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Neochiesa modernista, il tradimento peggiore

La Chiesa odierna è massicciamente infiltrata dal modernismo; la cultura cattolica odierna è impregnata d’idee moderniste: al punto che ci si può domandare se si possa parlare ancora dell’una e dell’altra come se siano ancora se stesse, benché alterate, o se non siano già diventate qualcos’altro: una neochiesa modernista e una cultura falsamente cattolica, ma anch’essa, in sostanza, modernista. Fare una diagnosi esatta è di fondamentale importanza, anche e soprattutto in vista di una possibile terapia. Se si scambia una polmonite doppia per un banale raffreddore, si rischia di compromettere la vita del paziente. Dunque, è essenziale capire se la Chiesa è stata infiltrata dal modernismo o se il modernismo ha inglobato in sé la chiesa e ne ha fatto una cosa sua (e, a questo punto, la scriviamo con la lettera minuscola), cioè una cosa tutta umana; e se la cultura cattolica odierna ha subito il fascino e le suggestioni del modernismo, magari — e almeno in parte – senza accorgersene, oppure se la cultura modernista ha divorato, un boccone alla volta, quella cattolica, lasciando sussisterne soltanto l’involucro. Ma c’è un’altra domanda, ancora prima di queste, che è di fondamentale importanza per formulare la diagnosi e prescrivere l’eventuale terapia: quale sia l’anello debole che ha ceduto, permettendo dapprima l’infiltrazione, poi una vera e propria invasone e occupazione, da parte del modernismo; in che cosa, esattamente, la Chiesa e la cultura cattolica abbiano abbassato la guardia e si siano lasciate sorprendere. Perché, in apparenza, fin verso la metà del XX secolo, entrambe sembravano salde e vitali; entrambe avevano una spiccata coscienza di sé, una autonomia, una fierezza, si vorrebbe dire, che poi si sono squagliate come nebbia al sole. E che si sia verificata una invasione, e, successivamente, una occupazione, non c’è dubbio: Jacques Maritain, che pure è stato uno dei massimi ispiratori del Concilio Vaticano II, nel 1966 — cioè appena un anno dopo la sua conclusione — scriveva, sconsolato, nel libro Il Contadino della Garonna, che, in confronto al modernismo penetrato allora nella Chiesa, quello dei primi del Novecento, condannato da Pio X con l’enciclica Pascendi, era stato una semplice febbre da fieno. E ne è corsa di acqua sotto i ponti, e pure di modernismo, dal 1966…

Ebbene, la costruzione, giorno dopo giorno, di una neochiesa modernista e progressista sulle rovine della vera Chiesa, la Sposa di Cristo, ha rappresentato forse il tradimento più subdolo, più perfido, più satanico che si sia verificato nella storia: sotto gli occhi e sotto il naso dei fedeli, ma facendo in modo che non se ne rendano conto, che non capiscano quel che sta accadendo; e con la volonterosa collaborazione, o con la partecipazione attiva ed entusiasta, di un clero ubriacato dalla smania di novità, dimentico dei suoi doveri, o, peggio, consciamente intenzionato a favorire la sostituzione della Chiesa cattolica con una cosa nuova e diversa, che, di essa, conservi solamente il nome, mentre per tutto il resto ne è la parodia e la contraffazione, e, in ultima analisi, l’esatto opposto, cioè una contro-chiesa agnostica e massonica, inconciliabile con il vero Vangelo e, anzi, radicalmente anticristiana. Un tradimento nei confronti di Gesù Cristo, innanzitutto, da parte di uomini e donne che, a parole, lo hanno riconosciuto come il loro Dio, e poi lo hanno, di fatto, rinnegato, senza avere neppure l’onestà di dichiarare le loro intenzioni e agire allo scopeto; poi, nei confronti di milioni d fedeli, per i quali sono diventati dei cattivi pastori, delle guide ingannevoli e dei seminatori di scandalo. E all’interno di questo gigantesco, inqualificabile tradimento, la cosa peggiore, la più ingannevole e la più malvagia, è stata la compromissione con il mondo, con i suoi falsi valori, con la sua brama di piaceri disordinati, con il suo sfrenato egoismo, con la sua esaltazione del principio del piacere su qualunque altra cosa. Una compromissione mirante a far credere che non vi è alcuna reale opposizione fra il Vangelo e la carne, fra Cristo e il mondo, fra le cose terrene e le cose celesti; che si può benissimo essere dei cristiani e, nello stesso tempo, dei gaudenti, degli avari, degli iracondi, dei lussuriosi, degli intriganti, dei maldicenti, dei bugiardi, insomma dei peccatori, ma negando la realtà del peccato e sostituendola col concetto di "libertà".

Ecco: questo è stato, ed è, il tradimento peggiore: quello che mette le anime in pericolo mortale. Perché dalle spire di morte del peccato ci si può liberare, mediante il pentimento e la riconciliazione con il Padre; ma se l’uomo chiama bene il male e male il bene, se dichiara lecito il peccato e si rifiuta di riconoscerlo come tale, e se trova dei sacerdoti abbastanza stolti o abbastanza perversi da incoraggiarlo in un simile atteggiamento, allora, certamente, l’uomo sarà destinato a perire: e della sua morte Dio chiederà conto a quanti lo hanno ingannato, lo hanno tradito, gli hanno presentato un falso vangelo che rende lecito il peccato e che santifica i peggiori disordini, nati dall’egoismo e dalle passioni scatenate. E se la misericordia di Dio è grandissima, e anche per il peccatore più perverso c’è speranza di salvezza, purché si ravveda, si penta e domandi sinceramente perdono, tuttavia c’è una cosa, crediamo, che neppure la misericordia di Dio può fare: perdonare chi non vuol essere perdonato, rimettere il male che non viene riconosciuto e confessato, assolvere colui che non solo non chiede l’assoluzione, ma, addirittura, arriva a vantarsi della propria condotta perversa, e che, con satanica sfrontatezza, proclama essere suo diritto compiere ciò che è male agli occhi di Dio, e perfino che Dio approva la sua condotta, la autorizza, la considera come una giusta e legittima scelta da parte dell’uomo, facente parte del suo diritto alla felicità. Come se Dio avesse mai riconosciuto un simile diritto, o, per dir meglio, come se fosse possibile trovare la felicità in ciò che dispiace a Dio, e dunque ponendosi lontano da Lui, contro di Lui e contro il piano d’amore che Egli ha preparato per le sue creature.

Eppure, proprio questo hanno fatto, e seguitano a fare più che mai, i seguaci del modernismo travestiti da cattolici, travestiti perfino da sacerdoti, da vescovi e cardinali: presentare il peccato come una opzione legittima da parte dell’uomo e, in tal modo, abolire, di fatto, la categoria del peccato, la realtà del peccato, sostituendola, semmai, e se proprio vi sono costretti, con quella di "errore", una categoria tutta laica e immanente, una categoria naturalistica, senza ombra di trascendenza, come se la cosa peggiore che un essere umano possa fare sia quella di venir meno ai suoi impegni presi nei confronti degli altri, ma sempre sulla base della pretesa di stabilire, da parte di ciascuno, in maniera autonoma e sovrana, ciò che è giusto, vero e legittimo: per cui, una volta convintosi di aver agito in maniera "adulta" e "responsabile", l’uomo non potrebbe mai ammettere di aver sbagliato, e tanto meno di aver peccato. Parliamoci chiaro: nel modernismo vi è un ritorno dell’antica insofferenza dell’uomo nei confronti di Dio, della onnipotenza di Dio, della sovranità divina di Cristo: come i libertini del XVII secolo, e come gli illuministi del XVIII, i modernisti sono infastiditi dalla presenza di un Dio che percepiscono come un limite, come un ingombro, come una presenza opprimente e fastidiosa; simili ai vignaioli omicidi della parabola evangelica, essi vorrebbero uccidere Dio per sentirsi padroni del mondo e non dover rendere conto a nessuno delle loro azioni, per non dover rendere conto dei loro fratelli. Sono forse il custode di mio fratello?, dice Caino a Dio, che gli domanda dove sia suo fratello Abele, dopo che l’ha assassinato. E si tratta della stessa invidia, della stessa gelosia, che nacquero nel cuore di Eva e di Adamo, allorché il serpente disse alla prima donna: Se mangerete di questo frutto, non solo non morirete, ma sarete simili a Dio. Già: perché accontentarsi di essere delle creature, e sia pure delle creature straordinariamente privilegiate e straordinariamente amate da Dio, quando si può essere dio al posto di Lui? Ma per non procedere in maniera astratta e generica, facciamo un esempio concreto di questa perversione del Vangelo, operata dal clero modernista e dalla cultura modernista; e scegliamo fra i molti, i troppi, che sono sotto gli occhi di tutti, il caso del padre gesuita americano James Martin, una delle personalità più influenti all’interno della sua Chiesa.

Recentemente costui ha fatto parlare di sé con una serie di iniziative e con la pubblicazione di un libro (ma non ci voleva il nihil obstat, una volta? e non era una cosa buona, il fatto che qualcuno controllasse l’ortodossia di ciò che veniva pubblicato dal clero cattolico?), intitolato Costruire un ponte: come la Chiesa cattolica e la comunità LGBT possono instaurare una relazione di rispetto, compassione e sensibilità, per ottenere una revisione, o meglio, un totale rovesciamento del Catechismo riguardo alla questione dell’omosessualità. Martin vorrebbe che la condanna della dottrina cattolica – condanna, è bene ricordarlo, che non colpisce le persone omosessuali, ma gli atti omosessuali, definiti "intrinsecamente disordinati" — venisse abrogata e che la Chiesa si "decidesse" a riconoscere il diritto delle persone omosessuali ad amarsi e anche a sposarsi, naturalmente anche in chiesa (se no, che coerenza sarebbe?), sostenendo che il "vero" peccato non è l’omosessualità, bensì l’omofobia; e ha aggiunto, per buona misura, che, a suo credere, non pochi santi, proclamati tali dalla Chiesa, erano degli omosessuali. Quel che si dice la volontà di sporcare tutto, d’insozzare ciò che è pulito, affinché, nel letamaio generale, si spenga anche il ricordo della purezza, e le nuove generazioni ne smarriscano perfino il concetto. Fra le numerose iniziative e i valorosi appelli che padre Martin lancia continuamente, specie a mezzo Twitter, non figurano quisquilie come il divorzio, l’aborto e l’eutanasia, ma vi è l’accorata richiesta che ci si rivolga alle persone transessuali con il rispetto e la delicatezza loro dovute, adoperando il genere, maschile o femminile, che esse desiderano, cioè riconoscendo loro il diritto, soggettivo, di decidere il proprio sesso; inoltre, vi è il biasimo nei confronti dell’amministrazione Trump per aver abolito la precedente normativa Obama circa l’uso delle toilettes, cioè, in pratica, impedendo ai transessuali di servirsi, nei locai pubblici, dei bagni maschili o femminili, a seconda di ciò che essi si sentono di essere. Martin, che è popolarissimo in America, specie fra i gruppi cattolici progressisti, pro-aborto, pro-eutanasia, pro gay (ma non era sufficiente questo fatto, sino all’altro giorno, per venire espulsi, senza troppe cerimonie, dal clero cattolico?; così, almeno, erano andate le cose dopo l’outing spettacolare di monsignor Krzysztof Charamsa, nell’ottobre 2015) ha incassato non solo il sostegno, pressoché scontato, di gruppi sedicenti cattolici, come quello fondato da suor Jeannine Grammick e Robert Nugent, ma anche di pezzi grossi della Chiesa statunitense, compresi due cardinali, Kevin Farrell e Joseph Tobin, e il vescovo di San Diego, Robert McElroy. Per farsi un’idea del tenore di questo sostegno, basti dire che Farrell ha definito il libro di Martin benvenuto e davvero necessario, mentre Tobin lo ha qualificato coraggioso, profetico e stimolante (fonte: Ermes Dovico su La Nuova Bussola Quotidiana dell’11 aprile 2017). Al che si capirà come il "caso Martin" non sia altro che la punta visibile di un fenomeno in atto da alcuni decenni, ma rimasto a lungo sotterraneo: la lenta, graduale, irresistibile (o no?) ascesa della lobby gay dentro il Vaticano e dentro la Chiesa cattolica: lobby che è divenuta talmente potente e talmente arrogante da potersi permettere ciò che, fino a ieri, sarebbe stato addirittura impensabile: una serie di prese di posizione pubbliche, in flagrante contraddizione con ciò che la Chiesa, da sempre, per secoli e secoli, ha insegnato e ribadito su questo argomento; e da invocare apertamente il totale rovesciamento del Catechismo. Senza che dal Magistero, e in particolare dal papa, sia giunta la benché minima parola di smentita, o di riprovazione, o anche di pura e semplice perplessità. Al contrario: non sarà male ricordare che Kevin Farrell, principale sponsor di James Martin – che è stato fatto cardinale, insieme a Tobin, nell’ultimo concistoro di novembre 2016 – è stato nominato prefetto del nuovo Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, creato da papa Francesco lo scorso 15 agosto, con la lettera apostolica Sedula Mater, in forma di "motu proprio". Ed ecco come funziona e a cosa serve codesto Dicastero: fa venire in mente la Pontificia Accademia della Vita, alla quale è stato chiamato a far parta da monsignor Vincenzo Paglia, ma con la firma personale di papa Francesco, un teologo abortista, l’anglicano Nigel Biggar. Niente male, vero? A noi sembra che ce ne sia più che a sufficienza per riflettere, e anche piuttosto a lungo.

Questo, ripetiamo, è solo un esempio; purtroppo, avremmo potuto farne a centinaia, addirittura a migliaia. La Chiesa è sprofondata nella palude da quando il modernismo, cacciato nel 1907 grazie all’azione, lucida ed energica, di san Pio X, è rientrato, alla grande, dalla finestra, e, ultimamente, senza neanche più nascondersi, senza vergogna, senza ombra di pudore, anche dal portone principale. E il modernismo è questo: con la scusa di "aggiornare" la Chiesa, di mettere al passo la cultura cattolica con il mondo moderno, con la civiltà moderna e le sue "conquiste" (non importa se illusorie, o demenziali, o francamente diaboliche), esso vuole far entrare lo spirito del mondo dentro di esse, e, con il cavallo di Troia della compassione, del dialogo, della misericordia, dei muri da abbattere e dei ponti da gettare (come, appunto, il "ponte" di cui parla il titolo stesso del libro di padre Martin), eccetera, eccetera, sovvertire in maniera radicale il Magistero, stravolgere il Vangelo e in tal modo vanificare o distruggere i frutti della divina Rivelazione. Ora, se non si deve chiamare satanico tutto questo, non sapremmo davvero a che cosa si dovrebbe rivolgere un tale appellativo…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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