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Nel magazzino delle cose dimenticate: il fioretto

Interrogandoci sulle ragioni di una così profonda decadenza non solo dello spirito religioso, ma anche del puro e semplice vivere civile, sulla fragilità psicologica di tanti giovani, sulla loro difficoltà a sottoporsi a sacrifici o impegni di lungo termine, e sulla latitanza degli adulti in fatto di buoni esempi, e, più in generale, di azioni educative anche minime, ci siamo convinti che un ruolo importante è stato svolto, in negativo, dalla mancanza di esercizio della volontà e dalla trascuratezza in cui è stata lasciata la dimensione spirituale. Entrambe le cose, la volontà e la spiritualità, erano tenute ben deste e, per così dire, in continuo allenamento, attraverso l’assunzione di responsabilità anche piccole, da parte dei bambini, dietro un’opportuna sollecitazione degli adulti. I bambini, cioè, venivano abituati a stabilire da sé delle piccole prove, alle quali si sottoponevamo volontariamente, non solo in vista di un fine pratico, ma anche, semplicemente, come gratuita e spontanea offerta d’amore a Dio. Essi, cioè, non solo venivano abituati a fare dei piccoli sacrifici per raggiungere degli obiettivi materiali, ad esempio, a risparmiare delle piccole somme di denaro per acquistare ciò che desideravano, il che comportava delle piccole rinunce – la rinuncia al gelato, la rinuncia al giornalino o alle figurine -, invece di aspettarsi che i genitori regalassero loro, puramente e semplicemente, la cosa desiderata, di solito un giocattolo, o, se grandicelli, un disco o un modesto strumento musicale; ma venivano anche esortati a compiere dei piccoli sacrifici, del tutto volontari, per mostrare il loro amore a Dio, a Gesù Cristo, alla Madonna. Si chiamavamo fioretti.

Può darsi che i giovani di oggi non ne abbiano mai nemmeno sentito parlare. Nessuno ha mai detto loro che è possibile fare un atto del genere: rinunciare a una cosa, non necessariamente un oggetto materiale, o un dolce, o una bevanda, ma anche un divertimento, un giro in giostra, un programma televisivo, una corsa in bicicletta con gli amici, così, senza altra ragione che far piacere a Dio. E perché Dio dovrebbe gradire una simile offerta, poi?, penseranno i pedagogisti odierni e i preti progressisti della neochiesa. Per carità, Dio ci vuole felici! Come potrebbe godere di un bambino che si priva di una piccola gioia, di un innocente desiderio, per offrirlo a Lui, come se avesse bisogno di tali cose? Ebbene, questo è un tipico modo di ragionare secondo il mondo: si dà per scontato che Dio pensi come gli uomini; e siccome gli adulti dei nostri tempi, e specialmente i genitori, sono, generalmente parlando, iperprotettivi con i loro figli, non vogliono che manchi loro nulla del necessario e neanche del superfluo, e non osano negare loro la soddisfazione dei capricci più gratuiti, delle richieste più insulse, pur di appagare il loro nascente consumismo e la smania di avere tutto ciò che hanno i loro compagni e amichetti di scuola, e, se possibile, anche qualcosa di più, in modo che — poverini!, non debbano mai subire il trauma atroce di sentirsi inferiori, allora per essi il fioretto è una cosa semplicemente inconcepibile. Quale papà o quale mamma sarebbero così crudeli, così mostruosamente insensibili, da non accondiscendere alle richieste del loro figlioletto, a non commuoversi davanti alle sue preghiere, alle sue invocazioni, da non arrendersi alle sue pretese, sempre più insistenti e ostinate? I bambini, cari tesorucci, non devono mancare di nulla; i genitori non devono rifiutarsi di andare incontro ai loro innocenti desideri, non hanno il diritto di spegnere il loro fiducioso sorriso, di far scendere un velo di tristezza sui loro occhi imploranti. Figuriamoci, dunque, se Dio lo potrebbe: Dio, che è tanto più buono, tanto più dolce, tanto più misericordioso di noi uomini. E poi, chi ha detto che Dio è "maschio"? Non sia mai: la teologia femminista, cui fanno buona sponda i settori più aperti, più sensibili, più attenti ai segni dei tempi nuovi, della cultura cattolica progressista, clero compreso, ci insegnano, di comune accordo, che Dio è anche Madre, non solo Padre; che possiede la tenerezza della donna, la delicatezza femminile, e, quindi, che non sarebbe mai così accigliato, così severo, così tirannico, da pretendere che i cari, piccoli pargoli si privino di qualcosa per amor suo; no, assolutamente, egli non vorrebbe che si privassero di nulla: hanno bene il diritto d’essere felici e spensierati, tesorucci.

Ed ecco il grande equivoco: pensare che privarsi di qualcosa, volontariamente e per amore di qualcuno, corrisponda a una sofferenza, a una infelicità; idea sottesa alla visione del mondo consumista e materialista, secondo la quale bisogna avere tante cose, tantissime cose, per essere felici; che bisogna averne sempre di più, sempre più belle e costose, sempre più invidiate dagli altri: senza di che, si piomba nella squallida indigenza e, quindi, nella più nera infelicità, oltre che in una condizione spregevole, che ci rende evitati da tutti. Logico: se la felicità consiste nel possedere molte e belle cose, la povertà è non solo causa d’infelicità, ma anche di emarginazione sociale: colui che non ha tutte quelle belle cose (indipendentemente dal fatto di essere realmente povero, o meno), diventa un essere strano, sgradevole, antipatico, dal quale è meglio stare alla larga, perché la sua sola presenza mette a disagio, inquieta e fa scendere un’ombra di tristezza sulla fronte del piccolo consumista, così beato e contento. Non ci si ferma ad analizzare questo sentimento; nessuno si domanda perché mai colui che non ha le cose che hanno gli altri, riesce così molesto alla vista, che si cerca di evitarlo in tutti i modi. Forse, se lo si facesse, potrebbe sorgere il sospetto che sia proprio perché costui — individuo raro e quasi introvabile, peraltro — è la prova provata che esiste un’altra maniera di esser felici e contenti, o, quanto meno, sereni: una maniera che non costa nulla, o pochissimo; una maniera che spezza la catena della dipendenza dalla brama di avere, di avere sempre di più e di competere incessantemente con tutto il resto del mondo. Ciò non sia mai! E dunque, alla larga dal guastafeste, dal menagramo.

Così, avendo attribuito a Dio lo stesso tipo di atteggiamento che moltissimi genitori, oggi, hanno nei confronti dei loro figli, viziati e incontentabili, gli adulti si sono scordati cosa sia il fioretto, anche se, nella loro infanzia, qualcuno lo aveva insegnato loro; o, se pure se lo ricordano, si liberano di tale ricordo con una scrollata di spalle, pensando: Però, ce n’erano di cose strane, una volta! Pensa un po’ che razza di sadismo, di sottile e inutile crudeltà: insegnare a un bambino a privarsi da se stesso delle piccole gioie che la vita gli offre… Meno male che oggi si è imposta una mentalità completamente diversa; quanto sono fortunati i miei figli, i miei nipoti, ad essere cresciuti nella nuova atmosfera, a non aver respirato quell’aria così satura di tristezza e di ambiguo, sconcertante ascetismo. Eh, sì, fortunati i bambini d’oggi: i loro genitori, le loro maestre e perfino i loro sacerdoti, cresciuti a Freud e McDonald’s, non soltanto non credono più alle fisime dell’ascetismo e alle stravaganze della spiritualità, ma ne sono fieramente nemici, e vigilano affinché la serpe di una religione che suggerisce come la vita terrena, dopotutto, sia solo un breve pellegrinaggio, e che ogni cosa, in essa, andrebbe indirizzata al raggiungimento della vita eterna nella luce di Dio, non riesca a intrufolarsi nelle loro case bene arredate, nei loro giardini falciati all’inglese, nelle loro automobili fiammanti, nelle loro gioiose escursioni ai centri commerciali e nelle loro ancor più festose vacanza al mare, sulle spiagge affollate, ove sfila la fiera delle vanità dei corpi nudi, lucidi e abbronzati. Così come la brava massaia, all’avvicinarsi della brutta stagione, controlla gli infissi di porte e finestre per accertarsi che nessuno spiffero d’aria fredda riesca a insinuarsi, portando il gelo dell’inverno nelle stanze ben riscaldate, così gli attenti genitori consumisti, moderni e permissivi, che hanno quale unico desiderio mettere i loro figlioletti sotto una campana di vetro (anche se avvelenata, come lo sono i telefonini multiuso e i giochi elettronici al computer) e tenerli al riparo da ogni afflizione, malinconia e sacrificio, vigilano con la massima attenzione per assicurarsi che il pungiglione dell’ascetismo o il fiato malefico della spiritualità non oltrepassino le porte blindate delle loro belle case e non trovino la maniera d’insinuarsi attraverso qualche fessura rimasta aperta, portando il gelo della serietà, della sobrietà e dell’austerità nelle loro dimore simpaticamente addobbate e spensierate.

Via non solo la pratica del fioretto, dunque, e perfino il suo concetto; via anche il suo semplice ricordo. E come si fa? Lo si cancella dal vocabolario, lo si spedisce nell’armadio delle cose morte, fra la polvere e le ragnatele, per sempre. Difatti, un bambino dei nostri giorni, al novantanove per cento delle probabilità, non lo ha mai neppure sentito nominare. Fioretto significa piccolo fiore: ma che roba sarà mai? Ed ecco che il nostro bambino viziato, moderno e iperprotetto, fra una lezione di lingua inglese e un allenamento di pallavolo, trova, chi sa come, il tempo e la voglia — stranezze di bambini! — di andare alla ricerca del significato di quella parola, che la nonna, un giorno, ha lasciato cadere, così, nel bel mezzo di un discorso, ricordando i tempi della sua infanzia lontana. E siccome i bambini di oggi, per cercare il significato di una parola, non vanno a vedere sul vocabolario — ammesso che ci sia, in casa loro — ma fanno tutto per mezzo del computer, il bambino fa una veloce navigazione in rete e scopre, su Google, che la parola "fioretto" gode di una pagina di disambiguazione, perché essa ha ben cinque possibili significati diversi:

1) fioretto, una delle tre armi della scherma;

2) fioretto, farina di mais a grana fine, utilizzata principalmente per impasti da dolci;;

3) Torta di fioretto, dolce tipico della Valchiavenna;

4) fioretto, in melodia, sinonimo di abbellimento;

5) Roberto Fioretto, allenatore di pallacanestro italiano.

Tutto qui? Tutto qui. Non c’è altro. Eppure, la nonna non intendeva nessuna di queste cose, quando parlava dei fioretti ch’ella faceva da bambina (e lei non è nemmeno della Valchiavenna). Vuoi vedere che al nostro bambino verrà la curiosità di venire a capo della cosa? Tornerà dalla nonna e si farà raccontare di nuovo, cercherà di capire meglio; e così imparerà che non tutto si trova su internet, che non tutto è scritto nel computer, che la vita è molto più ricca di come la rappresentano i mezzi di comunicazione di massa; e che ci sono molte cose che non hanno più un nome, perché la nostra società ha subito un brusco mutamento, sotto la pressione della civiltà moderna. In fondo, sono passati solo pochi decenni, e una parola è andata smarrita, rimossa, insieme al relativo concetto e alla pratica che descriveva. Non si parla più fioretti perché non si sa più cosa sia un fioretto, e perché nessuno fa più dei fioretti. Questa è una cosa che deve far riflettere: noi siamo una sola cosa con le parole che adoperiamo; se vengono a mancare le parole, se ne va anche una parte del nostro modo di pensare, di sentire e di viver, se ne va una pare di noi.

A ben considerare, si tratta d’una scoperta addirittura sconvolgente. Ciò vuol dire che, se dovesse cadere in disuso, per esempio, la pratica della preghiera, sparirà la parola che la designa, e sparirà anche il suo concetto: diventerà una delle cose vecchie che si mettono nell’armadio, in soffitta. Le persone smetteranno di pregare e smetteranno di nominare la preghiera; e le nuove generazioni, non avendola mai sentita nominare, non sapendo più di che cosa si tratti, non pregheranno più, non già come un’omissione volontaria di un atto noto, ma come ignoranza totale di un atto del quale non sanno l’esistenza. Abbiamo fatto il caso della preghiera; si possono fare molti altri esempi. Per capire quali sono le prossime parole che spariranno dal vocabolario, e i relativi concetti che si spegneranno nella mente delle prossime generazioni, basta guardare quali sono gli atti che si vanno estinguendo, perché appartengono alla tradizione e sono praticati solo dai vecchi: mano a mano che quei vecchi moriranno, anche i loro atti cesseranno, e le parole che li indicavano non faranno più parte del vocabolario dei bambini. I loro nipoti, per un po’, li ricorderanno ancora, ma quasi come delle vaghe curiosità archeologiche; poi, al successivo cambio generazionale spariranno del tutto perché non ci sarà più nessuno a ricordarle. Tale avvicendamento di pratiche, di parole e di concetti c’è sempre stato e ci sarà sempre. Quello che è nuovo, è il ritmo che esso ha preso, mano a mano che la modernità ha imposto, con forza crescente, i suoi stili e i suoi miti: un ritmo talmente veloce, frenetico, che molte persone non riescono più a stargli dietro, perdono completamente il passo, si sentono tagliate fuori, superate, inutili: cadono in depressione, vanno nel panico, si agitano, si disperano, soffrono e diventano aggressive. È lo shock del futuro, di cui abbiamo altre volte parlato (la definizione è del sociologo americano Alvin Toffler): una cosa tipicamente moderna, che rende altamente drammatico ciò che un tempo era normale e relativamente tranquillo: l’avvicendamento delle generazioni. Il guaio è che, con il ritmo ormai incontrollabile del cambiamento sociale e culturale, tutta la tradizione si consuma come merce andata a male; e una società non può vivere tagliando i legami con la tradizione: si condanna da sé a una fine prossima e ingloriosa.

Che fare, dunque? Ritornare alla tradizione, non con l’assurda pretesa di fermare il tempo, ma con la ferma volontà di governare il cambiamento secondo dei ritmi che siano a misura d’uomo e che salvino, della tradizione, ciò che è essenziale, perché non appartiene al tempo, ma all’eterno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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