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Come la neochiesa stravolge la parola di Cristo

Domenica 1° ottobre 2017, sulla frequenza di Rete 2000, don Dino Pirri, classe 1972, parroco a Grottammare, in provincia di Ascoli Piceno, e conduttore di una serie di commenti televisivi al Vangelo festivo intitolata (ma guarda che originalità…) Sulla strada, tanto per far capire da che parte sta in tempi di preti di strada e di vescovi di strada, ha parlato della pagina evangelica di Matteo, 21, 28-32 (XXVI del Tempo Ordinario, anno A), in cui Gesù racconta la parabola del padre e dei due figli ai quali aveva chiesto di andare a lavorare nella vigna, per poi affermare davanti ai sacerdoti e agli anziani del popolo che i pubblicani e le prostitute passeranno loro avanti nel Regno di Dio. È stata una magnifica occasione per paragonare gli scribi e i farisei ai cattolici, fermo restando il secondo termine di paragone: i peccatori e le prostitute. In tal modo, nella versione politicamente corretta dell’esegesi biblica, secondo il nuovo corso bergogliano, progressista e misericordioso, il messaggio della parabola, attualizzato, diventava il seguente: i cattolici sono come il figlio che promette di andare a lavorare nella vigna, ma poi non ci va; si vantano di essere cattolici, pensano di avere il Vangelo dalla loro e la salvezza assicurata, invece sono pieni di malizia, indolenza e ipocrisia; mentre le prostitute e i peccatori sono molto meglio di loro, benché peccatori, perché sono più disponibili a fare ciò che è giusto, pur senza dirsi e senza essere cattolici. In sintesi: è meglio non esser cattolici che esserlo: ci sono maggiori probabilità di entrare nel Regno dei Cieli. Ancora più in sintesi: che brutta gente, i cattolici; gente da cui è meglio stare alla larga, falsa come la moneta, per giunta superba; molto meglio di loro i peccatori che vengono dalla strada, però, in fondo, sono tutti delle brave persone. Ovvero: come ti capovolgo il senso di una parabola evangelica in quattro mosse, secondo il modello della "finestra di Overton". Prima mossa: si "forza" l’identificazione dei sacerdoti e degli anziani del popolo con quella dei cattolici d’oggi, troppo orgogliosi di star dentro la Chiesa. Seconda mossa: la Chiesa è fatta di gente insincera, che non fa quel che dovrebbe fare, perché pensa di essere già a posto con Dio. Mossa numero tre: quelli che sono fuori della Chiesa, quelli che non sono cattolici, che non credono né ai Sacramenti, né alla Grazia, né al Giudizio di Dio, verranno prima di loro nel Regno dei Cieli. Quarta mossa: dunque, evviva i non cattolici, evviva la gente che non vuol saperne del Vangelo, perché, tutto sommato, si tratta di una umanità più sana, più "pulita", non ancora corrotta dalla presunzione della salvezza: è come il buon selvaggio di Rousseau, non ancora corrotto dai cattivi costumi della società; e abbasso, naturalmente, i cattolici, questa razza di vipere che da sempre si vanta di virtù che non possiede, che ha in bocca la parola di Dio, però non la mette in pratica mai.

C’è solo un piccolo dettaglio che non quadra, in tutta questa bella manovra strategica: che Gesù Cristo non intendeva dire affatto una cosa del genere. Tanto per cominciare, Gesù parlava in maniera deliberatamente provocatoria, ma per una ragione tanto precisa quanto contingente: le sue parole non hanno un valore assoluto, ma relativo, perché, in quel momento, il suo scopo era quello di smascherare la malizia degli anziani e degli scribi, i quali, a loro volta, avevano cercato di metterlo con le spalle al muro, sfidandolo e chiedendogli con quale autorità dicesse e operasse quelle cose. Pertanto, non stava affermando una regola di carattere generale: non stava asserendo che i peccatori sono migliori dei non peccatori. In secondo luogo, le prostitute e i pubblicani di cui parla Gesù hanno avuto un profondo e radicale pentimento, si sono ravveduti e hanno deciso di cambiar vita: non entrano nel Regno dei Cieli da peccatori, ovviamente, ma da redenti e riconciliati con Dio; se si omette questo aspetto, è come se si dicesse che Gesù ha rimandato libera la donna adultera, senza farle alcuna esortazione o raccomandazione, mentre invece le ha detto: Vai, e non peccare più. Anche l’affermazione di Gesù, di essere venuto per i peccatori e non per i giusti, viene facilmente distorta e addirittura rovesciata, qualora non la si collochi nella giusta prospettiva: cioè che Gesù è vento per i peccatori, sì, ma allo scopo di redimerli, non di lasciarli nel peccato; e che i giusti non hanno bisogno di lui, non perché Egli non si cura dei giusti, ma perché essi sono già salvi, come le novantanove pecorelle che sono al sicuro nell’ovile, per cui il Buon Pastore se ne va a cercare quella che s’era smarrita. Se si tace, o si minimizza, questo aspetto, che poi è quello essenziale, della conversione dei peccatori, si stravolge il Vangelo e si manipola la Parola di Gesù; paradossalmente, si compie un’alterazione della verità simile proprio a quella dei farisei e degli scribi, i quali, per il fatto che Gesù non disdegnava la compagnia dei peccatori, lo accusavano di essere simile a loro, un ghiottone e un beone, che mangiava e faceva un mucchio di cose nel giorno di Sabato, non curandosi affatto della Legge di Dio.

Nella loro malizia, i neopreti della neochiesa vorrebbero operare una sottile ma radicale forzatura del senso delle Parole di Cristo e delle sue azioni, per farne una specie di campione dell’umanità peccatrice, e non già il suo Redentore. Non solo: il loro vero intento è soprattutto quello di puntare l’indice contro la Chiesa e contro i cattolici, accusando l’una di non essere rimasta fedele al vangelo (come facevano e fanno i protestanti), gli altri di essere legati in maniera meschina e presuntuosa al loro credo, dal quale si aspettano la salvezza in maniera automatica, mentre è dubbio che essi sano in grazia di Dio ed è più probabile che i peccatori li precedano agli occhi del Signore. Insomma, costoro riescono a servirsi del Vangelo per pretendere una chiesa che sia sempre meno Chiesa, che sia sempre più una anti-chiesa, una contro-chiesa, e per invitare i cattolici a non essere più tali, perché, fra tutti gli uomini, i cattolici sono, a ben guardare, quelli che hanno meno probabilità di entrare nel Regno di Dio, dato che sono anche i più formalisti e i meno sinceri nel mettere in pratica i comandamenti. In tal modo, i neopreti stanno costruendo, giorno dopo giorno, un neo-vangelo, o contro-vangelo, o anti-vangelo, nel quale essi riescono a far dire e fare a Gesù Cristo più o meno il contrario di quel che Egli ha detto e fatto. Quando Gesù dice che sono i malati ad avere bisogno del medico, e non i sani, dice una cosa evidente e di puro buon senso; però, nella bocca di codesti preti progressisti e modernisti, la frase di Gesù muta completamente di significato e pare voglia indicare che il medico non si cura dei sani, mentre vuol bene solo ai malati, non al fine di guarirli, ma così come sono. E che altro significa, nel capitolo 303 della esortazione Amoris laetita, affermare – come fa papa Francesco — che Dio, in certe circostanze, non chiede al peccatore di uscire dal suo stato di peccato, ma si accontenta di ciò che egli, "in coscienza" (sic!), può fare, anzi, arriva addirittura ad affermare che Dio, in certi casi, non solo si aspetta dal peccatore che persista nel suo peccato, ossia che il divorziato persista nel legame con un altro uomo o un’altra donna, ma che, forse, questo è esattamente ciò che Dio desidera che egli faccia? Non è questo un esempio chiarissimo dello stravolgimento di senso del Vangelo, operato soprattutto sotto il pontificato di Bergoglio, e volonterosamente portato avanti da migliaia di neopreti, entusiasti di questo papa, proprio perché è un papa secondo i loro desideri, cioè un papa secondo ciò che piace al mondo piuttosto che secondo ciò che piace a Dio?

Prendiamo adesso il caso del vescovo di Bologna Matteo Zuppi, tipico esempio di neovescovo della neochiesa, o di vescovo di strada, come lui e i suoi simili amano definirsi, civettando con l’analogia implicita con le donne di strada; ma, per carità, sempre nel senso "evangelico", cioè che le donne di strada precederanno gli altri nel Regno dei Cieli. Monsignor Zuppi ha avuto la bella pensata di far allestire un pranzo per oltre mille persone povere (oltre mille, sì, avete capito bene), con il papa Francesco quale ospite d’onore, dentro la basilica di san Petronio: immaginatevi le tavole, il cibo, i bagni chimici per mille persone. Evidentemente, nella diocesi di Bologna non c’era un altro locale da adibire per la bisogna; non c’era un salone parrocchiale, o un asilo, o, in questi tempi di crisi delle vocazioni, la mensa di un seminario semivuoto, o chiuso del tutto. Eh, no: bisognava che fosse proprio una chiesa, anzi, la Chiesa, la basilica maggiore della sua diocesi, per far vedere da che parte sta lui, il vescovo di strada: dalla parte dei poveri, naturalmente. E subito la stampa filo-bergogliano è scesa in capo per difenderlo dalle basse insinuazioni dei malevoli, e per ricordare che anche in passato i poveri sono stati accolti e sfamati in chiesa, ad esempio (sono citazioni di Vatican Isider) ai tempi di papa Gregorio Magno, che serviva addirittura a tavola, oppure prima ancora nel V secolo, quando Paolino da Nola in persona poté assistere, e lodare, un pranzo per i poveri offerto nella Basilica di san Pietro. C’è un particolare, però, che questi sfegatati tifosi della neochiesa progressista non hanno considerato: che non c’era alcuna necessità impellente, tale da giustificare una simile profanazione: nessuna guerra, nessuna pestilenza, nessun terremoto; sì: profanazione; perché le chiese sono fatte per celebrare la santa Messa, cioè il Sacrificio eucaristico, non per far pranzare le persone, tanto meno per fungere da gabinetto pubblico. Per quelle cose, ci sono le mense dei frati o quelle parrocchiali, che possono svolge egregiamente la loro funzione, senza sognarsi d’insozzare la chiesa, luogo di culto e di preghiera. Ma il messaggio dei neovescovi è evidente: vogliono desacralizzare il sacro, vogliono far vedere che l’unica cosa che conti è l’amore dei poveri. Inutile dire che non si danno alcun pensiero di domandarsi se Gesù si fosse mai fatto assistente sociale a beneficio dei poveri, e se, quando parlava dei "poveri", il Signore intendesse sempre e solo quelli che lo sono in senso materiale, o non anche, e magari soprattutto, i poveri in senso morale, cioè coloro che se ne stanno lontani dall’amore di Dio: cosa che può succedere anche ai ricchi, anzi, soprattutto ai ricchi, visto ciò che ha detto sul fatto che è più facile che un cammello passi per la cruna di una ago, che un ricco entri nel Reno dei Cieli. Insomma, Gesù non era né un operatore sociale, né un sindacalista, né un riformatore politico e tanto meno un rivoluzionario: era il Figlio di Dio venuto ad annunciare la Buona Novella dell’amore e del perdono, e soprattutto della confidenza totale nel Padre.

E il papa misericordioso, quello stesso che, con pochissima misericordia, e senza alcuna spiegazione, ha commissariato i Francescani e le Francescane dell’Immacolata, troppo cattolici per i gusti di un papa che si è premutato di farci sapere che "Dio non è cattolico", è andato a san Petronio all’invito di Matteo Zuppi, il giorno 1° ottobre 2017, e ha consumato, insieme ai poveri, un pranzo a base di lasagne e cotolette, come la stampa servilmente adulatrice si è affrettata ad informarci. Del resto, monsignor Zuppi, quand’era vescovo ausiliare di Roma, l’abitudine di trasformare le basiliche in sale da pranzo per i poveri ce l’aveva già: in quel caso aveva prescelto, e proprio per il santo Natale, una delle basiliche più belle e suggestive della Città Eterna, quella di Santa Maria in Trastevere. E anche in quel caso, non è che vi fossero ragioni di estrema urgenza o necessità; non è che non ci fossero altri luoghi, più adatti, dove imbandire il pranzo per i poveri: ma vuoi mettere il bagno di popolarità che iniziative così sfacciatamente demagogiche assicurano a chi le organizza? Mio Dio, vien da arrossire di vergogna al posto di simili personaggi, davanti a una così esibita dimostrazione di narcisismo e di piacioneria: visto che non arrossiscono da se stessi, bisogna pur che qualcuno lo faccia al posto loro. Ma quello di Santa Maria in Trastevere era un evento in sordina, fatto quasi con discrezione, in confronto all’evento di san Petronio, dove, per glorificare il papa della "svolta", i coperti messi in tavola, belli caldi e fumanti, erano un vero e proprio esercito: millequattrocento, addirittura. Più di quanti ne occorrano per sfamare tutti gli abitanti un comune di non grandi dimensioni, come ce ne sono tanti in Italia. Ma si sa quanto papa Francesco straveda per i poveri, sempre e solo in senso economico, si capisce, da buon ex arcivescovo latinoamericano che pare reciti l’ufficio sul Capitale di Marx, più che sul Breviario (anche se all’epoca, stranamente, non mostrava alcuna simpatia per la teologia della liberazione: misteri della provvidenza, con la "p" minuscola). Davanti a loro gli piace inginocchiarsi, per lavare i piedi a maschi e femmine (cosa sono questi vecchi pregiudizi misogini?); davanti al Santissimo, no, mai.

C’è una cosa, comunque, che vorremmo far sapere a tutti codesti neopreti, neovescovi e anche a questo neopapa: che l’abito non fa il monaco, e che non basta riempirsi la bocca con i discorsi sui poveri per amarli davvero, così come Cristo vuole che i suoi seguaci amino i propri simili. Il cristiano non ama come ama il mondo; l’amore del cristiano comprende la correzione fraterna, senza la quale esso diventa un inganno e una gravissima responsabilità a carico del cristiano stesso. Il seguace di Gesù che non ammonisce il peccatore, diventa corresponsabile del suo peccato e della sua perdizione. Forse, invece di sbandierare continuamente l’insegna dei poveri, tutto questo clero modernista e progressista dovrebbe domandarsi se stia agendo con fedeltà al mandato di Gesù Cristo; se stia insegnando che il peccato è il peccato, che il male è il male, e che i peccatori non vanno in Paradiso, ma all’Inferno. A meno che si pentano e cambino vita. Il fatto di essere poveri non giustifica tutto e non fornisce biglietti gratuiti per il Cielo. Ah, un’ultima cosa. Il filosofo Jean Guitton aveva già dato la risposta a quella tal domanda: Mi spiace per gli altri, ma Dio è cattolico

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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