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Ogni cosa tende a Dio

Ogni cosa tende a Dio.

Quanto è stata fortunata la mia generazione! Forse perché il Friuli è una terra periferica, almeno rispetto all’Italia (ma non rispetto alla Mitteleuropa, suo vero contesto storico-culturale), e il "miracolo economico" vi è giunto con parecchio ritardo, sta di fatto che quanti vi sono cresciuti fra gli anni ’50 e i primi anni ’60 hanno fatto in tempo, tra le molte altre cose positive — una famiglia ben solida; una scuola molto seria; un’infanzia fatta di giochi e di stupore, e non di telefonini e computer – a ricevere una vera educazione cattolica, e soprattutto un’impronta di vita complessiva ispirata ai princìpi e ai valori del cristianesimo: ed è l’impronta di vita ricevuta nell’infanzia che decide tutto il resto. Non è importante, o almeno non è decisivo, che quell’impronta di vita venga subito accettata e fatta propria dall’individuo; non è neppure indispensabile averla vista incarnata e realizzata coerentemente nella maggioranza delle persone o delle famiglie, e, al limite, neppure nella propria: è importante averla vista, anche poche volte, e aver constatato che essa è possibile, che può tradursi in un modo di vivere, di amare, di sognare, di agire, di studiare, di lavorare, di stare insieme agli altri. L’impronta di vita è come la bussola per il marinaio o come l’ago magnetico per la bussola: è qualcosa di cui si sa l’esistenza e di cui ci si ricorda, magari a distanza di anni, perfino di decenni; è qualcosa che agisce in profondità, che alimenta le radici stesse della vita interiore, perfino all’insaputa della coscienza, ma che, un bel giorno, riemerge, in tutta la sua forza. Che siano benedetti quanti, con il loro modo di essere, aiutano il bambino a ricevere una positiva impronta di vita; che siamo maledetti quanti lo sporcano e lo contaminano con un’impronta di vita negativa. Se ogni uomo è una storia sacra, ogni bambino rappresenta una storia doppiamente sacra, perché le pagine nel libro della sua vita sono ancora quasi tutte bianche, e su di esse egli, crescendo, potrà scrivere un poema paradisiaco, oppure una storia di brutture e di orrori.

L’impronta di vita che ha ricevuto la mia generazione, in quella parte d’Europa — un’Europa che ancora credeva in se stessa; che da poco era riemersa dalle macerie della Seconda guerra mondiale, e che amava la vita quanto basta per mettere al mondo più figli di quanti erano coloro che morivano, e che scommetteva nell’avvenire di quei figli, invece di fare l’apologia dell’amore omosessuale — e in quel momento storico — quando era finita la miseria, ma non aveva ancora fatto irruzione un "benessere" disumano e brutalmente materialista — ruotava intorno ad un solo concetto, variamente espresso e declinato e, del resto, assai semplice: ogni cosa tende a Dio. Non voglio cadere nella tipica idealizzazione nostalgica del passato e non mi nascondo che molte cose, a quel tempo e in quel luogo, fossero ben poco cristiane: tanto per dirne una, era estremamente diffusa la pessima abitudine di bestemmiare, con molta frequenza, come un vero e proprio intercalare del discorso; abitudine che si accompagnava a un’altra, e spesso le due s’intrecciavano, quella del bere vino in maniera smodata (pur essendo i friulani un popolo di grandissimi lavoratori). Così, non mi sogno di affermare che la maggior parte delle persone vivesse un cristianesimo del tutto coerente, né, tanto meno, che fosse in odore di santità. Oso tuttavia affermare che l’impronta complessiva, che si respirava in quasi tutti gli atti della vita, era di matrice cristiana e cattolica, e rivestita di una luce gentile, quella del Vangelo.

Non solo esisteva un consistente numero di persone — sia laici, per esempio padri e madri di famiglia, sia religiosi, come sacerdoti, frati e suore – che si sforzava di vivere in maniera autenticamente cristiana, vale a dire in maniera coerentemente cristiana, e io li ho visti e lo posso testimoniare, non è stato un sogno o un’illusione; ma anche la maggioranza degli altri, cioè di coloro i quali, almeno in apparenza, erano ben lontani dal tentare un simile sforzo, tradivano, per così dire, in maniera quasi involontaria, la sostanza cristiana della vita sociale e individuale. Più o meno come un contadino inurbato, il quale si forzi di adeguarsi al modo di vita cittadino e magari cerchi di nascondere la sua parlata campagnola, senza però poter evitare che la cadenza dialettale lo riveli per quello che realmente è: allo stesso modo la stragrande maggioranza delle persone, compresi quanti bevevano e bestemmiavano assai più di quanto sia compatibile con la decenza e con la vita buona, tradivano, in qualche modo e in qualche misura, l’impronta di vita cristiana che avevano a loro volta ricevuto, e che, quasi loro malgrado, in qualche modo e in certa misura finivano per trasmettere a loro volta. Miracolo del bene: dove cade il seme buono, esso finisce per germogliare, benché, per un certo tempo, possa sembrare che è andato perduto:ma quel che avviene nelle profondità della terra, sotto la zolla indurita dall’inverno e ricoperta dalla neve, nessuno lo può vere, e nessuno lo può sapere esattamente. La mia generazione, dunque, tra le altre fortune, ha avuto anche questa, la più grande di tutte (e diciamo "fortune", ma sappiamo che nulla, nella vita, è frutto del mero caso): quella di aver sentito, di aver capito, di aver visto, che ogni cosa tende verso Dio, che ogni cosa viene da Dio e a Dio vuol fare ritorno, così come tutti i fiumi vengono dall’acqua del mare, e al mare finiscono tutti per volgere il loro corso.

C’è un’immagine che illustra visivamente questo concetto: quella del Duomo di Gemona, dedicato a Santa Maria Assunta: una meraviglia dell’architettura romanico-gotica realizzata tra la fine del 1200 e i primi decenni del 1300 — l’età di Dante e della Divina Commedia -, quando c’era ancora il Patriarcato del Friuli; con la sua facciata magnifica, l’enorme ed elegantissimo rosone centrale, al di sopra dei due laterali e più piccoli, e la statua di un san Cristoforo alta qualcosa come sette metri, ma che sembrano anche di più quando la si guarda dal basso; e, subito dietro, le pendici scoscese del monte Glemina, che domina con la sua mole incombente la stupenda cittadina medievale. Ebbene: chi viene dal centro, camminando sotto i portici, o dalle borgate settentrionali, arrivato a un certo punto della via centrale ha una sorpresa: la strada fa una curva ed egli si trova davanti la facciata del duomo, in tutta la sua imponenza ed eleganza, di pietra bianca; ed essa gli appare vicina, vicinissima: per uno strano effetto ottico, gli sembra quasi che potrebbe toccarla, soltanto allungando una mano. Le facciate delle case, le finestre, i balconi, sono come le quinte di un teatro che si spalanca d’improvviso su tanta magnificenza: come se qualcuno avesse alzato il sipario e i rosoni d’impareggiabile finezza, l’enorme san Cristoforo in atteggiamento ieratico, il portone spalancato — capolavoro rinascimentale di Bernardino da Bissone — si offrissero allo sguardo in tutto il loro splendore e la loro magnificenza. Eppure, strano a dirsi, tanta vicinanza prospettica non crea un effetto di schiacciamento o di soffocamento delle case vicine; al contrario, vi è un effetto di armoniosa integrazione, di reciproco scambio e arricchimento: il sacro e il profano, la vita contemplativa e la vita attiva, la sfera dell’invisibile e quella del visibile, s’incrociano e si potenziano a vicenda, in una sintesi ammirevole, perfetta.

E così deve essere.

In una società ordinata, conscia di sé, fiera di sé, vitale, ben attaccata alle proprie radici e innamorata della vita, decisa a offrire un futuro ai suoi figli, i valori spirituali devono integrarsi compiutamente con i valori pratici, quelli della vita attiva: il lavoro, le cure della famiglia, la dimensione economica. Tale deve essere una società organica: non un ammasso disordinato di monadi, di egoismi individuali, di gente sradicata e inconsapevole, che non sa da dove viene, né dove vuole andare — e non solo in senso fisico; non un agglomerato d’individui, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso, non si preoccupa che di se stesso, delle sue "esigenze", della sua "realizzazione", e che vuol vivere di "emozioni", possibilmente forti, possibilmente frequenti, come un drogato che ha bisogno di dosi sempre maggiori di sostanze stupefacenti; ma una comunità armoniosa, nella quale il bene del singolo non configge, ma si integra con il bene comune, e nella quale vi è una sostanziale condivisione dei valori essenziali e un generale accordo nel tenere lontane le forze nefaste e distruttive che introdurrebbero la pianta velenosa della dissoluzione. E per tenere lontane le forze della dissoluzione non c’è bisogno di prigioni o, Dio e ce ne scampi, di campi di concentramento: c’è bisogno, in primo luogo, di cuori generosi, di persone disposte al sacrificio, di padri e madri di buona volontà, di persone colte che mettano il loro sapere a disposizione degli altri per farli crescere ed aspirare alle altezze, non per confonderli e disorientarli; infine, di un clero consapevole della sua missione, spirituale, devoto, disciplinato, che conosce bene la dottrina e che non teme di rimboccarsi le maniche nella palude della civiltà moderna, fondata sull’edonismo e sul’individualismo disruttivi.

Non abbiamo alcun bisogno di un clero modernista, il quale mette in dubbio la testimonianza dei Vangeli, come ha fatto sfrontatamente, e purtroppo impunemente, padre Sosa Abascal, il nuovo generale dei gesuiti, secondo il quale non si sa cosa realmente disse e fece il nostro Signore Gesù Cristo. No: di un clero così non sappiamo che farcene; o, per dir meglio, sappiamo che un clero così rappresenta un vero e proprio tradimento verso Dio, verso le anime e verso duemila anni di storia della Chiesa, cioè duemila anni di opere, insegnamenti ed esempi di vita cristiana. Che se ne vadano altrove, a dire e predicare simili eresie, a recare un così grave turbamento nella coscienza dei fedeli: che fondino le loro sette ereticali e massoniche, gnostiche e relativiste, e cessino di spacciarsi per pastori del gregge, quando si vede che sono lupi rapaci, e nessuno riconoscerebbe, nella loro voce, la voce del pastore. Che tornino nel letamaio intellettuale e morale dal quale sono stati vomitati: non son degni di vestire quell’abito, né di parlare a nome di Cristo. Diceva Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars: Lasciate una parrocchia per vent’anni senza un prete, e gli uomini si metteranno ad adorare le bestie! Ecco perché la società ha bisogno dei preti, al di là degli umani difetti di questo o quell’individuo; ma non di un clero qualsiasi, non di un clero modernista, il quale introduce un disordine ancor peggiore della mancanza di guida spirituale. C’è qualcosa di peggio dell’assenza di guida spirituale: c’è la falsa guida spirituale, c’è il lupo che si traveste da pastore, c’è la malizia diabolica di chi dovrebbe custodire le pecorelle e, invece, le getta allo sbaraglio, le disperde, le disamora di Dio, le inganna, le spinge alla rovina. Una società disamorata di Dio, o ingannata da false immagini di Dio, finisce per trovarsi, se possibile, in una situazione ancor peggiore di una società senza Dio, di una società che a Dio ha voltato le spalle apertamente e consapevolmente, come quella immaginata e annunciata da Nietzsche. Perché se il figlio prodigo può sempre pentirsi della sua vita disordinata e decidere di tornare indietro, gettandosi ai piedi del padre e supplicandolo: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non son più degno di essere chiamato tuo figlio, una società disamorata di Dio, o assuefatta ad adorare un falso dio, è una società che ha perduto anche la speranza di potersi convertire, di poter rinsavire, di ritrovare, un giorno, magari lontano, la strada di casa. È una società che ha imboccato la strada del capolinea: la strada dell’inferno. E questa, secondo moltissimi indizi, è precisamente la direzione di marcia che ha preso la nostra società, oggi.

Se vogliamo salvarci, se vogliamo sperare di non perire — come dice il poeta Ungaretti -, dobbiamo ritornare alla saggezza dei nostri nonni, e renderci conto che ogni cosa tende a Dio; pertanto, dobbiamo restituire una nitida impronta di vita cristiana e cattolica alle nuove generazioni, partendo dall’educazione dei più piccoli. Non c’è alcuno spazio, e del resto non c’è più nemmeno tempo, per giochetti e ambiguità: o le cose tendono a Dio, come naturalmente avviene, oppure si allontanano, e in tal caso non c’è neanche bisogno di dire verso chi o che cosa vadano. L’andare a Dio è secondo natura, perché la natura viene da Dio e a Dio aspira a ritornare: Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto, come dice san Paolo (Romani, 8, 22); l’allontanarsi da Dio è, perciò, cosa contro natura. Se l’impronta di vita che gl’individui ricevono dalla società non esprime l’idea che ogni cosa tende a Dio, allora essi riceveranno una contro-educazione, e introietteranno l’idea che ogni cosa è a disposizione dell’egoismo di ciascuno, degli appetiti più infimi e bestiali. Nessuno si faccia delle pericolose illusioni: tertium non datur. La vita è una battaglia, e in questa battaglia o si sta con Dio o si sta con il suo (e soprattutto nostro) nemico. I satanisti e i seguaci delle società segrete dai fini inconfessabili lo sanno molto bene: l’uomo è incapace di vivere solo per se stesso; se abbandonato ai suoi istinti, si autodistruggerebbe nel giro di poche generazioni. Di fatto, è quel che sta avvenendo. Ma una cosa ci resta ancora da fare, prima di attendere la nemesi della nostra superbia e della nostra avidità: gettarci in ginocchio davanti al Padre e confessare apertamente il nostro peccato: Padre, abbiamo peccato contro il Cielo e contro di Te; non siamo più degni di essere chiamati tuoi figli; trattaci come dei servi. Se saremo capaci di un tale atto di umiltà; se sapremo umiliare il nostro orgoglio, abbassare la nostra infernale superbia, saremo salvi. Perché Lui, con le braccia aperte, non sta aspettando null’altro che il nostro ritorno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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