza, triste eredità del Peccato di Adamo, e solo cercando e invocando costantemente il soccorso della grazia divina, l’uomo può porre un freno alle proprie tendenze autodistruttive e puntare alla reintegrazione della propria natura superiore, smarrita una prima volta con la disobbedienza dei primi antenati, nel Paradiso Terrestre, e nuovamente smarrita con la realtà del peccato attuale, nella dimensione delle singole vite umane. … e più lo ‘ngegno affreno ch’ non soglio, / perché non corra che vortù nol guidi (Inferno, XXVI, 21-22). Ecco, dunque, ciò di cui gli uomini hanno sommamente bisogno: porre un freno alla smodata ambizione della loro ragione, alla loro pretesa di far da sé, di capire tutto, e affidarsi, invece, alla guida della virtù: guida che è veramente tale solo se scende dall’alto, se scaturisce da una fonte superiore a qualunque facoltà puramente umana, ossia dalla grazia divina.

Questo è il vero Dante: ed è un Dante pienamente cristiano e pienamente medievale. Il cristianesimo moderno, infatti, a partire dall’umanesimo, è già un cristianesimo annacquato e addomesticato; è già un cristianesimo che tende a porre l’uomo, e non Dio, al centro di tutto; è già un cristianesimo "modernista". La cosiddetta "svolta antropologica", nella teologia degli anni successivi al Concilio Vaticano II, è già implicita nella svolta umanista del XIV secolo, e poi accentuata dal rinascimento, dalla rivoluzione scientifica, dalla cosiddetta riforma protestante (in realtà, una rivoluzione) e dall’illuminismo. Noi cattolici moderni capiamo abbastanza bene Manzoni e Rosmini, i "cattolici liberali" (sic), mentre ci sfugge il cuore della concezione di Dante, cattolico tutto d’un pezzo, come pure quella di San Francesco (e bene ha fatto Fausto Montanari a far notare che Dante è il più "francescano" di tutti i poeti, proprio per il suo fortissimo senso della creaturalità umana e, quindi, del legame indissolubile d’amore e gratitudine dell’uomo per il suo Creatore). Nondimeno, se speriamo di trovare una risposta alle eterne domande dell’uomo, come pure alle presenti angustie di questa nostra civiltà materialista e irreligiosa, è al cristianesimo di Dante e di San Francesco che dobbiamo ispirarci, cioè al Vangelo eterno di Gesù Cristo, e non al cattolicesimo liberale di Manzoni o Rosmini, che è una sorta di compromesso con il mondo moderno e, pertanto, una contraddizione in termini…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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