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Alfred Sisley o la scoperta del cielo

Chi ha scoperto il cielo, fra i pittori moderni? O forse dovremmo dire: chi lo ha riscoperto, visto che i cieli azzurri di Giotto che partecipano all’azione dei personaggi, per non parlare di quelli del Beato Angelico, sfolgoranti di luce; e prima ancora i cieli spalancati e brillanti di Sant’Apollinare in Classe o del Mausoleo di Galla Placidia, mostrano che i pittori non hanno atteso la modernità per alzare lo sguardo verso l’alto e per comprendere che il cielo non può essere soltanto lo sfondo di una determinata scena, ma un vero e proprio protagonista, che partecipa alla vita degli uomini come a quella di tutte le creature che vivono sotto il sole. Già nella poesia antica assistiamo a questa scoperta: lo scorcio virgiliano del fumo che si alza dai tetti nella sera autunnale, mentre si allungano sulla pianura le ombre dei monti (Bucoliche, I, 82-83: et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae) attesta che neppure ai poeti era sfuggita l’importanza di questo elemento così fondamentale del paesaggio, così universale, perché se ogni altro elemento può esserci o non esserci — gli alberi, i prati, il fiume, il lago, la cascata, il mare, gli scogli, le colline, la vegetazione, i fiori e i frutti, gli uccelli, ecc. – esso non può mancare mai, di giorno o di notte, d’estate o d’inverno. E se Virgilio è stato forse il primo degli antichi, Tolstoj probabilmente è stato il primo dei moderni: in Guerra e pace la scoperta del cielo da parte del principe Andrej, ferito gravemente sul campo di battaglia e in pericolo di vita, accompagnata da una sensazione di distacco dalle cose terrene, prima così importanti, e quasi di beatitudine suprema, è una di quelle pagine che, una volta lette, non si dimenticano più.

Ora, tornando alla pittura, se William Turner (1775-1851) è stato lo scopritore dell’atmosfera con tutti i suoi moti, le sue sfumature e le sue suggestioni, e ha dato veramente profondità e luce allo spazio aereo, un altro inglese, ma francese d’adozione, Alfred Sisley (1839-1899) a nostro avviso si può considerare il primo pittore moderno che ha fatto del cielo un elemento vivo ed essenziale del paesaggio. E mentre in Turner il cielo è una realtà evanescente, inafferrabile, quasi metafisica, con qualcosa di puro e di astratto anche nella pur marcata determinazione dell’ora o della stagione, per Sisley il cielo reca i segni dell’ora e della stagione tanto quanto il paesaggio terrestre: le sue nuvole mattutine sono altra cosa da quelle serali, e le profondità del cielo estivo sono diverse da quelle del cielo invernale. Perciò, anche se una particolare attenzione rivolta alla rappresentazione pittorica del cielo si presta facilmente a sconfinare nel simbolo e nell’astrazione, come accade al divisionista Luigi Segantini, e come era accaduto, due secoli prima, a un altro grande maestro francese del paesaggio, Nicolas Poussin, nelle tele di Sisley ciò non avviene, perché egli è totalmente innamorato del paesaggio, di tutto il paesaggio, della terra, delle acque, della luce, della pioggia, e anche del cielo; è talmente calato nell’emozione della sua scoperta, della sua rivelazione, che non gli toglie nulla della sua concretezza, anche se si tratta d’una concretezza per sua natura aerea, verticale, luminosa, fatta di vibrazioni più che di sostanza materiale. In altre parole, nelle opere di Sisley il cielo svolge una funzione analoga a quella del fiume, del canale, del filare di pioppi, delle case di campagna, dei muretti di pietra: sempre ampi, distesi, luminosi, splendenti al sole oppure smorzati sotto la neve, ma comunque vivi, concreti, reali, e al tempo stesso resi leggeri, snelli, quasi vaporosi come un sogno del mattino o come lo sguardo di un bimbo che li coglie e li abbraccia per la prima volta, colmo di tenerezza e di stupore.

Lo stesso Sisley descrive la "scoperta" del cielo al suo amico Adolphe Tavernier. Vale la pena di leggere le sue precise parole, insieme a un commento del critico d’arte svizzero-francese François Daulte (Vevey, cantone del Vaud,1924-Losanna, 1998), autore di una intensa ed efficace biografia del pittore impressionista (in: François Daulte, Alfred Sisley; traduzione dal francese di Maria Paola De Benedetti, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1972, pp. 57-58):

Negli ultimi anni della sua carriera, dal 1887 fino alla morte, egli ampliò a poco a poco la sua maniera, per sembrare più affermato. Ma ciò che guadagnò in forza, lo perse in grazia e in chiarezza. D’altronde si può rilevare come, proprio mentre si trasformava, la visione dell’artista non sfuggì a una certa sistematizzazione. Pur senza voler sminuire il talento di Sisley, non si può non notare che in parecchi "Tornanti del Loing", come in certi bordi della foresta di Fontainebleau, il pittore ha perso il mestiere duttile e più ingenuo d’un tempo. Troppo spesso le masse degli alberi sono rese con dei verdi chiassosi; le foglie sembrano morte, il che può sembrare strano dal momento che sono ottenute con piccoli tocchi granulosi che dovrebbero diversificarle; gli imparti delle case non compensano imprecisione delle loro forme; l’acqua ha perduto la sua trasparenza.

Dobbiamo ben guardarci, tuttavia, dal generalizzare! Bene l’ha spiegato Claude Roger-Marx: "Anche nelle serie dipinte a Moret, a Saint Mammès, a Veneux-Nadon, molto spesso si ritrova il timbro angelico di un tempo. Insistendo su quello che chiamava con tenerezza "l’angolo amato del quadro", è con la stessa dolcezza che Sisley fa vibrare la luce nel filare di pioppi che borda il fiume o il canale.. Anche quando la mano sembra esitante, il cuore non è meno sincero". ("Préface de l’Exposition Alfred Sisley", Galleria Durand-Ruel, Parigi 1957, pp. 7-8).

Aggiungiamo infine che ciò che salva quasi sempre le tele più deboli di Sisley è il modo affascinante in cui egli ha saputo rendere il cielo. In una lettera al suo amico Adolphe Tavernier, critico d’are, Sisley ha definito in poche parole significative la parte preponderante che egli assegna al cielo: Bisogna che gli oggetti siano resi con la tessitura che è loro propria e soprattutto che siano avvolti di luce come lo sono in natura. Ecco il progresso che bisogna compiere.

Il cielo deve costituire il mezzo. Il cielo non può essere semplicemente un fondo. Al contrario, esso contribuisce non solo a dare il senso della profondità con i suoi piani (perché il cielo ha dei piani, come il terreno), ma anche a dare il senso del movimento con la sua forma, con la sua disposizione in rapporto all’effetto della composizione del quadro.

Che cosa c’è di più meraviglioso e di più documentato di ciò che succede speso d’estate, voglio dire un cielo con quelle belle nuvole bianche vagabonde? Che movimento che andatura, vero? Fa l’effetto dell’onda quando si è in mare, esalta e trascina.

Un altro cielo, questo più tardi, la sera. Le nuvole si allungano, assumono spesso la forma di scie, di vortici che si direbbero immobilizzati al centro dell’atmosfera e a poco a poco spariscono, assorbite dal sole che tramonta. Questo è più tenero, più malinconico, ha il fascino delle cose che se ne vanno. Io lo amo particolarmente. Ma non voglio stare a raccontarvi di tutti i cieli che sono cari ai pittori, vi parlo ora solo di quelli che preferisco tra tutti".

Con queste poche note, Sisley ci aiuta a capire perché tanto dei suoi paesaggi di Moret ci toccano così profondamente: è perché, attraverso la loro stessa esecuzione, essi ci comunicano l’emozione che il pittore ha sentito dinanzi a loro.

La pittura di Sisley è interamente pittura di paesaggio; e il paesaggio di Sisley è inseparabile dalle dolci ondulazioni e dalle chiare acque dell’Île de France, specialmente del paese di Moret sulla Loing, nella zona tra la Senna e la Marna, oltre che dalla foresta di Fontainebleau. Per altri pittori impressionisti il paesaggio, quel paesaggio, così rurale e verdeggiante, pur essendo così vicino alla metropoli parigina, si direbbe che sia quasi un pretesto, e sia pure un pretesto di lusso, per sperimentare gli effetti di una particolare tecnica della pennellata, di un particolare impasto di colori, insomma per verificare in tutti i sensi la percorribilità pratica dell’idea impressionista, del suo nucleo teorico. Per Sisley, no: il paesaggio, per lui, non è mai in funzione di qualcos’altro; è la vita stessa, la ragion d’essere del quadro, la sua anima profonda, unica e irripetibile. Da qui il gusto di dipingere più volte il medesimo paesaggio, in ore e stagioni diverse, allo scopo di rendergli la sua vita, tutta la sua vita, senza alcuna pretesa d’intromissione da parte dell’artista. In un certo senso, la pittura di Sisley sta al paesaggio come le opere teatrali di Cechov stanno alla vita dei suoi personaggi. L’arte di entrambi è profondamente contemplativa e non giudicante: accoglie ogni elemento, dal fiume che scorre fra gli argini alla singola foglia del pioppo che tremola al vento, non in maniera qualunquista, ma in maniera affettuosa, comprensiva, intimamente benevola: perché Sisley sente d’istinto che la vera conoscenza delle cose viene dal fatto di amarle e saperle ascoltare. Ecco: egli è un grande ascoltatore; mentre ci mostra il paesaggio della sua amata Île de France, è il paesaggio che si mostra, che si rivela, a lui e a noi: perché un altro segreto è che le cose si rivelano sino in fondo a chi le sa ascoltare in silenzio, e a nessun altro. Pochi altri moderni hanno dato prova di un’umiltà simile a quella di Alfred Sisley: non Corot, né Courbet, né Renoir; non Van Gogh, e tanto meno Gauguin. I nostri Fattori, Pellizza da Volpedo, De Nittis, Ciardi, hanno messo tutti qualcosa di se stessi nel paesaggio, non ce l’hanno dato come esso è, ma come loro volevano che fosse; solamente Sisley si è spogliato del proprio io e ha lasciato che i campi, il fiume, gli alberi, le nuvole, il cielo gli si rivelassero in tutta la loro freschezza e in tutta la loro vitalità. La differenza che corre fra lui e gli altri è la stessa che esiste — rubiamo l’immagine a I fiumi di Ungaretti – fra chi, d’estate, si mette a prendere il sole e chi, invece, si china a riceverlo. Sono due atteggiamenti profondamente diversi: il primo è mosso dall’io, il secondo è frutto di quell’umiltà che scaturisce dalla saggezza di un cuore puro e indifferente alle lusinghe del mondo. Perché anche l’animo di Sisley era fatto così: badava solo alla sua arte e, a parte l’amarezza di faticare a mantenere la famiglia, non soffriva per il mancato riconoscimento da parte dei suoi contemporanei – il successo verrà alla sua opera, non a lui, subito dopo la sua morte — ma, semmai, perché il discorso sull’arte che voleva fare, un discorso intessuto di silenzio, di mitezza e di stupore davanti al miracolo del mondo, stentava a farsi strada, a essere recepito dal pubblico e dalla critica. I quadri di Renoir o di Monet, più colorati, più vari e pieni di figure, erano fatti per piacere a molti; i paesaggi umili e sinceri di Sisley sono fatti per piacere ad alcuni.

Non ci si lasci distrarre dal fatto che Sisley ama rappresentare anche dei paesaggi eccezionali, ad esempio l’inondazione del fiume che sommerge le campagne, trasformandole in un’insolita laguna solcata dalle barche, e arriva al primo piano delle case: perché, appunto, egli vuol lasciare che anche quegli aspetti eccezionali entrino nella sua tela, affinché nulla manchi al complesso ordito della vita; ma perfino sopra quel paesaggio stranito, e in qualche modo inquietante, brilla la luce e scintillano i riflessi dell’acqua, facendo da pendant ai riflessi delle chiome degli alberi e dei tetti bagnati di pioggia. Questo significa che l’arte di Sisley ignora il dramma del vivere? Niente affatto; solo che lui non lo sbandiera, quel dramma; non ne fa il motivo centrale della sua pittura, perché quello sarebbe un atteggiamento ideologico, e quindi giudicante, estraneo alla natura spontanea delle cose, alla vita reale del mondo. Non si venga perciò a parlare, per lui, di un’arte disimpegnata: al contrario, quale impegno più grande e più serio di questo, il mostrarsi rispettoso e capace di ascoltare ogni singola nota del vastissimo concerto dell’esistenza? La verità è che Sisley, d’istinto, si tiene egualmente lontano dalla pretesa di un’arte "impegnata", cioè orientata dall’ideologia e non dalla vera ispirazione, così come da un’arte "popolare", nel senso che vuol piacere a ogni costo al grande pubblico. Anche se negli ultimi anni alcuni critici hanno notato dei segni di un leggero cedimento in quest’ultimo senso, tutti, però, gli riconoscono sincerità d’intenti e pulizia formale in tutte le sue opere, comprese quelle dell’ultimo periodo. E l’elemento che maggiormente spicca ed attesta la sua integrità artistica è proprio il cielo: così vasto, così mosso, così partecipe della vita dell’insieme. Del resto, Sisley è rimasto un puro sino alla fine: così come, da giovane, ha voltato le spalle a una brillante carriera commerciale nell’impresa paterna e ha lasciato la patria e gli amici per seguire totalmente la sua vocazione pittorica, così ha saputo perseverare nel suo stile inconfondibile pur vedendo che la sua coerenza rischiava di rimandare oltre misura il riconoscimento dei suoi meriti. Ciononostante è sempre rimasto fedele a se stesso. I suoi fiumi, i suoi canali tranquilli orlati dagli alberi snelli ricordano il sereno paesaggio di Ausonio, il poeta della tarda latinità cui si deve la scoperta del paesaggio come valore autonomo (cfr. il nostro articolo: Nasce con la "Mosella" di Ausonio la moderna poesia del paesaggio, sul sito di Arianna Editrice il 09/05/12, e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 27/01/18). Ci voleva un pittore-poeta come Sisley, capace di obliare interamente se stesso, per darci la più grande scoperta, o riscoperta, della pittura moderna: il cielo vivente di vita propria; come ci voleva un musicista-poeta quale Bach, capace di annullarsi in Dio, per darci le più perfette opere contrappuntistiche: cioè la poesia della matematica allo stato puro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Daian Gan from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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