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Solo un pulviscolo di stelle?

Strano, stranissimo Paese, il nostro; l’emotività esasperata la fa da padrona anche al banchetto della cultura e nemmeno i pensatori si astengono dal pagarle il loro obolo. Di Giuseppe Rensi (1871-1941), per esempio, docente di filosofia morale dall’Università di Genova, solitario cultore di un realismo materialistico, si può pensare e dire quel che si vuole: lo si può ammirare per la coerenza politica d’irriducibile socialista e per il suo coraggio morale di oppositore del fascismo; ma farne, proprio in quanto pensatore, una delle menti più forti nel panorama speculativo italiano, questo è davvero un po’ troppo, ed è sempre un cattivo servizio quello che si rende a qualcuno, lodandolo molto al di à dei suoi meriti, e gli si pone sul capo una corona che, agli occhi del mondo, e giudicando le cose con un minimo di obiettività, non può non apparire goffa, inadatta, ridicola. Perciò, la sparata di Pietro Martinetti (1872-1943), capofila nostrano dei seguaci dell’idealismo razionalistico post-kantiano, secondo il quale egli è senza dubbio il solo dei filosofi italiani contemporanei che meriti di sopravvivere e di restare nella storia, appare sproporzionata, fuori di misura, assurdamente soggettiva, e si può spiegare solo con l’ammirazione umana e con la comune componente ideologica antifascista (Martinetti fu il solo filosofo accademico italiano a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime). Ma questo che c’entra con la valutazione obiettiva del pensiero di Rensi? È la solita emotività italiana: quest’uomo mi piace, quindi proclamo al mondo che egli è il più grande di tutti. No, spiacenti, ma non funziona così: almeno, non nel resto del mondo. Ed ecco perché, negli altri Paesi, tengono in poca considerazione i giudizi che la cultura italiana esprime su uomini e cose: perché li sanno viziati da molta, troppa emotività, da simpatie e antipatie che c’entrano poco o nulla con la valutazione obiettiva, specialmente quelle di matrice ideologica. Tale è lo sport nazionale degli italiani, filosofi compresi: come i tifosi di calcio si dividono in tifosi del Milan, dell’Inter, della Juve, eccetera, allo stesso modo i filosofi si dividono in tifosi dell’idealismo, del pragmatismo, dello spiritualismo, del materialismo, eccetera; o, per essere ancora più emotivi e soggettivi, in tifosi di Croce, Marx, Kant, Hegel, e così via.

Per farsi un’idea del pensiero di Giuseppe Rensi, è quanto mai istruttiva la lettura del suo Testamento filosofico, una sorta di biografia spirituale che ricorda da vicino — sia per lo stile e l’impostazione, che per i contenuti, che non sono meno pessimistici – i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, delle leopardiane Operette morali. Uscito nel 1939, poco p rima della morte dell’Autore (che avvenne per un mancato intervento chirurgico dovuto alla paralisi dell’ospedale di Genova, a causa del bombardamento del capoluogo ligure da parte della gloriosa Flotta di Sua Maestà britannica). Ne riportiamo la parte iniziale e quella finale, che contengono, in nuce, tutta la filosofia del Nostro (da: G. Rensi, Autobiografia intellettuale. La mia filosofia. Testamento filosofico, Milano, Dall’Oglio Editore, 1939, 1989, pp. 209-211 e 222-224):

"Coeli enarrant gloriam Dei, et opera manuum eius annuntiat firmamentum". Così opinava il Salmista (XIX, Vulg. XVIII). E Napoleone, contemplando il magico spettacolo del cielo stellato d’Egitto, rivolto allo scienziato Luigi Monge, che lo aveva accompagnato in quella spedizione, esclamava: ‘Qui a fait tout cela?’.

Ma Monge avrebbe potuto la mattina dopo replicare a Napoleone (con risposta che tocca anche la visuale del Salmista) additandogli i quasi impercettibili granelli di sabbia roteanti con momentaneo regolarità nel raggio di sole filtrante nella tenda, e chiedendogli: ‘Qui a fait tout ceci?’. E all’inevitabile risposta che il puro caso d’un tenuissimo soffio d’aria aveva prodotto e sorreggeva quel "sistema" di corpuscoli moventisi nel raggio di sole, avrebbe dovuto proseguire: "O tu che ritieni d’aver avuto ieri un pensiero degno della tua grandezza e di esserti, come pari competente contemplatore da un lato, adeguato al creatore dall’altro di questo universo che scorgi così immenso da richiedere necessariamente la mano di Dio, bada invece che piccolo pensiero hai avuto. Questo, che tu scorgi come immenso, avresti invece dovuto scorgerlo, quale veramente è, come un leggero pulviscolo, come quell’istesso pulviscolo che noi vediamo roteare in questi raggio di sole. Avresti dovuto riflettere che se questo apparente immenso venisse improvvisamente contratto nella misura di una noce, con proporzionale riduzione di grandezza di tutto ciò che in esso è contenuto, tu scorgeresti ugualmente la noce come questo immenso; non è esso dunque già ora una noce? E avresti dovuto avvertire che le leggi eterne che reggono questo sistema o creato, asserite espressioni dell’eterna sapienza d’un Dio creatore, sono la stessa cosa delle leggi momentanee che regolano per un istante il roteare nel raggio di sole di questi corpuscoli di polvere; eterne per noi effimeri, sapienti per noi che siamo nati in esse, che abbiamo tratte da esse la possibilità della nostra vita, il cui criterio di sapienza e di ordine è quindi modellato a posteriori su di esse, precisamente come una specie di insetti che fosse nata dalle e nelle violenti irregolarità atmosferiche d’una gola montana agitata da venti vorticosi, troverebbe normale il turbinio disordinato del’atmosfera, appunto perché dagli elementi d’un tale ambiente esterno essa specie è stata creata, appunto perché da siffatti elementi essa è scaturita, proprio di questi è quasi a dire composta e concreata, e quindi in mezzo ad essi può muoversi e vivere: e se essi appunto le han dato vita e l’hanno modellata conforme a sé, e se quindi in essi la sua vita regge, è naturale che tali elementi, quali si siano, vengano presi da essa per ordine e legge eterne di eterna sapienza".

E perché mai per Kant una delle due cose che gli riempivano l’animo di religiosa venerazione "sempre nuova e crescente", doveva essere il cielo stellato, proprio per Kant secondo la cui dottrina quel cielo non è che una nostra rappresentazione, dipendente dalla presenza dell’attività sensibile e che sparirebbe con lo sparire di questa?

Stelle: pulviscolo. […]

Ma quando d’altro lato percepisco in me l’impossibilità insormontabile di aderire a siffatto Male imperante trionfalmente nel mondo, principe di esso, ἄρχων τοῦ κόσμου (Giov. XII, 31; XIV, 30), anzi Dio di esso, θεὸς τοῦ αἰῶνος τούτου  (II Cor. IV, 31 [ma IV, 4], pur vedendo con chiaro sguardo i vantaggi che con ciò perdo e i danni cui vado incontro in questa pur breve ed unica vita; quando non ostante la perdita dei primi, così’ allettanti, e l’incombere dei secondi, così aspri e duri, sento persistere e fiammeggiare invincibilmente in me questa, dal punto di vista umano e razionale, "pazzia", di stare, in opposizione ad ogni mio evidente interesse, conto siffatto Male saldo dalla parte del Bene; quando avverto in me l’assurdo — il miracolo, il divino — dell’impossibilità insuperabile di pormi al seguito e servizio del Male e rinnegare il Bene, e ciò senza, al contrario, ogni ragione utilitaria, ossia contro ogni ragione determinabile; quando sento quindi presente entro di me, in guisa assai più intima e vivificatrice e inspiratrice che non nei molti il Dio da essi creduto e rispettato o venerato a parole con mera esteriorità e formalismo, questo "slancio" ("élan vital") dell’Eterna Volontà di Vero e di Bene che diventa in me il mio impulso ad abbracciare energicamente e ad affermare a costo d’ogni detrimento mondano ciò che scorgo come verità e come bene; quando avverto quello ‘slancio’ come alcunché che i è trascendente e sopraindividuale poiché mi costringe anche con mio danno a seguirlo e obbedirlo, quantunque esso non sia certo Ciò che ha suscitato questo mondo di crudeltà e di male, di irrazionalità e di assurdo, e quantunque io non sappia se un tal mondo a lui antitetico e ostile esso riuscirà a definitivamente padroneggiare; quando sorgo che se al Vero si dà il nome di Dio, allora questi è la mia stessa negazione che di lui, in una o l’altra delle consuete concezioni che se ne hanno, io compio, con mio svantaggio e pericolo, contro i pregiudizi, gli opportunismi; quando sento che, supposto che ci fosse un giudizio divino futuro che scruti le reni agli individui, ciò che solo potrei recare dinanzi al Giudice per controbilanciare colpe e deficienze, sarebbe tale mio attaccamento SENZA SCOPO al Bene del mondo contro il Male che vi domina, e il dolore SENZA SCOPO, che mi toglie ogni sorriso, per lo spettacolo del Male imperante e trionfante nella natura e nella storia umana, della falsificazione e del guasto di coscienze che esso trionfando cagiona, della scia di tormenti, strazi e lagrime che esso si lascia dietro nel suo passaggio trionfale; allora mi appare che oltre gli atomi e il vuoto all’esterno, ossia la platonica ‘materia’ del "Timeo" […] c’è all’interno, in coordinato con essi, alcunché di diversa natura e di diversa origine: sento allora di credere, se non nel θεός, nel θειον; e allora così mi si completa il mio.

Ecco: questo "testamento" è un buon esempio di prosa non filosofica, che tuttavia pretende di essere tale; e voler far dell’autore il solo filosofo italiano che merita di sopravvivere è un’affermazione priva di senso. Come nel caso di Leopardi, qui abbiamo un pessimismo emotivo, non razionale, perché non argomentato, e uno sfoggio di retorica sentimentale, spacciata per filosofia. Tralasciando un paio d’infortuni sintattici non proprio irrilevanti (noi che… abbiamo tratte da esse la possibilità della nostra vita: semmai tratte le possibilità, perché la possibilità è singolare, mentre tratte è plurale; e dalle e nelle violenti irregolarità atmosferiche, dove violenti, aggettivo maschile, non concorda con irregolarità, sostantivo femminile), da tutto il ragionamento di Rensi, se così lo possiamo chiamare, emerge il tipo vizio di fondo della forma mentis progressista: dare per scontato che la realtà sia come dicono costoro, e scuotere il capo con commiserazione davanti agli altri, al vulgo grossolano, che non capisce, che non sa innalzarsi alle loro altezze.

Dunque, per prima cosa Rensi rimprovera a Napoleone di non aver considerato che il cielo stellato non vale più dei corpuscoli di polvere che si muovono in un raggio di sole (immagine rubata al De rerum natura di Lucrezio; sarebbe stato carino citarlo); rimprovero che si estende allo "scienziato" Louis Monge, che è in realtà un matematico, ma forse Rensi intendeva il fratello, Gaspard, che fu in Egitto con Napoleone, e fu matematico anch’egli). Secondo il Nostro, Monge avrebbe dovuto far notare a Napoleone l’ingenuità della sua domanda : Chi ha fatto tutto questo?, perché è tipico dei progressisti rimproverare agli altri, magari a distanza di secoli, di aver detto questa o quella cosa, o anche di non averla detta, mentre avrebbero dovuto dire questo e quest’altro. Si noti il loro modo di ragionare: non si limitano a dire: secondo me, le cose stanno così; ma dicono agli altri: tu hai sbagliato a dire così e così; avresti dovuto dire colà e così; insomma, sono sempre col ditino alzato e fanno sempre le pulci al prossimo, specie se questi non la pensa come loro, il che è indizio inequivocabile del fatto di essere in errore e di avere torto marcio. Poi, rincalza la dose: se tutto l’universo si contraesse alle dimensioni di una noce, non sarebbe una misera cosa? Ancora ci sarebbe un Napoleone ad ammirarlo? Evidentemente, non gli viene in mente che sì, un uomo intelligente, e capace di stupirsi davanti alle cose, resterebbe ugualmente ammirato, forse perfino più ammirato che davanti al dispiegarsi delle stelle e delle galassie nel vasto cielo notturno; non gli passa per il cervello che non è questione di quantità, come lui crede, e che l’universo offre uno spettacolo ammirevole sia che si espanda per milioni di anni luce, sia che si restringa alle dimensioni d’una capocchia di spillo. Ma siccome Napoleone gli è palesemente antipatico, perché è stato un tiranno (il che è innegabile), non vuol fargli credito di una intelligenza superiore a accusa lui di pensare in modo ingenuo e megalomane, come volesse paragonare se stesso a Dio: perché il progressista disprezza sempre e comunque il "reazionario", non gli fa credito di poter pensare in modo intelligente e, soprattutto, non gli riconosce una individualità, il reazionario essendo per lui una categoria metafisica, il Nemico, lo Stupido, il Grossolano per definizione. Invece, la domanda di Napoleone sotto il cielo delle Piramidi rivela davvero, e intelligenza, e grandezza d’animo: al di là di quel che si può pensare di lui come uomo politico. E anche quella di Kant: ma, per una vola, pur di portare avanti la sua idea, Rensi non si perita di dare torto e infliggere una tirata d’orecchi anche al suo venerato maestro di Königsberg.

Il fatto è che a Rensi dà fastidio l’idea che qualcuno possa provare un sentimento di piccolezza davanti a Dio; che qualcuno possa pensare a Dio; che qualcuno possa provare un sentimento di umiltà davanti al Mistero: perché, per Rensi, non ci sono misteri, ma solo problemi, e i problemi si risolvono, un po’ alla volta, purché non si scivoli nel fideismo. Si risolvono con la ragione e con la scienza, beninteso: e non lo sfiora il sospetto che questa sia un’altra forma di fideismo, non certo migliore di quelle che lui detesta. La seconda parte del testamento è ancor più penosa, dal punto di vista filosofico. In sostanza, Rensi fa capire di ritenersi non solo pari a Dio, ma superiore a Dio, beninteso se un Dio esistesse, cosa palesemente assurda, secondo lui; e fonda la sua superiorità sul fatto che lui, e altri come lui, lottano per il bene e soffrono sacrifici e dolori, mentre il mondo è pieno zeppo di male, talmente zeppo che nessun Dio può averlo creato, o, quanto meno, nessun Dio che sia buono. Qui è ancora più leopardiano (al punto di citare continuamente espressioni del Nuovo Testamento, come l’autore della Ginestra, ma per capovolgere il senso delle frasi) e ancora meno filosofo. Che il mondo sia solo sofferenza e angoscia, questa è una deformazione soggettiva della verità: la verità, tutta intera, è che nel mondo ci sono sofferenza e angoscia, ma ci sono anche gioia e cose belle. Il filosofo sa vedere l’intero, non solo la parte, magari quella che fa comodo ai suoi ragionamenti. In secondo luogo, il suo senso di superiorità morale è ingiustificato: se davvero si fa il bene in maniera disinteressata, lo si fa senza quella tristezza, senza quel senso di scoramento che trasuda dalle sue parole: lo si fa con serenità e con un profondo senso di pace. Altrimenti, significa che ci si sforza di agire in un modo che non si sente intimamente: che si sta recitando una parte. La conclusione è un delirio di onnipotenza, a confronto del quale la megalomania di Napoleone appare qualcosa di puerile: Napoleone si sente grande perché, con tutte le sue vittorie, somiglia a un dio in terra; ma Rensi si sente non solo grande, immenso, per non dire infinito, perché mentre Dio tollera un mondo malvagio, lui, invece, soffre e s’indigna, inoltre lotta contro il Male disinteressatamente, senza cercare alcun compenso, né terreno, né ultraterreno. Bene; bravo: ma se lo è già detto da solo. Non può pretendere che altri lo applauda: ha già avuto il suo premio. Dunque, tanto disinteressato non era.

Benedetti progressisti: vogliono essere sempre e comunque i primi della classe, tanto come intelligenza, quanto come moralità. Chi è miglior pensatore di loro, e chi nutre più elevati sentimenti etici? Se poi, oltre che progressisti, sono anche pessimisti, non c’è alcuno che abbia il diritto di soffrire più di loro, né di lottare per il Bene più di quanto lottino loro, incompresi e misconosciuti.

Che bravi. Bisognerebbe far loro un monumento. Anche se, a dire il vero, se lo son già fatto da soli: e tale è la loro falsa umiltà, che sono certi, certissimi, che, se pure il mondo non s’inchina davanti al loro genio mentre essi sono ancora in vita, lo farà, un giorno o l’altro, eccome se lo farà, dal momento che la Verità è tutt’uno con loro, mentre l’Errore si accompagna infallibilmente a quelli che la pensan in un altro modo…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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