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2 Agosto 2017Sì: possiamo bleffare, possiamo rimandare, possiamo fare finta d nulla; ma sono tutte strategie perdenti. La verità è che, prima o dopo, dobbiamo fare i conti con noi stessi; se no, perdiamo il treno della nostra stessa vita e ci troviamo a viverla tutta fuori parte, per capirlo — poi – quando sarà troppo tardi.
Il male più grande in cui si dibatte l’uomo moderno, in cui si dibatte la famiglia moderna, in cui si dibatte la società moderna, è la disarmonia interiore, accompagnata dalla inconsapevolezza. La disarmonia ci pone costantemente fiuori di noi stessi e in conflitto con noi stessi: un conflitto maligno, dal quale non verrà mai qualcosa di buono, perché non nasce da un confronto tra due componenti egualmente necessarie, ma dal fatto che la parte inautentica di noi stessi vuol sottomettere e, se possibile, divorare la parte vera. L’inconsapevolezza aggiunge a questo quadro, già sconfortante, il fatto di cercare motivazioni e risposte al nostro agire nella direzione costantemente sbagliata: accusando gli altri per i nostri fallimenti, oppure colpevolizzando una parte di noi, mai però quella malata, ossia l’ego smisurato che dovremmo ridimensionare, bensì quelle sane, che esprimono qualcosa di noi che è valido, vero, autentico, e lo sommergono sotto strati d’ignoranza, o di sensi di colpa, o di cattiva coscienza, o di’illusione, o di patologica dipendenza da quel che non sta in noi, che non è nostro, che non possiamo controllare.
In effetti, ci sono due maniere di vivere: quella che cerca di realizzare il fine della propria esistenza, e quella che preferisce cercare colpevoli, inseguire fantasmi, coltivare morbosamente i ricordi, inseguire ogni fugace immagine di bene, senza vedere se si tratta realmente di ciò che pareva. Dalla prima maniera discende la pace del cuore, anche in mezzo alle difficoltà e alle tribolazioni; dalla seconda, una infelicità tanto sicura quanto sterile, perché nessuna medicina varrà mai a lenirla o a ridurla. Abbiamo bisogno, pertanto, di tre cose: chiarezza intellettuale, per capire chi siamo, dove vogliamo andare, dove stiamo effettivamente andando; volontà, per tornare padroni di noi stessi e per imporre alla nostra vita la direzione giusta; e umiltà, per riconoscere il nostro limite ontologico e domandare l’aiuto di Chi ce lo può dare, sostenendoci e confortandoci nei passi più malcerti, e riempiendo con il suo splendore la nostra oscurità, con la sua pace, la nostra angoscia. Sono tutte e tre importanti; ma quella più importante è, senza dubbio, l’ultima. I credenti la chiamano fede in Dio; per i cattolici, è la fede in quel Dio che si è fatto uomo per amore loro, ha sofferto, è morto ed è risorto, e ha mostrato loro la strada del cielo.
Se è brutto avere dei conti aperti con gli altri, ancora più brutto è avere dei conti aperti con la vita in generale; ma la cosa peggiore di tutte è avere dei conti aperti con se stessi. Chi vive in questo modo, senza mai fare i conti se stesso, e, in tal modo, senza mai "chiuderli", dando a se stesso ciò che gli spetta, e rinunciando a ciò che non è suo, vive letteralmente all’inferno: nessun nemico riuscirà mai a farlo soffrire con tanta raffinatezza come riesce a fare lui, da solo. Ha dei conti aperti con se stesso chi non si è perdonato per qualcosa, e non ha domandato perdono; chi non ha mai provato a fare seriamente ciò che andava fatto; chi non ha mai provato ad ascoltare la voce della propria chiamata. Costui è fragile, instabile, precario: basta un soffio di vento per sbilanciarlo e metterlo in cristi. Se la vita gli dà un urto appena un poco più forte — un distacco affettivo, ad esempio, o una delusione professionale, sentita come ingiusta — i conti aperti con se stesso esigeranno da lui un tributo di sofferenza moltiplicato per dieci, moltiplicato per cento: aggiungeranno il sale e lo verseranno sulle sue ferite. Così, per lui, ogni raffreddore si trasforma in una broncopolmonite doppia, e ogni lieve indigestione, in un tumore allo stomaco. Perciò, la prima cosa da fare, se si vuol prendere in mano la propria vita, è chiudere tutti i conti rimasti in sospeso con se stessi. Sarà anche un cammino di consapevolezza, probabilmente doloroso: ma, proprio come un’amara medicina, quanto più sarà doloroso, tanto più forte sarà la luce che si accenderà dopo un simile buio.
La nostra tendenza istintiva sarebbe quella di fuggire; fare i conti con noi stessi è una cosa che ci spaventa, perché sappiamo che non potremo barare proprio con la sola persona al mondo che capirebbe al volo il minimo tentativo d’imbrogliare le carte: noi stessi. Molti, perciò, preferiscono raccontarsela e vivere nella menzogna: l’avaro si auto-convince di essere generoso; l’invidioso, di esser e benevolo; l’opportunista, di essere disinteressato; il meschino, di essere nobile; l’egoista, di essere disponibile verso gli altri; il superficiale, di essere profondo; il prepotente, di essere mite e ben disposto; l’insofferente, di essere paziente; l’imbroglione, di essere onesto; il bugiardo, di essere sincero. Se proprio arrivano al punto di ammettere che, sì, quella certa volta, hanno detto o fatto qualcosa di non troppo bello, immediatamente si fabbricano una quantità di scuse e di giustificazioni per auto-assolversi, per negare che quella cosa, in quelle tali circostanze, fosse altro che la sola possibile che avrebbero potuto dire o fare. Molti sono talmente sprofondati nella menzogna che essa è divenuta il loro modo abituale di vivere; la maschera, in essi, è diventata tutt’uno con il loro volto. Non si saprebbe se definirli i più fortunati degli uomini, perché hanno trovato il modo di stare sempre bene con se stessi, o i più disgraziati di tutti, perché quel modo è interamente, totalmente falso, e ha spento in essi anche la più remota possibilità di riscatto e di redenzione, facendo di loro delle anime perse, irrecuperabili.
Avere dei conti aperti indica, quasi sempre, una incapacità di perdonare, di voltare pagina e di andare avanti con la propria vita, nonostante una perdita, una delusione o un’amarezza. Vi sono dei casi nei quali il boccone da mandar giù è veramente troppo grosso: la sensazione di essere stati manipolati, usati e poi gettati via come dei vecchi stracci, è una delle più difficili da digerire e da metabolizzare, e porta con sé, come un fratello gemello, il desiderio di vendetta. Ci si vorrebbe vendicare: si vorrebbe restituire, con gl’interessi, tutta la sofferenza, la delusione, la mortificazione che ci sono state inflitte, e che, qualche volta, ci sono state inflitte con particolare cattiveria e con inutile sadismo. A quella certa persona – per esempio, una persona che abbiamo amato, e per la quale avremmo affrontato qualunque sacrificio, ci saremmo perfino gettati nel fuoco per amor suo – a quella persona, dunque, sarebbe bastata una semplice parola di pace, una telefonata, una lettera, per restituire un minimo di serenità al nostro animo martoriato; le sarebbe bastato un gesto anche minimo, paragonato a ciò che avremmo fatto noi, al suo posto, cioè sapendo che la sua pace, il suo bene, dipendevano da una nostra parola o da un nostro gesto. Eppure non l’ha fatto, non l’ha voluto fare; quella parola, non l’ha voluta dire, e tutto ciò scientemente, deliberatamente, con una efferata ricerca del massimo male nei nostri confronti. È difficile, in simili casi, perdonare; pure, bisogna farlo, non perché gli altri lo meritino, ma perché ne va del nostro equilibrio, della nostra pace e del nostro futuro. Abbiamo bisogno di voltare pagina e lasciarci dietro le spalle le cose che sono passate: e se quella persona, negandoci un gesto di rappacificazione, ha inteso lasciarci bruciare nelle fiamme del nostro inferno, noi non dobbiamo permettere che ciò accada. E abbiamo un modo abbastanza semplice per impedirlo: sottrarre il combustibile, far sparire tutto ciò che potrebbe alimentare le fiamme. Il nostro rimpianto, il nostro rancore, la nostra incapacità di elaborare il distacco, hanno fornito un tale combustibile; ebbene, è necessario che lo gettiamo via, per non offrire altra esca alle fiamme. Solo così l’incendio finirà per spegnersi: solo quando noi avremo deciso di aver sofferto abbastanza, di chiudere i conti e di guardare avanti. L’odio, il rancore e il rifiuto di perdonare, che alimentiamo in noi, vanno soffocati una volta per tutte: è la sola strada che abbiamo a disposizione per non restare imprigionati in una spirale negativa che si è trasformata nella nostra prigione e nel nostro inferno quotidiano.
In questo caso, i conti erano rimasti aperti nei confronti di un’altra persona; ma che fare allorché rimangono aperti con noi stessi? Pensiamo, ad esempio, a una mamma che ha peso il figlio, per una malattia, o per un incidente. Oltre a non perdonarsi di non aver fatto abbastanza per prevenire quel tragico evento, è possibile che quella donna non perdoni al marito, agli altri figli, non si sa bene cosa, ma, in ultima analisi, il fatto di essere rimasti in vita, mentre lui è morto; ed è possibile che non lo perdoni a se stessa, e non lo perdoni neppure a Dio. Non è necessario che sia un pensiero lucido e cosciente; specie se si tratta di una donna cresciuta nella fede cattolica, forse ella non si rende conto del sentimento di rancore e di vendetta che sta alimentando, giorno dopo giorno, in se stessa; però, di fatto, è un sentimento di odio e di vendetta nei confronti di Dio. Dio ha permesso quella morte: dunque, Dio è responsabile. Non è vero che Dio ci ama e che è giusto: perché, per una madre, la morte di suo figlio è sempre l’ingiustizia suprema. È qualche cosa d’inaccettabile, semplicemente. Ci vuole una grandissima fede, non diciamo per accettarla, ciò che è impossibile, ma almeno per chiedere a Dio la forza e l’umiltà necessarie per lasciare che si compia la sua volontà e non la nostra. Perfino Gesù Cristo ebbe bisogno di ricorre ad una speciale preghiera, e fu soccorso da un Angelo del cielo, allorché, quella notte tremenda, nell’orto degli ulivi, disse: Padre, se è possibile, passi da me questo calice; però sia fatta la tua volontà, non la mia. E se fu un passo estremamente impegnativo per Gesù, possiamo bene immaginare quanto possa essere difficile per una creatura umana. Umanamente parlando, infatti, vi son dei dolori che non si possono accettare; vi sono delle prove superiori alle nostre forze. Tuttavia, è necessario ricordare ancora le parole di Gesù: Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio.
È terribile avere dei conti in sospeso con Dio. Dio è la nostra pace e il termine del nostro viaggio: avere dei conti in sospeso con Lui equivale a condannarsi, già in vita, a una tragica separazione nei Suoi confronti. Noi siamo separati da qualcuno o da qualcosa allorché coltiviamo in noi stessi il rifiuto dell’incontro; ma la creatura che rifiuta l’incontro con il suo Creatore, si pone da se stessa in una situazione letteralmente infernale. Bisogna fare molta attenzione, perché non si tratta di espressioni figurate: stiamo parlando di una terribile realtà, che potrebbe fare di noi delle anime perse già in questa vita. Il rifiuto di Dio, il rifiuto della Sua volontà, equivalgono al rifiuto della nostra condizione creaturale, del nostro statuto ontologico di enti, che non hanno in se stessi le risorse per capire e per giudicare ogni cosa. Vi sono cose che appartengono solo a Dio: il giudizio sul mistero del male è una di tali cose. Quello che noi possiamo fare è chinare la fronte davanti a ciò che non possiamo capire, né, in termini umani, accettare, ma che, con il Suo auto, possiamo trasformare in una potentissima occasione di crescita, di maturazione, di perfezionamento, nonché di avvicinamento a Dio. Dio, infatti, è particolarmente vicino alle anime sofferenti: purché esse non trasformino in rabbia la loro sofferenza, ma Gli permettano di renderla simile a una scala, certo difficoltosa, ma anche piena di luce e di bellezza, per avvicinarsi a Lui. Anche Maria Vergine perse suo Figlio, e lo perse nella maniera più dolorosa: fu ai piedi della croce finché non spirò, pianse sul suo cadavere, lo vide chiudere nel sepolcro. Eppure non si ribellò, non accusò il Padre d’ingiustizia, non si sentì tradita e ingannata, dopo che le era stata fatta una promessa così grande riguardo a quel Figlio. Continuò ad aver fede in Dio e la sua fede fu premiata; la sua angoscia fu trasformata in gioia, come Gesù aveva promesso durante l’Ultima Cena: Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. La sofferenza dell’innocente è un grande mistero, ma Gesù ha promesso che quel mistero sarà chiarito e che la sofferenza si tramuterà in consolazione.
È meglio, dunque, pensare a chiudere i conti rimasti in sospeso, con tutti, compresi quelli che si hanno con se stessi, e specialmente quelli con Dio, finché c’è ancora del tempo. Chi ha dei conti aperti con qualcuno, non ha l’anima in pace; e chi non ha l’anima in pace, non è pronto per il commiato. Noi non sappiamo quando verrà il nostro momento; pensiamo sempre di avere ancora molto tempo a disposizione, ma la verità è che siamo dei pellegrini, in viaggio attraverso un paese che non è la nostra vera dimora, e potemmo non averne più. Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita, ammonisce ancora Gesù (Luca, 12, 20). La vita, infatti, non è nostra: ci è stata data, e non sappiamo per quanto tempo. Dobbiamo farne buon uso e tenerci pronti a restituirla, fra molti anni o stanotte stessa. Chi lo sa, quando verrà il momento? Ma quando verrà, sarà Dio a fare i conti con noi, e non noi con Lui. E se avremo saputo fare la Sua volontà, verremo trovati degni di partecipare alla Sua luce; se avremo preteso di fare la nostra, il nostro destino non potrà essere che quello dell’eterna separazione. Ecco, allora, l’importanza e la necessità della preghiera. È solo con la preghiera costante, come faceva appunto Gesù, che s’impara a rimettersi alla Sua volontà e ad abbandonare la propria: Bisogna pregare sempre, senza stancarsi, per non cadere in tentazione. Gesù approfittava di ogni momento, rubando anche le ore al sonno, mentre tutti dormivano, per raccogliersi in preghiera. Possiamo noi fare a meno di ciò ch’era essenziale per Lui? Certo che no…
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