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Il sacerdote è innanzitutto uomo di preghiera

La figura perfetta di sacerdote è quella di Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars (1786-1859), che fu per quarant’anni il parroco di questo piccolissimo paese di collina, situato 35 km. a nord di Lione, che contava appena 240 abitanti (oggi sono 1.350), il quale, grazie alla sua presenza e alla sua altissima spiritualità, divenne un vero e proprio centro di pellegrinaggio, che attirava numerosissimi visitatori, desiderosi d’essere da lui confessati e di assistere alla sua celebrazione della santa Messa (oggi il "volume" degli afflussi devozionali viaggia sulle 450.000 presenze all’anno). Il bello è che Vianney, da ragazzo, dovette superare enormi difficoltà prima di poter realizzare la sua vocazione sacerdotale: dovette vincere la caparbia resistenza di suo padre, poi quelle frapposte dai superiori, in seminario, i quali non lo reputavamo adatto, sotto il profilo intellettuale, soprattutto per la sua estrema difficoltà ad imparare il latino; e dovette far fronte ad una estrema povertà, tanto che, per un periodo, quando era ancora vicario parrocchiale, visse praticamente della carità dei suoi parrocchiani, peraltro privandosi anche del poco che aveva, mangiando pochissimo e donando quasi tutto il "superfluo" ai poveri, sempre sorretto da una fede semplice, luminosa, a tutta prova, che veniva da una assoluta confidenza in Dio e da una febbre di contemplazione e adorazione pari solo alla sua sollecitudine per la salute delle anime. Passava ore e ore seduto nel confessionale, fin dalle primissime ore del mattino, molto prima dell’alba; e, come san Pio da Pietrelcina, ebbe anche a vedersela con gli assalti del demonio, infuriato dall’apostolato che svolgeva e dalla trasformazione spirituale che avveniva in quanti si avvicinavano a lui, a quel piccolo prete non molto dotto (che poi si dedicò, nei minimi ritagli di tempo, a una fervida lettura di opere religiose), ma dal sorriso angelico e dalla tempra d’acciaio. Non aveva altro amore che Gesù, la Madonna e le anime; né altri interessi e preoccupazioni che annunciare il regno di Dio.

Pochi uomini, pur sani e robusti, avrebbero retto a lungo il suo stile di vita: poche ore di sonno, poco cibo, consumato in fretta e, sovente, stando in piedi; poi preghiera, confessione, ancora preghiera e ancora confessione, e assistenza ai malati, e celebrazione dell’Ufficio divino. Poco fidenti in lui, i suoi superiori gli avevamo affidato la cura di quel villaggio insignificante pensando che lì, almeno, non avrebbe potuto fare troppo danno; non sapevano che la vita religiosa del popolo francese, che aveva toccato il punto più basso negli anni della scristianizzazione rivoluzionaria, avrebbe ricevuto una potente rigenerazione proprio da quel piccolo prete che sapeva male il latino, senza distinzione, senza nessuna di quelle doti apparenti, e appariscenti, che sembrano il corredo necessario e quasi la garanzia del prestigio e del successo. Arrivando in paese, si era fato indicare la via da un contadinello, al quale aveva poi detto: Tu mi hai mostrato la strada per salire ad Ars; io ti mostrerò la strada per salire al Cielo. Aveva trovato un villaggio neghittoso, con la gente che trascorreva tutto il tempo libero bevendo e giocando all’osteria: e non aveva perso tempo a far vedere, innanzitutto con l’esempio, che la via del Cielo esige preghiera, penitenza, sacrificio, e che è incompatibile con l’ozio e con le cattive abitudini, come quella del bere. Non si deve credere, però, ch’egli fosse un sacerdote tetro, un uomo triste: al contrario, viene descritto, fin da bambino, come una persona naturalmente allegra e serena, portata al buon umore. È il mistero dei santi: sono capaci delle privazioni più austere, della vita più sobria e faticosa, senza mostrare quella pesantezza, quell’affaticamento, anche spirituale, che coglierebbe, al loro posto, chiunque altro: la loro capacità di "ricaricarsi" di energia, di trovare la forza per fare ciò che fanno, e di farlo col sorriso sulle labbra, non è di origine umana, non viene da una tecnica di meditazione puramente umana: è di origine soprannaturale, divina. Avendo offerto ogni cosa, sino al fondo dell’anima, a Dio e al prossimo, hanno ricevuto, in compenso, un "filo diretto" con il Cielo. In loro si realizza la promessa di Gesù: Qualunque cosa chiederete nel nome mio, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò (Giovanni, 14, 13-14).

Ecco come don Marcello Cruciani, sacerdote della diocesi di Orvieto-Todi, ha schizzato la figura e la giornata-tipo del santo curato d’Ars nel volumetto Sacerdote, amore del cuore di Gesù. Vita di S. Giovanni Maria Vianney, parroco di Ars, Todi, Tau Editrice, 2010, pp. 21-27):

Secondo le testimonianze ha "quel dono meraviglioso di sembrare agli occhi di tutti l’immagine di Gesù Cristo". Il suo modo di parlare e il suo sguardo affascina. Pur dormendo e mangiando poco, dimostra un’estrema robustezza che contrasta con la sua corporatura modesta. Possiede una buna dose di giovialità e il suo sguardo brilla di bonarietà contadina.

Ricco per dare agli altri, ma povero per sé, vive in un totale distacco dai beni di questo mondo e il suo cuore veramente libero si apre lungamente a tutte le miserie materiali e spirituali che affluiscono a lui. "Il mio segreto — egli dice — è semplicissimo: dare tutto senza conservare niente".

Uomo di penitenza, don Giovanni Maria Vianney ha compreso che il sacerdote deve essere prima di tutto uomo di preghiera. Passa infatti lunghe notti in adorazione. Il tabernacolo della sua chiesa è la sorgente della sua incessante preghiera. Vi passa lunghe ore, anche quando è assillato da tanta gente che vuole confessarsi parlare con lui. Ripete spesso: "La preghiera, ecco la felicità dell’uomo sulla terra". I suoi parrocchiani capiscono che egli manifesta loro qualcosa del segreto della sua vita interiore, frequentemente dice ai suoi fedeli: "Essere amati da Dio, essere uniti a Dio, vivere alla presenza di Dio, vivere per Dio, oh! Che bella vita e che bella morte!". Vive con fedeltà il celibato: "la castità brillava ne suo sguardo, anche se conosce, per le lunghe ore passate in confessionale, le tristi realtà dei peccati della carne.

Per se stesso non vuole assolutamente nessun lusso o agio ma per il Signore, per la Liturgia non bada a spese; celebra sempre con grande attenzione e partecipazione. Tutto il centro della sua vita è la celebrazione dell’Eucarestia. Si prepara scrupolosamente alla predica; i primi anni trova molta difficoltà (non dimentichiamo che le omelie, a quei tempi, non durano meno di tre quarti d’ora), in seguito, quando riesce a sciogliersi, diventa un predicatore formidabile, e si fa ressa per ascoltarlo. La sera, dopo che riuscito a chiudersi in casa, a lume di candela legge e medita: possiede una biblioteca di quattrocento volumi e siamo nel secolo XIX! […]

Ars è invasa da tanti pellegrini. Essendo piccola non ha la capacità di accogliere tutta quella gente, così molte persone vengono ad abitarci e aprono degli esercizi commerciali per accogliere e sfamare i numerosi pellegrini. Alcune cose fanno soffrire il Santo curato, feriscono la sua profonda umiltà. Definisce la vendita dei suoi ritratti nei negozi di Ars come "pagliacciate", Una tale affluenza di pellegrini non permette al parroco di dedicarsi con totalità ai suoi parrocchiani. La diocesi gli affida prima un coadiutore, che lo fa anche molto soffrire per il suo carattere autoritario. Infine gli sono affiancati dei missionari diocesani che fanno tanto del bene alla parrocchia e ai pellegrini.

All’una del mattino il curato scende in chiesa ma non può più passare delle ore in preghiera di adorazione, perché già lo attendono dei penitenti per confessarsi. Dall’una e mezza, fino alle sei, ascolta le penitenti, poi si alza e celebra la Messa. Si prepara per venti minuti e dopo la celebrazione fa il ringraziamento per mezz’ora. Dopo, si reca alla ‘Provvidenza’ [l’orfanotrofio] e beve una tazza di latte. Poi torna in sagrestia per confessare gli uomini. Verso le dieci, interrompe le confessioni, si reca nel coro e, sempre in ginocchio, recita il breviario. Poi, dopo venti minuti, riprende le confessioni. Alle undici, va alla ‘Provvidenza’ per insegnare il catechismo; in seguito all’aumentato afflusso dei pellegrini la catechesi si svolge in chiesa. Verso mezzogiorno, dopo aver inghiottito, senza nemmeno sedersi, il suo leggero pasto, rientra nel presbiterio per spazzare la sua stanza, radersi, dormire e vistare i malati. Tornando in chiesa, ricomincia a confessare le donne fino alle cinque. Poi passa in sagrestia per confessare gli uomini, fino verso le sette o le otto. Recita il rosario e le preghiere della sera con chi si trova in chiesa, infine rientra nel presbiterio. Riceve qualcuno e, verso le nove o le dieci, si chiude in camera sua. Termina la recita del breviario: poi prega, legge e va a stendersi sul pagliericcio per circa tre ore. Il curati ascolta ogni giorno, in confessione, dalle cinquanta alle cento persone, tranne la domenica, giorno in cui il suo tempo è preso dalla Messa solenne e, nel pomeriggio, dai vespri seguiti dalla benedizione eucaristica.

Questa è stata, dal 1818 al 1859, la vita di Jean-Marie Vianney: una perfetta (umanamente parlando, cioè imperfettamente parlando) imitazione di Cristo. Monotona, stressante, impossibile? Dormire tre ore per notte! Cominciare le confessioni all’una del mattino! Ascoltare, per ore e ore, ogni giorno, tutte le brutture, tutte le tristezze, tutte le perversioni dell’anima umana, e perdonarle in nome di Gesù! Mai una distrazione, mai un piccolo lusso, una pausa di riposo: per leggere, la sera tardi, rubare le ore al sonno, già così scarse. E sempre il breviario, la preghiera, l’adorazione eucaristica. No: né monotona, né stressante, né impossibile: possibilissima, anzi, così come sono possibili le azioni di chi confida interamente nel Signore. La forza che lo sosteneva, veniva dall’alto: lui si limitava ad accoglierla e far trovare pulite e in ordine le stanze dell’anima, vivendo nella grazia di Dio. Era di esempio senza sforzo, senza ostentazione; era un modello perché si teneva nascosto. Esattamente il contrario di quel che fa chi vive secondo la mentalità del mondo, che, a forza di mostrarsi, di apparire, spera di ritagliarsi uno spazio di visibilità, magari di celebrità. Chi vive così, desidera essere apprezzato dal mondo; chi vive come il curato d’Ars, o come san Leopoldo Mandic, o come padre Pio da Pietrelcina — altri due grandi mistici, confessori e conoscitori d’anime, ma dall’animo semplice come fanciulli — non vuol piacere che a Dio. Di quel che pensano gi uomini, non gl’importa; desidera solo ricondurne a Dio quanti più possibile, anche prendendosi sopra le spalle i peccati altrui. È questo il vero spirito sacerdotale: il sacerdote non è un alter Christus perché possiede qualcosa in più dei comuni mortali, ma perché ha detto integralmente "sì" a Dio, si è arreso a Lui, si è fatto suo strumento di misericordia, suo volto.

Da queste considerazioni risalta quanto lontani siano dal vero quei sacerdoti moderni, o piuttosto modernisti, i quali considerano la preghiera e l’adorazione quasi un lusso, da concedersi quando le loro svariate cure pastorali lasciano loro un po’ di tempo, perché non pensano secondo Dio, ma secondo gli uomini. Non è detto che siano spinti tutti dalla vanità di essere ammirati, anche se questa, senza dubbio, è la motivazione di una parte di loro; però si preoccupano delle cose che devono fare, sopravvalutando la loro funzione sociale e soprattutto sopravvalutando ciò che possono fare, come uomini, sul piano materiale. Per quanto si possa fare molto del bene agendo su tale piano, non se ne farà mai quanto agendo sul piano spirituale: perché aiutare un uomo in difficoltà materiale è, senza dubbio, utile e lodevole; ma aiutarlo spiritualmente, senza ignorare i suoi bisogni primari, significa dargli lo strumento col quale innalzarsi al di sopra di qualsiasi difficoltà e aspirare al bene più grande di tutti: l’unione con Dio. Chi agisce sul piano spirituale, va dritto al cuore del problema degli uomini: riconciliandoli con Dio, li riconcilia anche con se stessi. Quanto meno lavoro ci sarebbe, per psicologi e psicanalisti, nonché per giudici e poliziotti, se gli uomini comprendessero questa semplice verità: che vivere in grazia di Dio significa anche vivere in pace con se stessi e con il prossimo; mentre vivere lontano da Lui, o contro di Lui, significa vivere in guerra con se stessi e con il mondo intero. Questa semplice verità, i sacerdoti l’hanno sempre saputa e hanno sempre cercato di trasmetterla; da qualche tempo, però, molti sembrano averla dimenticata. Un indirizzo teologico profondamene sbagliato, inaugurato dalla troppo lodata stagione del Concilio, ha fatto loro perdere l’orientamento. Sostituendo una prospettiva antropocentrica a quella teocentrica, molti uomini di Chiesa si sono allontanati dalla Verità e, cosa ancor più grave, hanno fatto allontanare anche le anime che a loro guardavano con fiducia. Si tratta di un peccato molto grave, tanto più che la sua origine non è così innocente come può sembrare: molte volte esso non è stato provocato da un eccesso di zelo pastorale (la vera pastorale non è questa; non è un surrogato dell’azione sociale o sindacale), ma da un eccesso di orgoglio. Gonfi di orgoglio, i preti modernisti hanno cominciato a sragionare, scambiando la prospettiva di Dio per quella dell’uomo. È inutile fare dei nomi: sono tanti, troppi. Cardinali, arcivescovi, vescovi e biblisti prestigiosi, teologi di grido, persino preti assai celebrati, nella misura in cui hanno commesso questo enorme errore, si sono allontanati da Gesù e hanno allontanato anche quelli che dovevano guidare: non siete entri voi e lo avete impedito a quelli che volevano, dice Gesù rivolto agli scribi e ai farisei. Certo, i modernisti non si sentono scribi o farisei; al contrario, si sentono veri cristiani, e accusano gli "altri" d’essere scribi e farisei. È l’orgoglio che, accecandoli, li ha fatti smarrire la grazia del Signore Gesù.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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