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Alle radici del «femminicidio»: vogliamo parlarne?

Se l’argomento non fosse serio, anzi, tragico, verrebbe voglia di liquidarlo con una battuta: giornali e televisioni, specialmente d’estate, quando langue la cronaca vera, hanno bisogno di qualcosa di forte e l’uccisione di una donna, se possibile giovane e bella, da parte di un uomo, è sempre un ghiotto boccone per i mercenari della pseudo informazione: gente che venderebbe sua madre pur di strappare qualche punto di audience. Cominciamo dalla parola femminicidio, che esprime un concetto inesistente. Secondo il disegno di legge n. 724 del Senato della Repubblica, tra i cui presentatori spiccano i nomi di Fedeli, Cirinnà, ma anche di Finocchiaro e Mussolini, a riprova del fatto che la demagogia più sfrenata è sempre bipartisan, il reato di femmincidio sarebbe un omicidio doloso o preterintenzionale in cui una donna viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere. Per motivi basati sul genere? Ma che diavolo vuol dire? Viene uccisa perché è una donna? No: nessun uomo ha mai ucciso una donna perché è una donna (tranne, forse, qualche rarissimo serial-killer completamente pazzo); gli uomini uccidono le donne per gelosia, per amor proprio frustrato, per punirle di una infedeltà, per eliminare il pericolo di una denuncia, ma non perché sono donne. Non per punirle di essere donne, o perché le odiano in quanto donne. Semmai, sono le donne a fare una cosa del genere: per togliere di mezzo una rivale, per punire un’amica che ha tradito, per vendicarsi di un affronto sessuale. E infatti, il vocabolario chiarisce imparzialmente che, per definire il femminicidio, la cosa essenziale è che la vittima sia una donna; ma a compiere l’omicidio può esser benissimo un’altra donna: dunque, non si tratta d’un atto tipicamente maschile. E non si può neanche sostenere che derivi sempre da una mentalità patriarcale, mirante a ribadire la volontà di sottomissione della donna: l’amante (donna) che uccide la moglie scomoda del "suo" uomo non agisce in base a una mentalità di quel genere e non vuole sottomettere nessuno: vuole levarsi di torno una persona che le è d’ostacolo al raggiungimento dei suoi fini. Tutto qui.

E poi, vogliamo parlare delle donne che uccidono gli uomini per motivi legati al genere? Sono legione. C’è un programma televisivo, statunitense, ma tradotto e mandato in onda anche da noi, intitolato Donne mortali (Deadly Women) che illustra decine e decine di casi di omicidio intenzionale e freddamente pianificato, in cui delle donne uccidono altre donne (o degli uomini) per ragioni basate sul genere, se così vogliamo esprimerci, cioè per ragioni aventi a che fare col sesso: casi nei quali si registrano una efferatezza, una crudeltà, un sadismo, quali ben di rado si trovano nei corrispondenti delitti di uomini contro le donne. E non si tratta di assassine mentalmente disturbate, o, comunque, non nel senso comune della parola, ma di donne perfettamente normali, capaci di intendere e di volere, che sanno benissimo quello che fanno e sanno che è sbagliato, ma lo fanno ugualmente, convincendosi che è, invece, perfettamente giusto. Non delitti d’impeto, quindi, come lo sono, il più delle volte, quelli compiuti da uomini, e perciò privi dell’attenuante d’essere scaturiti da un impulso improvviso e incontrollabile. Ma, obietterà qualcuno, i delitti degli uomini contro le donne sono più frequenti e, inoltre, hanno origine da una mentalità maschilista e patriarcale. Alla prima obiezione, rispondiamo che nessuno lo sa: non esistono statistiche, né ci si può fidare dell’uso spregiudicato e della cinica "selezione" che i mass media fanno delle notizie di cronaca nera. Anche la "percezione" soggettiva che l’uomo sia più violento nelle sue relazioni sessuali, è del tutto priva di valore probante: l’uomo, spesso, uccide a mani nude, o con un’arma, la donna preferisce il veleno, il che fa meno impressione: ma neppure questa è una regola. La povera Sara Scazzi è stata uccisa a mani nude dalla cugina e dalla zia, e proprio per ragioni di genere: la sua presenza dava fastidio alla cugina perché ostacolava le sue mire su di un uomo. La seconda obiezione è ancora più fragile: che cos’è la mentalità maschilista? Una donna che ne uccide un’altra perché la giudica una rivale in amore, o che uccide un uomo (o una donna, nel caso di una lesbica) per punirlo di una infedeltà, agisce in base a una mentalità maschilista e patriarcale?

Molto più interessante, invece di ingolfarsi in sterili diatribe ideologiche sul maschilismo o sulla patriarcalità di certe violenze e di certi omicidi, è cercar di capire cosa sta accadendo nella dinamica sentimentale fra uomo e donna, e per quale ragione il livello di sopportazione delle delusioni, degli insuccessi, delle frustrazioni, è crollato verticalmente, nel giro di pochi anni. Questo, sì, possiamo dirlo, perché è sotto gli occhi di tutti e basta prenderne atto: non vi è da discutere su quello che tutti possono constatare. Le persone, uomini e donne, non sopportano più le delusioni amorose; e i maschi reagiscono in una maniera violenta, che la cultura femminista descrive con il termine di femminicidio. Un uomo o una donna che vengono lasciati o rifiutati, o traditi, o che sospettano, semplicemente, di esser traditi, o che temono, semplicemente, di esser lasciati, hanno delle reazioni paranoidi, a volte violente (e di queste si occupano le cronache), altre volte di tipo depressive (e queste passano inosservate, tranne che nella cerchia ristretta di familiari e amici); altri ancora rivolgono la rabbia e la disperazione contro se stessi con atti di autolesionismo, che arrivano fino al suicidio. Non c’è un’età critica per soggiacere a tali dinamiche: possono essere degli adolescenti di quindici anni o dei pensionati di settanta, dopo mezzo secolo di vita in comune con il coniuge o il partner. Dobbiamo quindi interrogarci su che cosa abbia reso tanto fragili le persone da non riuscire più a gestire in maniera ragionevole e pacifica delle situazioni di squilibrio affettivo, le quali, per quanto dolorose, non dovrebbero condurre a esiti estremi e distruttivi.

La prima osservazione che ci sentiamo di fare è che non si può istituire un confronto quantitativo con ciò che accadeva due o tre generazioni fa, non solo perché non disponiamo di statistiche attendibili, ma soprattutto perché le separazioni, non solo di persone sposate, ma anche soltanto fidanzate, erano, allora, qualcosa di estremamente raro, di cui si parlava con stupore e con un fondo di disapprovazione. Quando un uomo o una donna si legavano seriamente, mediante il matrimonio o anche il semplice fidanzamento, assumevano un codice d’onore che rendeva rarissimo un successivo ripensamento. Nessuno, o quasi nessuno, pensava che la scoperta di una realtà diversa da quella immaginata fosse motivo sufficiente per l’infrazione di una solenne promessa di fedeltà. Il fidanzamento, poi, era una cosa che veniva presa sul serio quasi quanto il matrimonio; tanto più che il requisito della verginità pre-matrimoniale, specie per la donna, era molto sentito, ciò che rendeva coerente la scelta, per le nozze, dell’abito bianco, simbolo di purezza (mentre oggi si perpetua solo come un fatto estetico e tradizionale, ma del tutto sciolto dal suo significato simbolico originario). Di conseguenza, sia le famiglie, sia le coppie di fidanzati — e il fidanzamento era l’anticamera del matrimonio, non una condizione destinata a durare anni, con tutti gli aspetti di intimità del matrimonio, ma senza i relativi impegni, come lo è oggi — godevano di un alto grado di stabilità; stabilità che veniva rafforzata dai figli, almeno due, più spesso dai due in su, e dal fatto che i figli arrivavano subito o quasi subito, per cui la donna diventava madre ben prima dei trent’anni, e non dopo, come accade ai nostri giorni. Piaccia o non piaccia (e certo non piace troppo alla mentalità moderna, e specialmente alla cultura femminista), tutto questo, insieme ad altri fattori, che qui sarebbe troppo lungo ricordare, faceva sì che l’uomo e la donna, i quali avevano deciso di unire le loro strade, avessero poche occasioni e pochi motivi di disaccordo gravissimo, e quindi di separazione, quanto meno secondo il comune modo di pensare e di sentire. Anche se oggi ci si prende e ci lascia con moltissima facilità (ci sono perfino delle coppie in cui uno dei due annuncia all’altro di averlo lasciato via telefonino, con un semplice messaggio), e anche se i sensi di colpa nei confronti dei figli, davanti alla prospettiva di una separazione, si sono molto attenuati (il che non vuol dire che i bambini ne soffrano di meno, anche se così amano credere le signore femministe e i loro amici progressisti), la stabilità di coppia è diventata piuttosto l’eccezione che la regola, e quindi anche il numero delle separazioni è cresciuto in maniera esponenziale rispetto a due o tre generazioni fa.

Il fatto che ci si prende, e soprattutto che ci si lascia, con estrema disinvoltura, potrebbe far credere che la separazione fra un uomo e una donna, oggi, non sia più un dramma; che, mediamente parlando, essa venga accettata, introiettata e metabolizzata assai più facilmente e naturalmente del tempo in cui la famiglia, e la coppia, erano delle strutture "rigide". Niente affatto: la premessa è giusta, ma la conclusione è errata. Sì, è molto più facile e più frequente il fatto di lasciarsi; ma, se la disinvoltura nel prendere un compagno o una compagna è immensamente cresciuta rispetto al passato recente, la struttura psicologica delle persone non ha elaborato altrettanta disinvoltura di fronte all’evento della separazione. Non ne ha avuto il tempo, semplicemente. Detto in parole più semplici: ci si abitua estremamente in fretta ad un vantaggio acquisito; ma rinunciare a un vantaggio acquisito, non è cosa altrettanto facile, anche se esso è costato poca fatica. Non c’è più una proporzione fra il sacrificio e l’impegno richiesti per raggiungere un obiettivo, e l’attaccamento che nasce nei confronti di quella cosa, una volta che sia stata raggiunta. Oggi tutti possono fare tutto, o almeno lo credono, sicché tutti si sentono ingiustamente espropriati di un loro diritto se quella certa cosa viene loro sottratta. L’incredulità, l’indignazione, la rabbia, di fronte a un abbandono non sono andati scemando per il fatto che esistono mille più occasioni di trovare un partner, anche temporaneo, e di "sostituire" la persona che se n’è andata: a dispetto di questa accresciuta facilità, il senso della ferita e della perdita è rimasto tale e quale, o, se possibile, è perfino aumentato. Il nuovo ricco non si rattrista di meno, per aver subito un furto nella sua villa, acquistata solo da poco, di quanto si rattristi colui che era ricco per nascita, e da vive da sempre nella villa di famiglia, piena di cose rare e preziose; semmai avviene il contrario.

A ciò si aggiunga il fatto che le persone, anche affettivamente, sono nel complesso più fragili di quanto lo fossero i loro genitori e i loro nonni. Hanno dovuto affrontare meno sacrifici, meno prove, meno difficoltà; sono cresciti, spesso, sotto una campana di vetro. Se la maestra si permette di sgridare un bambino, subito parte una denuncia o, come minimo, i genitori si presentano dalla direttrice a fare una sfuriata coi fiocchi. Viceversa, un brutto voto, o una sgridata da parte dei genitori, o una semplice contravvenzione stradale, possono innescare una reazione di angoscia e un senso di umiliazione così forti, da spingere un ragazzo o una ragazzina a togliersi la vita. Pertanto, le persone, oggi, si prendono e si lasciano con molta facilità, ma non per un eccesso, diciamo così, di energia vitale, bensì per un difetto: sono diventate timorose, insicure, complessate, e hanno una paura maledetta di restare intrappolate in un legame che potrebbe rivelarsi insoddisfacente. Una sorta di sindrome di Madame Bovary preventiva: meglio non impegnarsi per paura che le cose vadano male. Inutile dire che, molto spesso, se vanno male è proprio perché ci si è impegnati troppo poco sin da principio. Anche l’abbandono del matrimonio, e specialmente del matrimonio cristiano, svolge la sua parte. Per il credente, il matrimonio è un Sacramento, un atto soprannaturale, mediante il quale la grazia di Dio viene in soccorso alla fragilità umana, e non per un momento, ma per tutta la vita. Senza questa fede e senza questo soccorso, la fragilità umana riemerge in tutta la sua preoccupante evidenza: Rimanete nel mio amore, perché senza di me non potete fare niente, dice Gesù ai suoi discepoli. Ora, se gli uomini e le donne si rapportano gli uni alle altre in maniera eccessivamente leggera, e lo fanno per paura di dover vivere insieme (mentre un tempo la paura era esattamente quella opposta: di essere separati), non ci si deve aspettare che l’abbandono suoni come una liberazione: al contrario, esso assume l’aspetto di una minacciosa conferma dei peggiori timori nutriti sin dall’inizio. Di una cosa sola, infatti, l’uomo e la donna moderni hanno più paura che del restare intrappolati in un legame non gratificante: la solitudine. Non sanno stare da soli, per nessuna ragione. Il giorno dopo essere stati lasciati, devono già trovare qualcuno che li consoli e riempia il vuoto: senza fermarsi a riflettere, neppure per un attimo, sul perché le cose siamo andate come sono andate. E qui giungiamo al punto. Dei due, l’uomo e la donna, quello che ha più paura è l’uomo. La donna, impregnata di cultura femminista, pensa di aver sempre un’altra occasione, fino a sessanta anni, fino a settanta e oltre. Un uomo, specie dopo i trenta, è preso dallo sgomento: se viene lasciato, gli crolla il mondo addosso, perché si vede finito. Checché ne pensi la cultura femminista, è l’uomo che ha un rispetto istintivo della famiglia, non la donna, almeno nella fase storica attuale. L’uomo tradisce la donna, ma raramente pensa a distruggere la propria famiglia per costruirsi una felicità nuova con un’altra donna; lei, invece, quando tradisce, lo fa con tutta se stessa, in piena consapevolezza, e, una volta presa la sua decisione, non conosce dubbi o ripensamenti, figli o non figli; e non si fa scrupolo per quel che ne sarà di colui che aveva promesso di amare per sempre. Ne consegue che l’uomo, terrorizzato e inferocito, può reagire all’abbandono con cieca violenza; ovvio che va condannato. Ma lei, la femminista che provoca, seduce, prende e lascia, è proprio innocente?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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