
Right or wrong, my country…
14 Agosto 2017
Quod Deus vult perdere, dementat prius: Napoleone a Dresda, il 26 giugno 1813
15 Agosto 2017Oggi c’è molta, troppa confusione tra l’ambito della psicologia e l’abito della filosofia; tutti, o quasi tutti, si credono filosofi, si proclamano filosofi, assumono atteggiamento filosofici: ma non lo sono affatto, perché non pensano l’essere, che è il compito della filosofia. L’essere, per loro, è diventato una chimera; non ci credono più, oppure, nel migliore dei casi — come ha insegnato il loro vero maestro, Immanuel Kant — lo ritengono decisamente al di là delle capacità del pensiero. Era inevitabile che, una volta proclamata tale incapacità, il pensiero si ripiegasse su se stesso, si avvitasse in una serie di spirali cieche: e infatti tutto l’idealismo, che entra sulla scena della filosofia tedesca, e poi europea, sulle orme di Kant, non è altro che psicologia — anche se una psicologia decisamente delirante. Se l’essere non è più pensabile, cosa resta da fare al pensiero? Pensare di essere l’essere, di venire prima dell’essere, di conferire l’esistenza all’essere. E questo hanno fatto, o tentato di fare, Fichte ed Hegel: affermare che non l’essere crea il pensiero, ma il pensiero crea l’essere. Del resto, la miglior dimostrazione del fatto che il pensiero di Hegel è psicologico, e non filosofico, risiede nella significativa ammissione che, una volta, egli stesso ebbe a fare, di non riuscire a capire, in certi casi, quel che egli stesso aveva scritto, magari il giorno prima. E Kierkegaard, dal canto suo, affermò di aver studiato così a fondo il sistema hegeliano, prima di scartarlo, da aver compreso anche quelle parti nelle quali l’autore era stato confuso, non per altra ragione se non perché il suo stesso pensiero gli era rimasto oscuro.
Dopo l’idealismo (cui Maritain, non senza ragioni, negava la qualifica di filosofia, ritenendo più appropriato definirlo una ideosofia), scendendo un gradino dopo l’altro, con coerenza ammirevole, se una tale espressione fosse compatibile con l’auto-castrazione della filosofia, il pensiero si è ulteriormente auto-mortificato: da pensiero del pensiero in generale, a pensiero del mio pensiero particolare. E così si sono diffuse le varie filosofie solipsistiche, che fanno scaturire tutto il reale da una operazione, o da una serie di operazioni, della mente di ciascun singolo soggetto. Anche per questo c’era un padre nobile (si fa per dire): David Hume. Per Hume, tutta la conoscenza è psicologia: è una aspettativa che, da certe cause, derivino certi effetti; frutto dell’abitudine, non della conoscenza dell’essere. Così, emerge chiaramente che Kant e Hume sono i veri fondatori (o distruttori, come si preferisce) del pensiero moderno: l’uno ha dichiarato inaccessibile la metafisica, l’altro ha consigliato di gettare nel fuoco tutti i libri che parlano di essa, e, nello stesso tempo, seminato il dubbio scettico universale: se l’esistenza di tutte le cose è un atto, o una serie di atti, del mio pensiero, chi mai potrà garantirmi che non sia tutta un’illusione, una fantasticheria, un delirio? Evidentemente, nessuno. È facile vedere come i primi passi in questa direzione, verso questo vicolo cieco, siano stati mossi da Cartesio; il quale si era illuso di avere inventato l’antidoto insieme al veleno, mediante il suo celebre "cogito": se dubito che il reale esista davvero, come io lo vedo, allora vuol dire che sono qualcosa, che esisto: altrimenti, come potrei dubitare d’ingannarmi? Debolissimo ragionamento: se davvero m’inganno, posso ingannarmi benissimo anche sul fatto di pensare. Forse non penso affatto; forse sono solo pensato; pensato da qualcosa o da qualcuno che m’illude di essere io il soggetto del mio pensiero, o meglio, di quel pensiero che io credo mio, mentre e invece è di qualcun altro, e, magari, è anche qualcos’altro. Cartesio ribatte: sì; ma se qualcuno mi vuole ingannare, io, per il solo fatto di temerlo, dimostro a me stesso di esserci, perché dubitare è una forma di esistenza. Ma se qualcuno dubitasse di colui che dubita di me che sto dubitando? E così via, all’infinito, come nelle matrjoske: per ogni io che dubita, e che dubita di dubitare, potrebbe esserci un diavoletto maligno che si diverte a giocare con noi… No, non vi sono vie d’uscita da questo circolo vizioso, una volta che lo si sia imboccato. E porre la questione del pensiero sul terreno di colui che pensa, e non sul terreno dell’essere, significa, automaticamente, entrare in un labirinto dal quale è impossibile uscire, perché è impossibile distinguere la realtà dal pensiero.
Non è un caso che, scendendo di un altro gradino, il pensiero moderno sia approdato all’esistenzialismo. L’esistenzialismo è la filosofia del qui, adesso, secondo quel che posso vedere io, cioè non-si-sa-come: io, povero essere gettato nell’esistenza senza che lo abbia voluto, senza che lo possa rifiutare (se non ammazzandomi; o forse, chissà, neppure allora). L’esistenzialismo, in verità, merita la qualifica di filosofia ancor meno dell’idealismo: se quest’ultimo, per lo meno, cercava di pensare l’essere, e sia pure identificandolo con il pensiero di colui che pensa, l’esistenzialismo se ne infischia del pensiero, e si limita a chiedere, ma senza alcuna vera volontà di rispondere, semmai di compiacersi della propria perplessità: E adesso, che diavolo ci faccio qui? Non c’è da stupirsi che l’esistenzialismo abbia prodotto solo dubbi, malesseri, interrogativi abortiti, stanchezza esistenziale, noia, nausee e bruciori di stomaco: esso corrisponde al punto più basso toccato dal pensiero occidentale. Più in giù di così, non sarebbe potuto scendere, nemmeno se lo avesse voluto. Oppure no? Forse lo avrebbe potuto: aprendo la porta dell’inconscio freudiano e scendendo nelle buie cantine dove nessun raggio di sole è mai penetrato. Perfino la convinzione che esistano queste cantine ancor più basse delle cantine "normali", è frutto di pura illazione: gli psicanalisti la arguiscono dal manifestarsi delle nevrosi, oppure lo leggono nei sogni del paziente, sogni, ovviamente, mascherati in maniera tale, che loro soltanto li possono decifrare, meglio di quanto il giocatore accanito del lotto o della tombola riesca a decifrare i sogni mediante la consultazione della Nuovissima smorfia napoletana. E un altro gradino ancora, nella discesa senza fine, lo hanno fatto i decostruttivisti, con la loro decostruzione di tutto l’esistente. Si direbbe che ogni nuovo "pensatore" e ogni nuova filosofia non abbiano di mira che questo: scoprire se c’è un modo di scendere più in basso, ancora più in basso, verso il nichilismo assoluto; e strappare il loro momento di celebrità, lasciarsi consumare sul mercato delle idee che vanno di moda, per poi scivolare, altrettanto velocemente, nel dimenticatoio polveroso delle cose inutili: quelle cose che, sul momento, parevano geniali e "fondamentali", cioè irrinunciabili per chi sarebbe vento dopo, mentre poi ci si è accorti che vi si poteva rinunciare benissimo, e che quasi nessuno si era accorto se vi fossero ancora, oppure no…
Ora, sia chiaro, noi non abbiamo nulla contro la psicologia; a parte il fatto che si è data uno statuto forse troppo ambizioso e, per giunta, ambiguo ed incerto. Troppo ambizioso, perché essa pretende di spiegare il mio pensiero risalendo al mio io, e perfino al subconscio, che nessuno ha mai visto e nessuno mai vedrà, per definizione (altrimenti, diverrebbe conscio): e, così facendo, nega il mistero. Ma il mistero è connaturato all’io, è parte essenziale dell’ontologia dell’io: se lo si toglie, se lo si ignora, se lo si nega, si mutila l’io di una sua parte essenziale. Molti errori e molte tragedie, anche storiche, partono da qui: da questa errata impostazione dell’io. Ambiguo ed incerto: perché la psicologia pretende di essere addirittura una scienza, e sia pure una "scienza dello spirito": ma questo la rende più pretenziosa, non più esatta, se "scientifico" significa esatto, o più esatto di ciò che non è scientifico. Se la psicologia è una scienza, allora tanto vale chiamare "scienze" tutti gli ambiti del conoscere, compresi l’arte, la magia, il gioco ed il sogno. Quanti errori si sarebbero risparmiati, se i suoi cultori fossero stati un po’ più modesti, un po’ più concreti, un po’ più vicini al tanto bistrattato senso comune. Noi, comunque — dicevamo – non abbiamo assolutamente nulla contro la psicologia: purché il suo ambito sia definito quanto basta per non generare confusioni con quello della filosofia. La psicologia si occupa del pensiero, dei suoi meccanismi, della sua genesi, e dei suoi rapporti con i sentimenti, le emozioni, gli istinti, le pulsioni, e perfino le allucinazioni; essa si occupa, cioè, di un settore limitato del reale, la mente umana e le modalità del suo funzionamento. La filosofia, invece, pensa il tutto, cioè l’essere; e se non lo fa, se non lo vuol fare, se rinuncia a farlo, perché lo dichiara impresa impossibile, automaticamente si squalifica da pensiero dell’essere a pensiero di singoli aspetti o manifestazioni dell’essere. Non guarda più la luna, ma comincia a contare tutte le dita che indicano la luna. Non s’interessa più di che cosa sia la luna, se sia un corpo che splende di luce propria o riflessa, ma enumera tutte le tipologia di dita, le loro funzioni, la loro struttura fisiologica.
In fondo, non aveva tutti i torti Vincenzo Gioberti allorché sosteneva che Antonio Rosmini aveva confuso il Primo psicologico con il Primo filosofico, giacché aveva concepito l’essere, in buona sostanza, come idea, e non come essere. Ma le idee danno, ancora e sempre, altre idee, non danno l’essere; solo l’essere dà le idee, insieme alle cose. Inoltre, Rosmini aveva sostenuto che l’idea primitiva dell’ente rappresenta solo l’ente possibile: ma il possibile presuppone il reale, non esiste al di fuori del reale. Perciò, quando pensiamo, dobbiamo fare bene attenzione a non confondere il nostro pensiero con il pensiero in quanto tale, né i contenuti del nostro pensiero, con il reale in se stesso: distinzione estremamente necessaria, ma che gran parte della filosofia moderna si rifiuta di fare, condizionata da Kant; ragion per cui la cosiddetta filosofia moderna è, sostanzialmente, psicologia e non filosofia. Si tratta di due cose diverse. La speleologia è una nobile arte, ma non va confusa con l’alpinismo: non si può spacciare la speleologia per alpinismo; e, tanto per cominciare, non si può barare sul significato delle parole. Quasi tutti i pensatori moderni dovrebbero avere l’onestà di dire: noi non possiamo pensare l’essere, perché non crediamo che vi sia un essere quale fondamento di tutte le cose, compreso il pensiero; noi, pertanto, ci limitiamo a esplorare il pensiero e le sue leggi, quindi siamo degli psicologi. Il guaio è che ogni scuola psicologica ha la sua Weltanschauung e perfino la sua metodologia, la sua prospettiva, il suo metro di giudizio: ridurre il pensiero a psicologia equivale a proclamare la dittatura del relativismo. Hanno ragione tutti, o forse non ha ragione nessuno. Chi può dirlo? Se tutto il reale è psicologia, allora l’io ha sempre ragione, purché non faccia un passo al di fuori di se stesso. Anzi, purché non faccia un passo in alcuna direzione: neppure all’interno di se stesso. Chi ci garantisce che, muovendosi, non muti la sua prospettiva? Pirandello sosteneva che ciascuno di noi è uno, nessuno e centomila: dunque, ci vogliono centomila psicologie per dare ragione di ciascun io. Figuriamoci quante ce ne vorrebbero per tentare il pensiero dell’essere. No, è decisamente meglio non provarci neppure, se i presupposti sono questi. E come se non bastasse, ciascuno di noi è anche nessuno: e allora, in che modo potremo dire qualcosa di noi stessi, del nostro pensare individuale, se noi siamo, in realtà, nessuno? Anche da questo lato, la cittadella del conoscere appare imprendibile; e il pensiero, una missione disperata.
Il sottofondo inespresso della cultura moderna è, infatti, la disperazione. Anche il sottofondo dell’esistenza delle singole persone, in generale, si svolge sotto il segno della disperazione. Di-sperato è colui che non ha più speranza. Ma quale altra speranza può esservi, per il pensiero, se non quella di avvicinarsi, almeno un poco, alla luce dell’essere; e quale altra speranza può esservi, per la vita individuale, se non quella di avviarsi nella giusta direzione, uniformandosi all’armonia dell’essere, cioè vivendo così come si deve vivere: non a caso, né follemente, né stoltamente, né egoisticamente, ma così come è giusto vivere, cioè assolvendo al proprio ruolo e rispondendo alla propria chiamata? Ora, da quando il pensiero ha rinunciato a pensare l’essere, la vita delle persone si svolge sotto il segno del caso. A caso si nasce, a caso si consumano i propri anni, a caso si va verso la fine; poi si scompare nel nulla. Questa, almeno, è l’idea — più o meno sottaciuta – di gran parte delle persone. La letteratura, il cinema, i grandi mezzi di comunicazione, l’arte, la scienza, e la filosofia stessa — o quel che di essa usurpa il nome — confermano gli uomini in questa particolare concezione dell’esistenza; anzi, si può dire che la prescrivono, e sono pronte a sbeffeggiarlo e a deriderlo se egli non vi si attiene; se, per esempio, osa riaccendere in se stesso la speranza. Gli dicono: Cosa, tu pretendi di pensare l’essere? E giù una risata. E ancora: Cosa, tu vuoi crede che la vita abbia un senso preordinato, un significato superiore a quello che noi, soggettivamente, decidiamo di assegnarle? E giù un’altra risata. In definitiva, domanderebbero: Ma dunque, tu credi in Dio? Qui la cultura moderna non ride nemmeno più: resta basita, incredula. Un uomo che crede in Dio non fa neanche più ridere: suscita un misto d’incredulità e di pena, come un fossile vivente. Si prendano quasi tutti i sedicenti filosofi moderni, e s’immagini di dire loro: Sì, io credo in Dio; credo che l’universo abbia un significato; credo che ogni ente, compresi me e te, abbia un compito da svolgere, che gli è stata assegnato fin da prima che il mondo fosse. Ebbene, resterebbero tutti basiti: a metà fra increduli e impietositi. Impietositi per la nostra imbecillità. Strano, però; avevamo sempre creduto di sapere che la vera filosofia aiuta a vivere, mostrandoci la via giusta da seguire…
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