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Erano ottusi allora, o sono impazziti adesso?

C’è una domanda che inquieta, e non può non inquietare, coloro i quali hanno assistito alla stupefacente metamorfosi della Chiesa cattolica nell’arco degli ultimi cinquant’anni, e hanno visto gran parte del clero passare a dire e fare tutta una serie di cose che prima sarebbero state semplicemente inconcepibili; hanno visto monsignori e sacerdoti, e da ultimo anche il papa, arrivare a dire e fare delle cose che sono l’esatta antitesi di ciò che dicevano e facevano i loro predecessori di mezzo secolo fa; che hanno visto, infine, e vedono ogni giorno, tutto questo vasto mondo di persone che si dicono cattoliche, dai teologi che insegnano nelle Facoltà universitarie fino all’ultimo credente che pratica, bene o male, la sua religione, andare continuamente a caccia di novità, di "svolte", di "riforme", e inventarsi senza posa qualche ulteriore "progresso", in modo da spostare sempre più avanti il baricentro della Chiesa, con la presta di modificare, dopo la liturgia, la stessa dottrina, e, incredibile a dirsi, di fabbricarsi una "fede" nuova di zecca, la quale, benché a parole lo neghino, è ben differente da quella dei loro padri, anzi, per dirla tutta, è qualcosa di completamente diverso, se non addirittura la sua antitesi radicale e inconciliabile. Ora, la domanda è questa: Ma hanno davvero coscienza, costoro, e specialmente i più anziani, i preti di una certa età, i religiosi coi capelli bianchi, i fedeli ormai pensionati e nonni con figli e nipoti, hanno davvero coscienza di quel che hanno fatto e che continuano a fare? Si rendono conto sino in fondo della portata del cambiamento che hanno attuato, o, se non lo hanno attuato, che hanno approvato, anche solo con il loro silenzio-assenso, e delle sue conseguenze? Hanno la chiara coscienza di essere stati i protagonisti, gli spettatori, e, senza rendersene conto, anche le vittime, di uno stravolgimento inaudito della fede e della Chiesa, che quella fede doveva custodire integra, e di aver scippato alle generazioni future la verità della dottrina cattolica, della sua morale, degli insegnamento del suo sacro Magistero? E non si dica che stiamo esagerando, che stiamo drammatizzando. Quando si arriva al punto che la Chiesa abbandona al suo destino, e perfino condanna, un professore cattolico che aveva sostenuto l’assoluta illiceità dell’aborto, alla luce della dottrina di sempre, come è avvento in Belgio; e quando un importante prelato tiene l’elogio del defunto Marco Pannella, portandolo a esempio di tutti i cattolici come uomo di straordinario impegno e di altissima spiritualità; e quando un gesuita invoca apertamente le nozze gay anche in chiesa, asserendo, nel contempo, che molti santi erano gay: quando si arriva ad un tal punto, e nulla accade da parte di chi dovrebbe vigilare e intervenire, c’è un silenzio che suona approvazione da parte della gerarchia, si vedrà come le nostre parole non hanno niente di esagerato o di teatrale.

Ora, che certi preti giovani e scalpitanti siano soggetti alla tentazione di fughe in avanti, non è cosa impensabile, anche se il voto di obbedienza e l’autorevolezza dei superiori dovrebbero esser più che sufficienti a trattenerli da eccesive intemperanze, se la Chiesa stesse vivendo una fase normale; ma che a dare l’esempio dell’intemperanza siano proprio i vecchi, questa è la cosa che deve far maggiormente riflettere. È vero che i sacerdoti anziani, diciamo vicini alla pensione, o anche oltre, ma pur sempre attivi nel promuovere freneticamente novità e mutamenti, sono quelli che avevano vent’anni quando ci fu il Concilio Vaticano II, che sollevò il coperchio della pentola e permise a tutti gli esalti, i presuntuosi, e, diciamolo a chiare note, a tutti gli eretici, purché avessero la decenza di velare anche solo superficialmente le loro vere intenzioni. Sono perciò anche quelli che hanno vissuto il vento di follia di quella stagione; che hanno incubato i germi di quella malattia; e che, evidentemente, non ne sono mai guariti, anche perché ogni cosa, intorno a loro, concorreva, non che a placare i bollori modernisti, a stuzzicarli e perfino a esasperarli. Sta di fatto che si vede con tristezza, con sconcerto, con incredulità, sacerdoti settantenni i quali calpestano senza alcun imbarazzo, senza ombra di vergogna, la sacra Tradizione, e che distorcono a loro uso e consumo le Scritture, adattando la divina Rivelazione alla loro smania di novità e al disegno di mondanizzare la Chiesa, di protestantizzarla e di contaminarla con elementi di tipo naturalistico e panteistico, e con altri di origine gnostica e massonica.

Uno di questi sacerdoti anziani che hanno scelto la strada della "rivoluzione" è don Armando Trevisiol, quasi ottantenne, che è stato per molti anni arcipete della chiesa dei santi Gervasio e Protasio a Carpenedo, vicino a Mestre. Personaggio molto conosciuto, specialmente per il suo impegno a favore dei poveri e degli anziani, promotore di svariate iniziative di solidarietà e volontariato, è anche — benché da tempo in pensione, ma solo per modo di dire — un infaticabile diffusore delle sue idee progressiste e moderniste, cosa che avviene soprattutto per mezzo del giornalino parrocchiale L’incontro, stampato in 5.000 copie, oltre che con la pubblicazione di diversi libri. L’anno scorso, il 2016, don Trevisiol è assurto agli onori della cronaca regionale, e non solo, appunto perché, dalle colonne del suo giornalino, ha sostenuto che, di fronte alla carenza di vocazioni sacerdotali, la Chiesa dovrebbe riaprire le porte ai preti sposati, dovrebbe togliere l’obbligo del celibato ecclesiastico e dovrebbe introdurre anche il sacerdozio femminile. Poche settimane prima il suo vice-parroco, don Marco Scarpa, veneziano, aveva lasciato la parrocchia, dopo una decina di anni di lavoro in comune, perché aveva dato addio al sacerdozio per amore di una donna (e nel giugno di quest’anno ha confermato la sua scelta, venendo ridotto allo stato laicale). Don Trevisiol da parte sua, sostiene che non esistono motivazioni religiose per negare il matrimonio ecclesiastico e il sacerdozio femminile, ma solo ragioni storiche, le quali, essendo cambiati i tempi, possono e devono venir cambiate anch’esse, anzi il non farlo, a suo parere, sarebbe "antistorico". Se ne deduce che, per lui, come per altri che la pensano come lui, il nuovo credo dei sacerdoti cattolici è diventato lo storicismo: non c’è più la Verità eterna e immutabile, non c’è più la Tradizione perenne, di origine divina: c’è la storia che è fatta dagli uomini, e ci sono i tempi della storia, che mutano incessantemente. Tipico di tutti i progressisti, con e senza l’abito talare (anche quest’ultimo, divenuto ormai quasi invisibile): la storia è progresso, tutti devono adeguarsi; ma progresso nella storia, dentro la storia, in un orizzonte storico. Non c’è più la trascendenza, non c’è più la Provvidenza, non c’è più il Cielo. Perfetto esemplare di questo esasperato immanentismo storicistico è il nuovo generale dei gesuiti, padre Sosa Abasca, il quale ha affermato che nessuno può dire con certezza che cosa Gesù Cristo abbia detto, perché ai suoi tempi non c’era il registratore per riportare fedelmente le sue parole.

Don Trevisiol, da parte sua, è il classico esempio di un sacerdote ormai avanti con gli anni che "scopre" di essere ancora più rivoluzionario di quanto non lo fossero i giovani preti negli anni "ruggenti" della riforma conciliare e post-conciliare: allora, infatti, nessun presentò l’abrogazione del celibato ecclesiastico e l’accesso al sacerdozio per le donne come punti qualificanti del rinnovamento della Chiesa, anche se ne esistevano le premesse, ideologiche ed emotive — perché la famosa e fin troppo celebrata "stagione" del Concilio era fatta in larga misura di stati d’animo, aspettative, sogni, utopie e altre cose ugualmente vaporose, evanescenti ed estemporanee. Don Armando Trevisiol è quello che va di moda chiamare "un prete delle periferie"; a Carpenedo, periferia di Meste, ha fatto molto sul piano dell’impegno sociale, e glie ne va dato atto. Allo stesso tempo, non è male ricordare che molti grandi santi "sociali" (santi, non preti comuni), come Giuseppe Cafasso, Giuseppe Cottolengo, Luigi Scrosoppi, Giovannni Bosco, Giovanni Calabria, Francesca Saverio Carini  e tantissimi altri e altre, hanno operato magnificamente nell’ambito sociale, prendendosi cura degli ultimi, degli orfani, dei più poveri e abbandonati, dei malati e degli emigranti (che allora erano gli italiani…) ma sono sempre stati obbedientissimi all’autorità dei superiori, fedelissimi al sacro Magistero, ineccepibili nella purezza della dottrina, oltre che sul piano dei costumi personali. Un san Giovanni Bosco, per esempio, avrebbe giudicato un grave fallimento se il suo principale collaboratore avesse lasciato il sacerdozio per amore di una donna: non avrebbe detto soltanto, come ha fatto don Trevisiol, di capire e rispettare la sua scelta; quasi certamente si sarebbe interrogato sul perché, si sarebbe chiesto in che cosa non avesse saputo infondergli la sua stessa costanza (stiamo parlando di una cosa piuttosto seria: la promessa fatta a Dio per tutta la vita, solennemente e al cospetto della Chiesa). I preti di una volta seminavano per raccogliere, cioè per favorire nuove vocazioni; evidentemente le cose sono cambiate e molti preti odierni trovano normale la rottura del voto da parte dei loro confratelli più giovani. Anche qui c’è lo zampino dell’influsso esercitato, consciamente o inconsciamente, dalla dottrina protestante: siamo tutti sacerdoti, quindi il sacerdote può sposarsi e può anche lasciare l’abito senza problemi; per la salute delle anime basta la sola fede.

Ora, per tentar di rispondere alla domanda che ponevamo all’inizio, cosa può spingere un prete anziano a modificare radicalmente il proprio atteggiamento rispetto ai tempi della sua giovinezza, e a vedere il futuro della Chiesa sotto una luce assolutamente difforme da quella di allora, può essere utile constatare che il rivoluzionamento ideologico di un prete quasi ottantenne, come don Trevisiol, parte da lontano e investe un ambito assai più ampio di quello che gli ha dato un momento di celebrità a livello anche nazionale, con la provocatoria proposta di "aprire"ai preti sposati e alle donne prete, esternazioni che lo hanno immediatamente fatto entrare — o confermare – nelle simpatie dei settori politici di sinistra, quelli che guardano alla Chiesa con sufficienza e con disprezzo, salvo diventare ambiguamente attenti e perfino rispettosi se, dalla Chiesa, arrivano segnali di "apertura" alla mentalità progressista, come in questo caso. Per convincersene, basta allargare lo sguardo e vedere in quali altri ambiti i sacerdoti come don Trevisiol hanno completamente mutato pensiero e atteggiamento; e uno degli ambiti più rivelatori, una specie di cartina al tornasole per misurare l’ampiezza del loro balzo in avanti, è la cosiddetta Riforma protestante, ovvero lo scisma che, a partire dal 1517, inizialmente per opera di Lutero, poi anche di Zwingli e di Calvino, ha letteralmente spaccato in due la Chiesa cattolica la stessa società europea. Oggi sappiamo che cosa ne pensa il papa Francesco, di Lutero e dei suoi continuatori: abbiano visto come ha celebrato, a Lund, in Svezia, nell’ottobre 2016, insieme a un vescovo luterano, i 500 anni della cosiddetta Riforma, e come ha definito lo scisma "una preziosa offerta di doni spirituali" alla Chiesa. Lutero, che voleva distruggere la Chiesa e che ha scagliato le peggiori maledizioni contro il papa e contro il clero; Lutero, che ha incitato i principi tedeschi a ribellarsi alla Chiesa, a confiscarne i beni, a chiudere i conventi e sopprimere gli ordini religiosi; ma, soprattutto, che ha predicato una dottrina che è cristiana solo di nome, accumulando gravissimi errori teologici, dal servo arbitrio alla salvezza con la sola fede, e dall’abolizione del clero alla cancellazione di cinque Sacramenti su sette, ora costui viene guardato con stima, con affetto, viene ringraziato per i doni che ha fatto alla Chiesa, viene lodato per la fresca e generosa volontà di rinnovare la Chiesa stessa (?), per il suo santo zelo contro le indulgenze e altre forme di superstizione e corruzione, insomma vien promosso quasi al rango di un secondo san Francesco, e salutato come un precursore di quanto di meglio (?) la Chiesa ha poi fatto sulla linea del Concilio.

Ecco, dunque, cosa dice don Trevisiol a proposito della cosiddetta Riforma protestante (da: don Armando Trevisiol: In attesa del giorno nuovo. Diario di un vecchio prete 2011, Edizioni de L’incontro, s. d., p.319): Quando penso all’educazione che ho ricevuto da bambino in rapporto ai protestanti, mi viene da rabbrividire. Per molti anni ho pensato a questi cristiani, che in maniera opportuna o meno hanno sognano e tentato di rinnovare la Chiesa riportandola alla freschezza e alla coerenza delle origini, come a dei ribelli, indegni e traditori, non solo arrossisco, ma rinnego quasi i miei educatori.

Naturalmente, il punto è se sia più giusto che don Trevisiol arrossisca per l’educazione che ha ricevuto in seminario, oppure che arrossisca per il modo in cui ha scelto di vivere la sua vecchiaia di uomo e di ministro consacrato a Dio; se è più importante che egli quasi rinneghi coloro che hanno concorso alla sua formazione umana e sacerdotale, o che lo rinneghino i cattolici odierni, vedendo in lui non più il pastore del gregge, ma uno dei tanti fomentatori di novità disordinate o decisamente eterodosse, indegne di un prete e di un cattolico. È triste, infatti, vedere come chi avrebbe dovuto accumulare, con l’esperienza, anche la saggezza, e abbondare nella virtù della prudenza (una delle quattro virtù cardinali: tali, cioè, che qualsiasi uomo deve possedere e coltivare, prima ancora della Rivelazione), unirsi al coro della imperante auto-denigrazione della Chiesa, e attizzare le fiamme del senso di colpa per tutte le cose "cattive" che essa ha fatto, come quella di scomunicare Lutero, e per le quali dovrebbe vergognarsi. Dunque, dopo 500 ani, per don Trevisiol risulta chiaramente che Lutero aveva ragione, e la Chiesa torto; che il torto eventuale di Lutero, semmai, è stato quello di non aver adoperato sempre la maniera più opportuna; ma che lui, insomma, voleva solo riportare la Chiesa alla freschezza delle origini. A parte l’ignoranza storica e teologica che traspare da queste parole (Lutero non voleva rinnovare, ma demolire la Chiesa, per sua esplicita affermazione; e sul piano teologico aveva mille volte torto, compreso il causus belli della sua rivolta, la questione delle indulgenze), quello che più dispiace è il rinnegamento di sé, delle proprie origini, della propria identità; e non ci si può non chiedere quali siano i meccanismi psicologici che sono coinvolti in un simile atteggiamento. Perché un uomo, un sacerdote, di quasi ottant’anni, deve dire cose simili; perché deve sbugiardare e rimproverare la sua Chiesa, e fare l’elogio dei suoi peggiori nemici, come se fosse la cosa più bella e più cristiana del mondo? È la smania di essere all’avanguardia, di sentirsi giovane, di vivere una seconda giovinezza? O sono la vanità e il narcisismo? Tutto questo scrivere, questo esternare, questi giornalini, questi libri, da dove hanno origine? Una volta, e giustamente, un prete non poteva scrivere quel che gli pareva: doveva chiede l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica; ci voleva il nihil obstat. Ora che la Congregazione per la dottrina delle fede non fa più il suo dovere; ora che qualsiasi prete è libero di parlare a volontà, a qualsiasi microfono, e di criticare la Chiesa e la sacra Tradizione, senza temere alcuna conseguenza; ora che i soli preti che vengono punti e allontanati sono quelli, come don Minutella, che si mostrano troppo cattolici, cioè indisponibili a gettare nel cestino della carta straccia la loro storia e la loro fedeltà alla promessa, la cosa si spiega. Nondimeno è qualcosa di assai triste per loro, e di nocivo per le anime…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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