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Ogni cosa tende al suo fine e l’uomo tende a Dio

Entelekeia, o entelechia, è il termine di cui si serve Aristotele per indicare la sua concezione finalista di tutto ciò che esiste: le cose non esistono a casaccio, non vagano nell’indifferenza, ma ciascuna di esse tende al fine che le è proprio: possiedono, cioè, non solo una razionalità intrinseca, ma anche un fine intrinseco, che è lo scopo del loro esistere. Se non raggiungono tale fine, mancano il loro scopo. Il concetto viene generalmente associato alle scienze biologiche, ma, in realtà, per Aristotele esso si riferisce praticamente a tutti gli enti, comprese le quattro sostanze fondamentali: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Inoltre, esso viene volentieri contrapposto alla teoria platonica delle idee, secondo le quali esiste una causa esterna che attira l’anima verso l’Iperuranio, in nome di una concezione "realistica", secondo la quale esiste una tensione interna che spinge gli organismi verso il loro fine, cioè la loro perfetta realizzazione. Ma forse, a ben guardare, la contrapposizione è artificiosa, almeno se si considera l’idea centrale che è comune ai due sistemi: il fatto che le cose, e, a maggior ragione, gli esseri umani, tendono a perfezionarsi, realizzando la loro autentica natura e conferendo così un significato pieno al loro esistere. Che la causa ultima di tale movimento, perché di un movimento si tratta, risieda all’esterno, secondo una concezione idealista, o all’interno, secondo una concezione naturalista, non è poi così importante: in fondo, anche la causa interna potrebbe essere parte della causa esterna, se tale causa esterna non risiede nella natura, ma in Dio. E se Dio esiste, allora tutto, anche la natura, gli è subordinato. Certo, questo concetto esula dalla concezione tipicamente greca, e anche da quella di Platone; mentre per Aristotele Dio è Motore Immobile, pensiero di pensiero, che non s’interessa delle cose del mondo (ma allora, chi è che ci pensa?). Tuttavia, la difficoltà è stata superata da san Tommaso d’Aquino, che ha incorporato la concezione naturalista e meccanicista di Aristotele in quella spiritualista cristiana, in una sintesi grandiosa che è stata, per sei secoli almeno, la forma prediletta della teologia cattolica. Se tutte le cose tendono a realizzare se stesse, ciò significa che Dio ha impresso loro un movimento originario, e che tale movimento coincide, in ultima analisi, con il ritorno a Lui. Si realizzano gli enti che ritornano a Dio; non si realizzano, quelli che si disperdono altrove. Ciò, nel caso degli esseri umani, è reso possibile dal fatto del libero arbitrio: avendo ricevuto il dono della libera volizione, gli uomini, benché tendano a Dio per natura, possono anche non ascoltare il suo richiamo, possono anche disattenderlo, e perfino ribellarsi; possono sprecare tutta la loro vita inseguendo le cose finite, cerando di realizzarsi in esse e per mezzo di esse, e tentando di trovare in sé stessi la propria completa realizzazione: tuttavia, inevitabilmente e immancabilmente, falliranno, e non troveranno quello che cercano, né troveranno la pace. La pace è solo in Dio, perché solo in Lui, da cui tutto ha origine, ogni cosa trova il compimento, proprio come la pace, per tutti i fiumi del mondo, consiste nel fare ritorno al mare, nel fondersi nel mare, e non nel vagare senza meta in terreni aridi, o evaporare nel deserto.

Più esattamente, per Aristotele tutto il fenomeno del divenire si definisce mediante le sue quattro cause: la causa materiale, la causa formale, la causa efficiente e la causa finale. Ebbene, proprio la causa finale è riconducibile a una realtà che risiede, sì, all’interno del soggetto, ma, nello stesso tempo, trova una rispondenza anche all’esterno: perché non si capisce come potrebbe generarsi da sé stessa una causa finale in un essere finito. L’essere finito non ha cause finali: si può constatare, a posteriori, che le sue azioni rispondono a una serie di fini, ma non che l’insieme del suo essere abbia in se stesso una causa finale, cioè che tenda verso qualcosa. Un essere animato, ad esempio, tende a mantenersi, mediante il nutrimento, il riposo e l’accrescimento (ovvero la riproduzione). Un oggetto materiale, da parte sua, tende a permanere nello stato d’inerzia in cui si trova: sta fermo, se era fermo, e si muove, se qualcosa lo ha messo in moto: teoricamente, non si fermerà mai, a meno che incontri degli ostacoli o che la spinta ricevuta, a un certo punto, si esaurisca. Ma, se non vi fossero ostacoli (l’attrito dell’aria, per esempio, o quello del suolo) il suo movimento, una volta iniziato, non si fermerebbe mai: sarebbe un moto perpetuo. Ora, il movimento spirituale dell’essere umano è soggetto a una legge analoga: per prodursi, necessita di una causa finale che gli abbia dato origine, perché, da se stessa, la coscienza non saprebbe vedere qualche meta al di fuori della sfera di ciò che essa può sperimentare, vedere, toccare, o almeno supporre come esistente. Tuttavia, Dio non si vede, non si tocca, non esperisce con i sensi; quanto a immaginarsene l’esistenza reale, è questione di opinioni: cosa che si può constatare sul terreno pratico, mettendo a confronto le diverse idee esistenti al riguardo, e anche il loro mutare a seconda dei diversi contesti storici, temporali, culturali. Ciò che vogliamo dire, è che l’idea di Dio non è in contraddizione con la ragione naturale, ma non è neppure sicuramente dimostrata da essa: in un certo senso, l’istinto è neutrale di fronte alla sua esistenza, e, se è vero che l’uomo può arrivare da solo, indipendentemente da qualsiasi rivelazione e da qualunque studio, all’idea di Dio, è pur vero che può arrivarci solo in maniera piuttosto vaga e generica, e, inoltre, che può riconoscere e adorare Dio in differenti cose, a cominciare dagli elementi della natura, come accade, appunto, nelle religioni dei popoli cosiddetti primitivi; ciò che non fornisce alcuna garanzia di verità a una simile religione. Per passare dalla semplice idea di Dio alla convinzione della sua esistenza (si noti, infatti, che sono due cose distinte: si può avere l’idea di ciò che non esiste, ad esempio di un cavallo alato), e, soprattutto, per passare da una idea vaga e confusa di Dio, alla sua vera e precisa conoscenza, ci vuole altro che la natura, ci vuole altro che il semplice istinto, e non basta neppure il solo ragionamento; altrimenti, ci troveremmo in presenza di una religione puramente razionale e filosofica, una religione gnostica, adatta per i "sapienti" e gli "intelligenti", ma non per le anime semplici, per adoperare le parole stesse di Gesù Cristo (cfr. il Vangelo di Matteo, 11, 25).

La concezione filosofica che attribuisce un fine ad ogni cosa, e che vede nella perfezione delle cose il loro adeguamento a quel fine, trasposta sul piano psicologico ci aiuta a comprendere i meccanismi dell’infelicità, dell’errore, dell’ingiustizia e della bruttezza nel mondo contemporaneo. L’uomo moderno è infelice: per accorgersi di questo, non è necessario essere Freud o Jung, basta avere un paio d’occhi (e, naturalmente, essere desti e consapevoli; perché, diversamente, si può benissimo vedere le cose, senza però che essi vadano oltre le impressioni che si formano nella nostra retina, così da innescare un sia pur minimo ragionamento, o sollecitare anche la più semplice della domande). Un’altra cosa appare evidente, se si sa pensare con la propria testa: che viviamo in un mondo immerso nell’errore, nell’ingiustizia e nella bruttezza. Ovunque volgiamo lo sguardo, vediamo false dottrine, false idee, false credenze, false opinioni, spacciate per vere e prese per buone dalle masse, le quali continuano a credere in esse perfino dopo che i fatti si sono incaricati di smentirle e sbugiardarle su tutta la linea (figuriamoci quando ciò non è ancora accaduto; perché accade sempre, infallibilmente, si tratta solo di vedere quando: non si dice, infatti, che il diavolo sa fabbricare le pentole, ma non i coperchi?). Inoltre, si vedono ovunque atti e situazioni d’ingiustizia, non solo a livello sociale e politico, ma a che a livello individuale: quante persone ingiustamente vessate, quanti sentimenti ingiustamente disprezzati, quante cose oneste e buone ingiustamente cancellate, rimosse, dimenticate (fino a un certo punto, per la ragione suddetta). Infine, dappertutto vediamo dilagare il brutto: brutte case, brutti oggetti, brutte città, brutte opere "d’arte", brutte poesie, brutti romanzi, brutta musica, brutto teatro, brutto cinema, brutti corpi: deturpati, manipolati, resi orridi dalla chirurgia cosiddetta estetica, dai tatuaggi, da quantità inverosimili di anelli e bardature varie, con la pelle precocemente avvizzita dalle lampade abbronzanti, con mostruose capigliature, dal taglio e dai colori atroci, per catturare l’attenzione e per sferrare un pugno nello stomaco del prossimo, secondo la massima: che parlino di me, che si fermino a guardarmi, e sia pure perché faccio impressione, perché faccio schifo: le smorfie di disgusto che si formano sui loro visi, sono pur sempre il segno inequivocabile che mi hanno notato, che sono stati costretti a guardarmi. Finché mi guardano, io esisto, a dispetto di tutto, anche della mia vacuità, del mio nulla. Davanti a una inversione così generalizzata, così sistematica, di tutti i valori che dovrebbero stare alla base della nostra vita, sia individuale che collettiva — la verità, la giustizia, la bellezza, per non parlare, naturalmente, della bontà, che è quello più apertamente preso di mira, denigrato e deriso – non si può fare a meno di chiedersi da quale perverso meccanismo ciò abbia avuto origine, e in quale strana maniera si regga, a dispetto del buon senso, dell’intelligenza e del puro e semplice istinto di sopravvivenza degli esseri umani. È evidente, infatti, che un mondo dominato dalla menzogna, dall’ingiustizia, dalla bruttezza e dalla cattiveria, è destinato a non durare a lungo; proprio come un marinaio, accorgendosi che la nave sulla quale si è imbarcato, forse per necessità, è in pessime condizioni, dalle velature fino alla chiglia, tutta incrostata di molluschi e piena di piccole, ma pericolose falle da cui filtra lentamente l’acqua del mare, che il comandante è un pazzo, il secondo ufficiale un ubriacone e il terzo un irresponsabile, non sbaglia pronosticando ad essa, e anche a sé, una fine poco gloriosa e non troppo lontana.

Ebbene: sulla base delle osservazioni fatte al principio, non crediamo d’ingannarci affermando che la causa principale di una tale serie di aberrazioni risieda in un fattore fondamentale, che si può diagnosticare con relativa precisione: la noncuranza, o la dimenticanza, o l’aperto rifiuto, da parte degli uomini moderni, di riconoscere, ascoltare e perseguire il fine cui sono destinati, cui la loro esistenza è indirizzata, e in cui essa troverebbe il proprio compimento, la propria perfezione e il proprio significato. E non solo l’uomo moderno è infelice, ma si è reso infelice da se stesso: ha rifiutato ciò che lo poteva rendere felice e ha corteggiato ostinatamente, spasmodicamente, e continua a corteggiare, tutto ciò che può solo aumentare la sua tristezza, la sua angoscia, la sua disperazione. Si è incattivito, si è imbruttito, si è degradato e reso spregevole ai suoi stessi occhi: anche se raramente lo ammette, anche se ostenta sicurezza e fiducia in se stesso, anche se mostra un narcisismo compulsivo, la verità è che, nel fondo di se stesso, egli si detesta, si trova orribile, non riesce neppure a guardarsi in faccia. In fondo, in qualche modo, sogna la propria auto-distruzione; forse la desidera, e fa del suo meglio, o del suo peggio, per affrettarla. Da come mangia a come dorme, da come lavora a come trascorre il suo tempo libero, da come ama a come odia, egli fa di tutto per rendersi sempre più abietto e infelice, sempre più odioso a se stesso e spregevole ai suoi stessi occhi; per sprofondare sempre di più nella palude fangosa nella quale s’è cacciato. Se mai qualcuno gli parla delle altezze, lo prende in odio; se qualcuno gli dice che, forse, con uno sforzo della volontà, potrebbe ancora sottrarsi alla presa delle sabbie mobili, potrebbe ancora rivede il cielo puro sopra di sé, va in furore, digrigna i denti, lo insulta, lo deride, lo minaccia. Non vuole assolutamente sentir parlare del vero, del giusto, del buono e del bello. Gode solo quando trionfano le cose peggiori, quando si circonda di brutte persone, di brutta musica, di brutti film, di brutta letteratura, di brutti passatempi: brutti sia moralmente che esteticamente. Tutto questo ha una radice storica ben precisa, perché la nascita della modernità — che non è un evento ben preciso, ma un lungo processo, che parte assai da lontano e che assume svariate forme – consiste appunto nella rivolta intellettuale e morale dell’uomo contro il suo Creatore: tutta la civiltà moderna non è che una grande Torre di Babele, costruita a sfida di Dio onnipotente, e destinata a rovinare ingloriosamente e disastrosamente, travolgendo i suoi ambiziosi architetti e i suoi folli abitanti. Perché il crollo, è chiaro, è solo una questione di tempo; così come lo è il naufragio della nave che leva le ancore in un pessimo stato di manutenzione, e sotto la guida di un comandante e degli altri ufficiali del tutto incapaci di svolgere bene i loro incarichi. Tutta la civiltà moderna potrebbe essere paragonata alla nave dei folli delle antiche tradizioni: una nave dove si balla, si canta e si fa sempre festa, ma nessuno si prende cura delle manovre, per cui è inevitabile che, presto o tardi, vada a naufragare contro gli scogli o venga travolta da un fortunale.

Esiste una possibilità, per gli uomini moderni, di scongiurare una simile fine? Sì, senz’altro: essi devono tornare in se stessi, rientrare nella consapevolezza dei loro limiti di creature, e cercare in Dio il loro completamento, la loro realizzazione e il significato della loro esistenza. Da soli, però, non possono farlo; senza contare che le loro menti e i loro cuori sono ormai troppo corrotti, troppo traviati, per cui essi si trovano in una situazione simile a quella del malato che non vuol saperne di assumere una medicina necessaria, ma dal gusto amaro. Eppure, anche così, non è detto che l’uomo moderno debba perdersi irrevocabilmente. Può ancora fare la cosa essenziale: pregare e chiedere a Dio la chiarezza, la pace e la giustizia che gli son venute meno. E Dio, che è amore, lo soccorrerà…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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