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Se questi sono i pastori del gregge…

Che tristezza. Il vescovo dovrebbe esser il pastore del gregge della sua diocesi, il continuatore dell’opera degli Apostoli: dovrebbe essere saldo nella dottrina, radicato nella fede, pronto a esporsi per amore del Vangelo, come Ignazio di Antiochia e tanti altri, che affrontarono la morte per dare l’esempio alle pecorelle spaventate. Oggi molti vescovi e arcivescovi non si curano d’altro che della loro poltrona, dei loro bei paramenti, dell’anello, del prestigio della loro carica; si preoccupano di riuscire graditi alla cultura dominante, di piacere alla gente, dove "la gente" sono, in realtà, gli intellettuali progressisti, che dalla Chiesa vogliono una cosa sola: che contraddica e smentisca se stessa, e che si metta ad annunciare quel vangelo che piacerebbe a loro, ma che non è affatto il Vangelo di Gesù Cristo; nonché preoccupati di pubblicare libri di grande tiratura, di presenziare a conferenze e tavole rotonde, di essere inviati alla radio e alla televisione, di potersi crogiolare sotto la luce dei riflettori, gonfiando il petto per la soddisfazione di poter annunciare la Chiesa dei poveri, loro che vivono in un palazzo; di prescrivere l’accoglienza verso qualsiasi numero e qualunque sorta d’immigrati, anche se loro, affacciandosi dalla finestra, vedono un bel giardino, potato e curato da inservienti, da frati o suore, e non il quartiere degradato dalle prostitute nigeriane e dagli spacciatori marocchini, in cui sono costretti a vivere milioni d’italiani, specialmente anziani e pensionati, persone a basso reddito che pure hanno lavorato una vita intera; di puntare il dito contro l’egoismo, il razzismo, la xenofobia e l’omofobia dei cattolici ipocriti, proprio loro che non si fanno mancare nulla, nemmeno i vizi privati, a cominciare da quel tal vizietto contro natura che sono, appunto, così indulgenti nel giudicare, o meglio nel non giudicare, forse per solidarietà di categoria, loro che di festini e orge gay, in Vaticano e altrove, se ne intendono, eccome, quanto se ne intende il cardinale Francesco Coccopalmerio, e chissà quanti altri come lui.

Ma evitiamo di restare nel generico e facciamo un esempio concreto di vescovo progressista, buonista e "misericordioso", beninteso misericordioso alla maniera di Bergoglio, cioè nei confronti di certi peccatori e di certi peccati, specie quelli della carne, ma non verso quelli, secondo loro ben più gravi, di tipo ideologico: per esempio, essere dei cattolici "rigidi", "conservatori", o magari, Dio non voglia, "di quelli che usano la dottrina per andare contro qualcun altro". Ed ecco una vicenda che pare uscita da un racconto della provincia piccante: il capo scout di Staranzano, una parrocchia del goriziano, Marco Di Just, nel giugno scorso si sposa in municipio con il suo "compagno", il consigliere comunale Luca Bortolotto. Presenti alle "nozze" vari amici della coppia, fra i quali il viceparroco, don Eugenio Biasol. Il parroco, invece, don Francesco Maria Fragiacomo, non ci sta: e chiede, sul bollettino parrocchiale, un passo indietro da parte del Di Just, ricordando che se, come cittadino, lui come chiunque altro, può fare ciò che la legge dello Stato gli consente, come cattolico, per giunta come collaboratore dell’Agesci, che lavora nel settore della gioventù, ha fatto una scelta non in linea con l’insegnamento della Chiesa. Comunque, consapevole delle divisioni che il gesto del capo scout ha provocato in parrocchia, basti vedere l’atteggiamento favorevole del viceparroco, domanda che a prendere una posizione sia l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, che fu vescovo ausiliare di Milano e che era stato consacrato, guarda caso, da Dionigi Tettamanzi, quello che voleva fortissimamente la moschea nel capoluogo lombardo, e da Coccopalmerio, al quale abbiamo già accennato. Ma, soprattutto, Redaelli è un vescovo nella linea di Carlo Maria Martini, che considera il suo grande maestro. E infatti, all’invito del parroco di Staranzano, Redaelli risponde con una lunga lettera pastorale, in cui si rivolge a tutti i soggetti interessati, consacrati e laici, e, con una capacitò di equilibrismo che ricorda Salomone nella forma, ma Pilato nella sostanza, riesce a dire tutto e niente, invocando però, e fin dalla prima riga, il "discernimento", la grande parola-talismano, sia dello stesso Martini, che ne fu, secondo lui, il grande maestro, sia del papa Francesco, che ne ha fatto il grimaldello per scardinare, a partire dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, il Magistero della Chiesa in materia di matrimonio e divorzio. Che cosa dice, nella sua lettera del 22 giugno 2017, l’arcivescovo di Gorizia? Sarebbe troppo lungo riportarla per esteso: chiunque la può consultare in rete; ci limiteremo, pertanto, a riportare alcuni passaggi-chiave:

… Partirei da una citazione di un grande maestro del discernimento, il cardinale Carlo Maria Martini: «L’esempio biblico di cui mi servo per spiegare il distinguere e il discernere, è la descrizione del Concilio di Gerusalemme (cfr. At 15) dove si può vedere bene la dinamica di Chiesa. Se leggiamo attentamente il resoconto del Concilio, rimaniamo stupiti nell’accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile – la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo – non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c’era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito santo! […] Può sembrare strano che di fronte a una realtà che ha creato contrasti e scalpore e ha evidenziato difficoltà, ci si domandi per prima cosa quali siano gli aspetti di grazia presenti in essa. Eppure non dobbiamo mai dimenticare ciò che afferma l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). «Tutto concorre al bene»: non significa che tutto è bene e neppure che tutto è indifferente. Vuol dire piuttosto che dobbiamo avere la profonda convinzione che Dio guida la storia dell’umanità, della Chiesa e di ciascuno di noi e che tesse un percorso d’amore e di luce dentro il contraddittorio chiaroscuro delle nostre scelte. Quale può essere allora la grazia in questi avvenimenti? […] Grazia, sempre restando a noi, è la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale. […] Grazia è anche l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno da parte della comunità cristiana e l’accompagnamento degli stessi. Non parliamo infatti di questioni astratte o di scuola, ma di scelte e percorsi di persone concrete. Ogni persona ha il diritto al rispetto, non va giudicata o condannata, le sue scelte (anche se non condivisibili) vanno prese seriamente. Ben sapendo che ognuno ha il dovere morale di cercare il bene e la verità. Il cristiano, in particolare, è chiamato a individuare la volontà di Dio per la propria vita nella concretezza della situazione in cui si trova. Lì infatti è la sua "grazia". Un impegno che trova nell’assistenza dello Spirito, nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nel confronto con le indicazioni della Chiesa, nel sostegno della comunità e nel confronto con essa i mezzi per essere affrontato con autenticità. Come ci ha ricordato papa Francesco anche in diversi passaggi della "Amoris laetitia", il processo che porta a precise scelte e le stessa attuazione di esse è condizionato da molti fattori, che possono rendere difficile l’adeguamento della propria vita alla proposta dell’ideale evangelico. In ogni caso ciascuno è tenuto a cercare non l’astratta perfezione, ma il meglio possibile nella concretezza del suo cammino. Chi accompagna pastoralmente le persone — e non solo i sacerdoti — deve tenere conto di tutto questo, non indulgere a facili giudizi, non sostituirsi alla responsabilità di ciascuno, ma insieme non rinunciare a proporre l’ideale evangelico sapendo ben distinguere le diverse situazioni di partenza. Perché il discernimento circa simili scelte personali (per esempio di convivenza) non può essere lo stesso per chi non ha avuto in precedenza la possibilità di un cammino cristiano e solo ora si sta riavvicinando alla fede (penso, per essere concreti, a chi chiede la cresima da adulto ed è disponibile a fare un percorso di ascolto del Vangelo, ma è di fatto in una situazione di convivenza) e per chi, invece, è cresciuto in ambito ecclesiale con molti aiuti e accompagnamenti e svolge un incarico dentro la comunità. […] Il Vangelo, e in genere la Sacra Scrittura — lo sappiamo –, non si presentano come un manuale di principi e di indicazioni concrete riferibili a ogni situazione della vita. […]Chi si aspetta o pretende sempre e comunque principi chiari, astratti e immodificabili e indicazioni normative vincolanti per ogni questione e per ogni circostanza, non può che restare deluso, ma dimostra anche di non avere una corretta visione della fede cristiana e del cammino della Chiesa incarnato nella storia. […]Un primo suggerimento che mi sento di offrire è quello di darci tempo. Un tempo necessario per lasciare decantare emozioni, giudizi affrettati, reazioni a caldo e un po’ sopra le righe. […] Un secondo suggerimento che mi permetto di presentare soprattutto alla comunità di Staranzano e alle altre realtà vicine più direttamente implicate, è quello di utilizzare anzitutto un saggio consiglio di sant’Ignazio, maestro di discernimento del cardinal Martini e di papa Francesco: «ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare un’affermazione del prossimo che a condannarla» (Esercizi spirituali n. 22). Intendo cioè invitare a un atteggiamento di disponibilità gli uni verso gli altri, che parta dal presupposto della buona fede reciproca, trovi occasione di dialogo pacato e sincero, abbia la pazienza dell’ascolto, riannodi una comunione che resta vera anche in presenza di diverse sensibilità e accentuazioni. […]

Voi ci capite qualcosa? Noi, non troppo; o forse sì: ma andando a leggere più fra le righe, e dietro le righe, che sulle righe: col rischio di essere accusati, come per Amoris laetitia, di prevenzione e ostilità preconcetta. Notiamo anzitutto che si tratta di un documento molto soft, molto dolce, molto pacato, molto accomodante, quasi zuccheroso, per non dire soporifero. Così dolce e pacato che farebbe sentire in colpa chiunque osasse esprimere un giudizio negativo; lo farebbe sentire il cattivo di turno, colui che non vuol essere comprensivo e ben disposto verso i fratelli. E infatti, l’Agesci ha detto sì alle nozze gay e alla permanenza del capo scout in parrocchia. Strano ribaltamento: Gesù ha insegnato a dire: Sì, sì e No, no; e codesti vescovi progressisti ne fanno il Maestro del ni e del so. A ben guardare, peraltro, il vero maestro di costoro non è Gesù Cristo; non lo citano nemmeno tanto; citano, invece, e chiamano maestro, il massone Carlo Maria Martini, e, naturalmente, il papa Francesco. E così riescono a strumentalizzare il Vangelo e, con la scusa del discernimento e della misericordia, arrivano a fargli dire il contrario di quel che vi è scritto: per esempio, monsignor Galantino, il quale dice che Dio ha risparmiato Sodoma e Gomorra, non le ha distrutte per il peccato obbrobrioso dei loro abitanti. Che era, guarda caso, il peccato del capo scout del paese in provincia di Gorizia. Ma la parola "peccato", in questa lunga lettera, non viene fuori: c’è è poco da fare. neanche sotto tortura uno come Redaelli la pronuncerebbe. Logico: se il suo modello è Francesco, il quale ha detto, proprio parlando dei gay, Chi sono io per giudicare?, non ci si può aspettar da lui niente di diverso. E il bello è che cita anche san Paolo: ma si guarda bene dal riferire le severissime parole di San Paolo, proprio in quello stesso documento che lui cita, la Lettera ai Romani, contro coloro i quali si abbandonano al peccato contro natura. Insomma: si cita chi si vuole, l’importante è citare solo le frasi e i concetti che portano acqua al proprio mulino. Bell’esempio di esegesi soggettiva, utilitaristica e semi-protestante. Un tempo c’era la Chiesa cattolica, a interpretare la Bibbia; oggi c’è il discernimento del singolo fedele. Come fanno, appunto, i luterani.

Ma andiamo avanti. A forza di insistere sul discernimento, si finisce per ridurre tutto a "situazione". Con la scusa della concretezza, codesti pastori progressisti, che pastori non sono, ma dei Ponzio Pilato, riducono ogni cosa, anche il Vangelo, a situazionismo. Vale a dire: si dovrebbe fare così; ma si fa quel che si può. Anzi, perfino il si dovrebbe fare così, un poco alla volta, viene silenziato, e presto sarà rottamato. Monsnignor Redaelli lo dice chiaro e tondo, anche troppo: Chi si aspetta o pretende sempre e comunque principi chiari, astratti e immodificabili e indicazioni normative vincolanti per ogni questione e per ogni circostanza, non può che restare deluso, ma dimostra anche di non avere una corretta visione della fede cristiana e del cammino della Chiesa incarnato nella storia. Ma forse non è chi si aspetta dalla Chiesa norme chiare e precise, ma è lui a non avere un’idea chiara del Vangelo, che è l’annuncio della Verità divina: perenne, immutabile, perfetta;; al posto del quale egli propone un vangelo storicista. Si faccia attenzione all’espressione: "il cammino della Chiesa incarnato nella storia". Suona bene; ma che vuol dire? La Chiesa è la custode della Parola di Dio: nella storia, certo, ma non per adattare il Vangelo alla storia, bensì per piegare la storia al Vangelo eterno: questo è il giusto rapporto tra fede e storia, per un cattolico. È l’ordine sensibile che deve adattarsi all’ordine soprannaturale, non viceversa. E un arcivescovo cattolico non lo sa? Noi crediamo che lo sappia; ergo, noi crediamo che questi pastori progressisti non siano in buona fede. Non ce la stanno raccontando giusta. Non si stanno prendendo cura delle loro pecorelle. Quanto alla citazione di sant’Ignazio di Loyola, ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare un’affermazione del prossimo che a condannarla, è evidente che ne fa un uso strumentale: san Ignazio non voleva certo dire che si devono salvare eresie, bestemmie e peccati mortali. Ma lui sì…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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