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Cosa contempla la domina nella Villa dei Misteri?

Ebbene sì, non possiamo negarlo. Ne siamo innamorati; lo siamo sempre stati, da quel lontano mattino d’estate in cui, nell’antica Pompei, passando nella vampa del sole alla fresca penombra del triclinio, la sala da pranzo dei romani, in quella villa fuori le mura denominata, oggi, Villa dei Misteri, l’abbiamo vista per la prima volta, nell’affresco parietale, accanto a tante altre figure femminili, alcune anche molto belle, ma, al suo confronto, tutte sbiadite e quasi insignificanti, tutte ordinarie e con un che di banale, anche se la scena dell’iniziazione misterica è tutt’altro che ordinaria e tutt’altro che banale, e anche se alcune di quelle donne, di quelle giovani ragazze, sono state raffigurate in pose assai più mosse e decisamente audaci e inusuali, una perfino nell’atto di ricevere le frustate sulla schiena nuda, mentre si rifugia fra le ginocchia di una compagna più matura, come se stesse cercando protezione o, almeno, conforto.

Su tutte spicca lei, come un’aquila sopra le oche selvatiche: la domina, la padrona di casa. Nella sua eleganza semplice e naturalmente aristocratica, nella sua dignità connaturata, nello splendore della sua colma giovinezza, già sul puto di cedere il passo alla maturità — le donne romane erano matrone, nel pieno senso del termine, fra i venti e i trent’anni, semmai prima che dopo — non si può dire che il senso di autorevolezza che da essa si sprigiona derivi dall’età — in fondo, pochi anni più delle ancelle delle altre scene — ma da un qualcosa che lei sola possiede, e che non si esaurisce nel fatto sociale di essere la padrona della domus, ma appartiene proprio alla sua natura, alla sua individualità: l’artista pompeiano che l’ha dipinta sul muro non sapeva, forse, di regalarci la testimonianza di uno dei primi ritratti psicologici, di quelli che sarebbero divenuti caratteristici della pittura moderna, specialmente nel XVIII secolo di Rosalba Carriera e nel XIX di Francesco Hayez. La domina degli affreschi di Pompei, infatti, è un tipo, e precisamene un tipo psicologico; non è una astratta rappresentazione di quel che una matrona romana deve essere o deve simboleggiare: ha una vita sua, una storia sua, un’anima tutta sua. Ed è questo che risulta, in lei, terribilmente affascinante e quasi inaspettato: il fatto di essere una persona, un’individualità ben definita, di avere una propria psicologia, dei ricordi, un carattere, una capacità di osservazione, una propensione all’interiorità e alla contemplazione, quindi alla vita spirituale.

Non è questa la sede per parlare del significato complessivo dell’intero ciclo di affreschi, eseguiti nel I secolo a. C. da un anonimo artista locale nel terzo e quarto stile, sotto l’influsso della pittura greca e con forti spunti della cultura egiziana, tanto più che perdurano tuttora le discussioni fra gli studiosi e non vi è unanime accordo su di esso: spettacolo di mimi, o preparazione a un matrimonio, o iniziazione d’una sposa, com’è più probabile, ai misteri di Dioniso; ma è certo che per accostarsi alla domina bisogna inserire la sua figura nel cotesto dell’intero ciclo. Questo è formato da dieci sequenze, che si snodano lungo le pareti secondo un ordine ben definito: nella prima — partendo da settentrione — si vede una donna che si acconcia i capelli, circondata da amorini, guardandosi allo specchio; nella seconda compare, appunto, la domina (o, almeno, quella che è la domina per la maggioranza degli studiosi, ma non per tutti), raffigurata, a seconda delle interpretazioni, nell’atto di sovrintendere alla cerimonia dell’iniziazione, nel qual caso starebbe osservando lo svolgersi ordinato delle diverse sue fasi, oppure, secondo un’altra interpretazione, ella sarebbe la donna già iniziata ai misteri, la quale sta contemplando non la scena attuale, in cui una donna più giovane riceve l’iniziazione, ma i suoi stessi ricordi, e starebbe quindi "rivedendo", o meglio, rivivendo, l’esperienza attraverso cui era passata almeno una decina d’anni prima, ma forse anche più, quando era una vergine che non conosceva né marito, né le gioie (e i dolori) del parto. Noi, che non siamo degli esperti di pittura romana, esitiamo a prender partito; se, tuttavia, dovessimo arrischiare una opinione, propenderemmo per la seconda ipotesi, dato che ella guarda in un modo particolare, che il Pascoli della Digitale purpurea definirebbe "vedere", ossia contemplare i ricordi.

Questa ignota donna romana, misteriosa come lo è tutta la scena, come lo è anche la villa in cui fu ritrovata (la scoperta risale al 1909, quella degli affreschi a una ventina d’anni dopo), che ci trasporta in un clima assolutamente unico e indefinibile, carico di trepidante aspettazione, ma che s’intuisce estremamente sensuale, avendo a che fare con i misteri dionisiaci (per Károl Kérényi dove regna Dioniso la vita si rivela irriducibile e senza confini) che culminavano, come è noto, nei temuti e tuttavia affascinanti Baccanali, rappresenta un enigma, ma anche, o forse appunto per questo, uno dei più bei ritratti femminili che la storia dell’arte occidentale ci abbia regalato, degno di stare accanto ai più celebri ritratti femminili dell’arte cristiana, medievale e rinascimentale, fatto salvo, si capisce, ciò che di specificamente spirituale possiede l’arte cristiana in quanto tale, specie nelle raffigurazioni dell’Eros. Eppure, a suo modo, questa domina pagana, che visse circa un secolo prima di Cristo – quando la villa era nel suo pieno splendore e così pure la città, che poi il terremoto del 62, e soprattutto l’eruzione del Vesuvio del 79, avrebbero distrutto e cancellato per quasi duemila anni — questa domina, dunque, possiede una vita interiore che l’avvolge in una spiritualità che oseremmo definire precristiana, un po’ come la poesia di Virgilio. E non solo perché la matrona, benché ormai da tempo edotta delle gioie del sesso e della maternità, conserva una certa quale gravitas e una autorevolezza che è impossibile non notare, e verso le quali non si può non provare una sorta di soggezione; non solo per il velo che le copre il capo e c’impedisce di vedere la sua acconciatura, e a stento ci permette d’intuire i suoi bei capelli, raccolti, probabilmente, in un nodo dietro la testa, ma proprio per l’aria castamente pensosa che da lei promana. Fra tutte le donne che l’arte antica ci ha lasciato, comprese quelle della poesia, la domina senza nome della Villa dei Misteri è una delle più notevoli, perché possiede ciò che solo pochissime persone hanno: un carisma naturale, e, nello stesso tempo, la capacità d’impersonare, in se stessa, un’idea, una grande idea, un archetipo: in questo caso, quello della santità del matrimonio. E ai nostri giorni, caratterizzati da un estremo e detestabile involgarimento dell’immagine femminile, banalizzata e commercializzata sino a sprofondarla nel fango, ci sembra che le donne della società odierna dovrebbero guardare a lei per ritrovare, insieme al profumo della loro vera femminilità, anche quel senso di decoro, di pudore, di compostezza, di sobrietà che hanno smarrito, inseguendo l’illusione di rendersi più attraenti col lasciar cadere ogni velo sul mistero della loro bellezza.

Ha scritto lo storico dell’antichità romana Robert Étienne (Mérignac, Gironda, 18 gennaio 1921-Bordeaux, 9 gennaio 2009) nel suo libro La vita quotidiana a Pompei (titolo originale: La vie quotidienne à Pompéi, Paris, Librairie Hachette, 1966; traduzione di Mario Andreose e Simona Proietti, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 274-275):

PREPARAZIONE DELLA SPOSA.

Sulla parete di destra, infine, un terzo gruppo presenta la preparazione della sposa. Una giovane donna è seduta su uno sgabello dalle gambe ricche di ornamenti metallici. Ella contempla in uno specchio, che un Amorino alato le porge, la sua bella capigliatura lunga, che sta pettinando con l’aiuto di una cameriera che sta dietro di lei; nell’angolo del muro, un altro Eros alato contempla la scena tenendo nella mano destra l’arco fatale. Questa toilette attira gli sguardi sulla "domina" che, seduta su un letto ("kliné") riccamente decorato, i piedi posati su uno sgabello, si appoggia sul braccio destro sprofondato tra i cuscini e volge il busto verso una scena in cui sembra ritrovare i propri ricordi. Lo sguardo sereno è tradito dalla bocca semiaperta come nel tentativo di ricordare un’estasi antica; le sue carni risplendono di maturità, al braccio sinistro porta un braccialetto e all’anulare un anello da sposa. Vestita con il "chiton" senza maniche che le nasconde un piede e sul quale ha indossato un mantello ocra violetto, questo personaggio assume un’aria di dignità e di pienezza tale che incute rispetto, e perfeziona l’atmosfera di gravità dell’intero dipinto.

Attraverso una sottile mescolanza di sacro e di profano, nel mezzo di nozze divine e di preparativi per nozze terrestri, corre la stessa certezza che dispone di due righi musicali e di due chiavi diverse: l’iniziazione a una conoscenza superiore nella quale l’essere umano può ricordarsi di essere un angelo peccatore caduto dal cielo e che una volta iniziato può ritrovare il paradiso dei beati. […]

Nella vita quotidiana non ci si può dunque dimenticare di questa presenza del sacro, poiché la felicità terrestre nel matrimonio è una delle vie che conducono al divino.

Strano, vero? In una società post-cristiana e neopagana, come la nostra, una donna pagana del I secolo avanti Cristo, raffigurata da uno sconosciuto pittore di una città secondaria dell’Impero romano, che solo per il fatto di esser stata sepolta dalle ceneri vulcaniche ha avuto il destino di trasformarsi, per noi, nel più grande scrigno della pittura antica, potrebbe ergersi a maestra di stile, di garbo, di gusto, alle donne dei nostri giorni, e insegnar loro cosa voglia dire essere affascinanti senza alcun bisogno di spogliarsi o di assumere pose lascive. Osserviamo bene questa domina, allora, e cerchiamo di scoprire le ragioni del suo segreto, del suo fascino senza età: la prima cosa che notiamo è l’estrema raffinatezza, ma, al tempo stesso, l’estrema semplicità della sua acconciatura, del suo vestito e di tutto il suo abbigliamento. Non indossa che tre gioielli: un braccialetto d’oro al polso destro, uno più piccolo al sinistro, e una sottile collanina, che le aderisce al collo; laddove le donne odierne amano portare una quantità inverosimile di braccialetti, di anelli, di orecchini, di pendenti, di piercing, per non parlare dei barbarici tatuaggi che deturpano, pardon, volevamo dire, che adornano loro le braccia, le spalle, le gambe, le caviglie, per non parlare delle altre parti del corpo, fino a quelle intime, lasciate maliziosamente scoperte con finta noncuranza, affinché ogni sguardo estraneo li possa contemplare.

Poi, la toilette molto sobria, le sopracciglia appena un po’ sottolineate; le labbra ben disegnate, ma non cariche; niente orecchini; un solo anello, la vera nuziale al dito; libere di ornamenti le braccia fiorenti; la torsione del busto, con il gomito destro poggiato sui cuscini, non ha niente di sforzato e artificioso, non è una scusa per assumere pose languide e provocanti; le gambe, sotto il velo, sono composte, in una posizione perfettamente decorosa, quale si potrebbe assumere in una ricorrenza pubblica o in un luogo sacro, anziché sul divano di casa: tutto l’insieme emana un senso di castità, ma senza affettazione, di pudore e naturale compostezza. Quella che abbiamo di fronte è una donna pulita, nel pieno senso della parola; e, cosa notevolissima, quasi prodigiosa, ella riesce ad esserlo pur trovandosi al centro di un culto misterico, ispirato alle nozze di Dioniso e Arianna, che poteva degenerare in gravi disordini sessuali, e che, comunque, si ispirava a una visione della vita e dell’amore di tipo naturalistico e fortemente sensuale. Il suo segreto, perciò, è quello di restare impeccabile, qualunque cosa le si svolga intorno: un che di simile all’arte di attraversare l’acqua a piedi asciutti. Solo le persone eccezionali sono capaci di tanto; le altre, sguazzano nel pantano e schizzano fango da tutte le parti. Ma la cosa più notevole, in lei, è l’espressione del viso, con quello sguardo perduto lontano, forse nei ricordi di una ingenua adolescenza: è lo sguardo di una persona matura, che ripensa al passato senza aver perso l’incanto del mondo; è divenuta più distaccata, sì, e un poco pensierosa, ma non si è disamorata del mistero della vita, lo ha conservato in se stessa, e riesce ancora a muoversi, nella pesante realtà quotidiana intrisa di cose e situazioni spoetizzanti, con la lievità meravigliosa di una fanciulla. Ecco: la domina è rimasta una fanciulla nel suo cuore, anche se la rivelazione del mondo adulto, compresi il matrimonio e le responsabilità di madre, le hanno rivelato il lato serio della vita. Poche persone conservano l’incanto del mondo, dopo aver varcato la soglia della giovinezza: lei è una di esse. E c’è qualcosa che la rende avvertita di ciò, e che stende come un tenue velo di malinconia sui suoi occhi, sulla sua affascinante ma casta figura di perfetta domina romana. Il suo ritratto non è solo la celebrazione di una donna eccezionale: è anche la celebrazione della famiglia e degli affetti familiari. Anche se, nell’affresco, non compaiono né lo sposo, né i figli, s’intuisce la loro presenza, da qualche parte, anche solo nella mente e nei pensieri della matrona; si sente che lei è una donna con la testa ben piantata sulle spalle, una creatura gentile, ma anche ferma, dal carattere deciso, che non insegue vane fantasticherie alla Madame Bovary — il bovarismo è una malattia tipicamente moderna — e che non ha alcun interesse a immaginare improbabili romanzi d’amore con questo e con quello, perché ha una casa e una famiglia a cui pensare, ed esse le riempiono l’esistenza e l’appagano sia come persona, che come donna. Quante donne moderne, quante madri di famiglia, potrebbero dire, di sé, la stessa cosa? E questo è il più bell’elogio che le si possa fare: casta fuit, domum servavit, lanam fecit: la poesia della sposa-madre.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Daian Gan from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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