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Perché la cultura femminista odia Maria Vergine

Nelle sue Lettere di Berlicche, del 1942, lo scrittore cattolico inglese Clive Staples Lewis sosteneva che esistono due archetipi femminili nell’immaginario dell’uomo, la Venere celeste e la venere infernale: la prima, contraddistinta da un certo grado di spiritualità, capace d’innalzare i pensieri e i sentimenti del suo compagno verso la dimensione superiore; la seconda, caratterizzata da una sensualità brutale, quasi animalesca, fatta apposta per sedurre il maschio e per trascinarlo verso il basso, nel regno della istintività più primitiva. Potremmo prendere a prestito questo concetto, psicologicamente esatto, e trasporlo nella dialettica oggi esistente fra il modello rappresentato dalla Vergine Maria e quello rappresentato dalla tipica donna moderna, aggressiva, in carriera, e, soprattutto, lubrica: per esempio, la cantante Madonna, la quale non certo per caso ha scelto come nome d’arte quello che si richiama direttamente a Maria, madre di Gesù, con il preciso intento di profanare il sacro e di accrescere la propria notorietà e la propria carica trasgressiva "sporcando" l’immagine più casta e al tempo stesso più cara al cuore dei cattolici. Ci sono, dunque, due Madonne, quella celeste e quella infernale: e si contendono l’anima di centinaia di milioni di donne in tutto il mondo, ma specialmente nelle società occidentali e post-cristiane.

Semplificando al massimo, oltre alle ragioni già esposte (cfr. il nostro articolo Perché Maria è inconciliabile con la modernità, pubblicato su Nuova Italia. Accademia Adriatica di Filosofia il 26/07/2017), potremmo dire così: Maria Vergine è il simbolo della donna che fa di se stessa un dono di amore totale e disinteressato, in un senso puramente spirituale; l’altra, la madonna terrestre, è il tipo della donna che si offre in un senso esclusivamente carnale, e, per giunta, non si offre per donarsi, ma si offre per negarsi: cioè per accendere il desiderio maschile e poi tirarsi indietro, rifiutando di concedersi. Un comportamento, anzi, uno stile abituale, evidenziato da tutta una serie di cose, a cominciare dall’abbigliamento, fatto apposta per attirare il massimo dell’attenzione maschile sulla propria fisicità (senza molta differenza con quello di una prostituta da strada, a parte il fatto che, per quest’ultima, si tratta di un modo, brutale ma spiccio, per farsi riconoscere, di notte, sui marciapiedi o a lato delle strade statali, mentre per lei è un gioco di malizia gratuita) e che potrebbe sembrare paradossale, quasi schizofrenico – e forse lo è realmente — ma che ha una sua, e sia pure perversa, ragion d’essere, a suo modo perfettamente logica. Provocando l’interesse del maschio nel senso più carnale ed esplicito, la donna moderna — spesso non più giovane, ma con un look da ragazzina; spesso separata o divorziata, ma ben decisa a godersi la sua libertà da single, meglio se con i soldi del suo ex marito, che un giudice, di solito donna e femminista, ha condannato a mantenerla a vita, indipendentemente dalle sue possibilità economiche; qualche altra volta lesbica più o meno felice e più meno dichiarata, il che rende il suo gioco coi maschietti ancora più divertente e senza rischi di coinvolgimento affettivo — si prende una sorta di rivincita su chi sa mai quali (immaginari) torti e secolari ingiustizie, subiti da parte della odiosa razza padrona di sesso maschile. E quale rivincita più allegra, più beffarda, più tagliente di questa: infiammare il desiderio sessuale del maschio, lusingarlo, blandirlo, e poi voltargli le spalle e allontanarsi con un sorriso di disprezzo, godendo della sua vana eccitazione e della sua cocente delusione, che diventa ancor più amara perché condita con il pepe di una inequivocabile, immedicabile umiliazione? Offendere la virilità dell’uomo, schiaffeggiare a sangue proprio la sua fierezza di maschio, dopo averla portata fino al diapason del desiderio: si potrebbe immaginare una vendetta più saporita? E non importa se è una vendetta nei confronti di uno sconosciuto che non centra affatto con la sua biografia le sue delusioni: basta che sia un maschio, poiché tutti i maschi sono colpevoli in solido dei crimini di ciascuno, così, per decisone inappellabile della giustizia femminista; e non importa neppure se si tratta d’una vendetta che si ritorce, in ultima analisi, su colei che la attua, perché costringe anch’ella ad una totale sterilità affettiva, a una reiterazione compulsiva di strategie finalizzate al nulla.

In fondo, in questo atteggiamento della donna moderna — e quando diciamo donna moderna, intendiamo quel tipo particolare di donna che aderisce in pieno, e consapevolmente, ai miti e ai dogmi più specifici della cultura moderna: individualista, progressista, materialista, rivendicativa, e, nella fattispecie, femminista — c’è un tratto tipico della psicologia del cittadino moderno in quanto tale, anteriormente alla differenziazione di genere: una tendenza al compiacimento sadico nei confronti dell’altro, preso come oggetto del proprio piacere, ma anche come bersaglio sul quale sfogare e riversare tutta la propria carica di aggressività latente, spinta ad un livello e a delle forme tali, che, inevitabilmente, implicano degli "effetti collaterali" anche per colui – per colei, nel nostro caso — che brandisce il coltello dalla parte del manico ed è, quindi, la parte attiva in questo rapporto sadico. Infatti, non solo non è un comportamento normale – ma tanto, la parola e il concetto di "normalità" sono stati archiviati, con il massimo disprezzo, dalle varie forme della cultura progressista, e dal femminismo in primis — che una donna finalizzi il proprio modo di apparire, di porsi, di stare con gli altri, alla seduzione sistematica, con la precisa intenzione di non concedersi e d’irridere le avances del maschio; è anche, in ultima analisi, autolesionistico, e quindi, almeno potenzialmente, masochista. È inevitabile: quando ci si concentra nell’essere seducenti, si eccita il desiderio altrui, ma, in qualche misura, anche il proprio: e il negarsi, benché possa offrire qualche soddisfazione perversa — conosciamo delle donne che confessano di arrivare fino all’orgasmo, nell’atto di rifiutarsi — alla lunga risulta frustrante anche nei confronti di se stessi, pur se è vero che, per la donna, la soddisfazione maggiore viene dall’ammirazione e dal desiderio che sa suscitare, più che nell’atto sessuale in se stesso.

In ogni caso, a lungo andare, questo modo di porsi finisce per provocare una vera e propria distorsione dell’affettività e dell’immagine che ha la donna ha di se stessa: come un eroinomane, ella finisce per dipendere, in dosi sempre più massicce, dalla sensazione di potere che le dà il fatto di accendere il desiderio maschile, e, in tal modo, per stimare il proprio valore di persona sulla base di quest’unica prestazione. È curioso: ma, così facendo, la donna moderna si mette da se stessa nel ruolo che tanto detesta, a parole, qualora le venga cucito addosso dall’uomo: quello di donna-oggetto. È quasi superfluo aggiungere che, quando lo specchio le rimanda la propria immagine invecchiata, la donna di cinquanta, di sessanta o settant’anni, se ha impostato la propria esistenza in quella direzione, finisce per provare disgusto del proprio corpo e quindi anche di sé come persona (per lei, non vi è quasi distinzione fra le due cose) e per cadere in uno stato di depressione cronica; oppure si rende protagonista di una inutile e patetica ribellione contro il tempo, e allora incomincia a mettersi in competizione con le giovanissime — con sua figlia, persino con sua nipote — per apparire ancora giovane e, soprattutto, desiderabile. Ma poiché "desiderabile", nell’universo concettuale della donna moderna, coincide con "provocante", è chiaro che il gioco, a un certo punto, diventa grottesco, anche se i mass media, e specialmente la pubblicità televisiva — ad esempio, di una crema antitughe – fanno del loro meglio per alimentare questa pietosa illusione: ossia che un uomo giovane, in un locale pubblico, possa rimanere colpito, e mostrarsi profondamente interessato, dalla madre più che dalla figlia, se le due donne sono sedute assieme e se la più vecchia appare, in qualche modo, più giovanile e più sexy dell’altra. Ma queste cose, pur non essendo impossibili, accadono più che altro in quel magazzino dei sogni che è la realtà virtuale dei mezzi di comunicazione di massa, non nella vita reale; anche se il cinema, per esempio, fa del suo meglio per supportare la cultura femminista anche nella fase della vecchiaia, come quando descrive con compiacimento le avventure erotiche a pagamento di una benestante e alquanto stagionata turista occidentale con qualche gigolò dei paradisi tropicali, mentre, se si verificasse la situazione inversa, cioè di un anziano turista maschio che ha dei rapporti sessuali a pagamento con delle minorenni, la stessa cultura femminista si straccerebbe le vesti per l’indignazione, griderebbe all’infamia e invocherebbe una legislazione severissima per reprimere un così nefando commercio del copro femminile ancora acerbo (cfr. il nostro articolo: Il turismo sessuale fa schifo, a meno che sia quello femminile, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/01/2014).

E ora lasciamo stare le "madonne" moderne, le varie Louise Veronica Ciccone — maestra di esibizioni scandalose, di trasgressione volgare e blasfema, fatta passare per creatività, e di erotismo da postribolo di massa – e le loro emule della vita di ogni giorno, le ragazze e le signore mature della porta accanto, per tornare alla sola Madonna che la cultura europea ha ammirato, venerato, ascoltato per secoli e secoli: la Madre celeste, la Madre di nostro Signore Gesù Cristo. In lei sono evidenti le caratteristiche psicologiche, spirituali e morali diametralmente opposte a quelle ora descritte: il pudore, in luogo della sfrontatezza; la discrezione, in luogo dell’invadenza; la modestia, in luogo del narcisismo; la generosità, in luogo dell’egoismo; la dolcezza, in luogo del cinismo; la gratuità, in luogo dell’opportunismo; la liberalità, in luogo del calcolo. Maria Vergine è la Donna che primeggia su tutte le donne, è la senza peccato, perché la sua volontà si è fatta una cosa sola con quella divina; e la sua vita non è per se stessa, ma per mettersi totalmente al servizio del progetto di salvezza voluto da Dio, e attuato per mezzo della sua pronta, entusiasta, incondizionata collaborazione. Sia fatto di me secondo la volontà del Signore: questa è la frase che riassume il modo di essere di Maria; e questo è il modo di essere che le ha conferito un primato morale fra gli Apostoli, anche dopo la partenza del suo divino Figlio, e che l’ha resa, idealmente, madre della Chiesa nascente e, nello stesso tempo, madre di tutti gli uomini, come una novella Eva, riparatrice del peccato della nostra progenitrice. Eva, infatti, peccò di superbia, perché ascoltò il diavolo che le disse: Sarete come Dio, e fece peccare anche l’uomo, il suo compagno; Maria ha annullato la propria volontà, ha ucciso il proprio io, ha accettato il mistero inaudito della sua Maternità divina, con obbedienza e letizia perfette. Tutta la vita di Maria è un dono: dono totale, dono di se stessa, e non dono di questa o quella parte del suo tempo, della sua disponibilità, della sua personalità. Maria si è interamente annullata per essere una cosa sola con la volontà del Signore: ha fatto, su di sé, ciò che Gesù avrebbe fatto su se stesso: rimettersi interamente al Padre, volere solo quello che vuole Lui, e non ciò che vorremmo noi.

Ecco: questi sono i due modelli, opposti e inconciliabili. Per secoli, il modello della Vergine Maria ha improntato di sé la società europea; con l’avvento della modernità, il secondo modello si è sostituito gradualmente al primo e grazie alla sua capillare penetrazione nell’immaginario collettivo, ha radicalmente modificato il modo di porsi, e di essere, della donna. Se, un temo — un tempo non lontano! — la donna che vestiva in modo provocante e assumeva atteggiamenti disinvolti veniva bollata con la riprovazione morale dei suoi compaesani, ora si è verificato il fenomeno inverso: è la donna pudica e riservata, la donna interamente dedita ai suoi doveri di sposa e di madre, oppure la donna che ha seguito la vocazione religiosa, ad essere oggetto d’ironia, disapprovazione e, non di rado, disprezzo. Lo stesso accade per le giovanissime che pensano solo a studiare, non frequentano i bar o le discoteche, non bevono alcolici, non danno troppa confidenza ai maschietti — per dirla tutta: che conservano la loro verginità – e, soprattutto, che non si vestono, si truccano o si atteggiano in maniera provocante, ad incorrere nell’ironia e, non di rado, in forme di ostracismo o di autentica persecuzione da parte delle compagne più "sveglie" e moderne. E a criticare ed accusare con più forza, con più aggressività, con più inclemenza questo tipo di donna, chiamiamola tradizionale, sono proprio le altre donne: quelle "emancipate", impregnate di cultura femminista, sovente delle divorziate che guardano dall’alto in basso le loro "colleghe" ancor sottomesse alle servitù familiari, e alle quali il fatto del divorzio ha conferito, quanto meno nella loro immaginazione, ma spesso anche nella stima delle amiche, una specie di superiore autorevolezza, quasi un’aura carismatica. Se, poi, qualcuno facesse notare a queste madri moderne ed emancipate, gioiosamente libere nei loro comportamenti, che, per esempio, i loro figli, a scuola e fuori, sarebbero meno disadattati e problematici, complessati e litigiosi, o che le loro figlie sarebbero più tranquille e serene, meno propense alla depressione o ai disordini alimentari, se loro dedicassero un poco più di tempo ai loro bambini e ragazzi, magari rinunciando a qualche seduta dall’estetista o a qualche trattamento per l’abbronzatura, o a qualche shopping con le amiche per acquistare inutili vestiti e prodotti di bellezza — inutili, perché ne hanno già una scorta ragguardevole -, ecco che le interessate, sostenute da tutta la fanfara della cultura femminista e politicamente corretta, scatterebbero in piedi, come leonesse infuriate, per respingere, con sdegno, il tentativo di attuare su di loro l’eterno ricatto della maternità, allo scopo d’imprigionarle fra le mura domestiche e tarpare le ali ai loro sogni. Sono, in fondo, delle romantiche senza saperlo, perché il romanticismo è questo: l’ebbrezza di essere stupidi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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